Stiamo vivendo in un momento storico molto complesso in cui si ha l’impressione che si stia chiudendo un ciclo che si era aperto all’indomani del varo della Costituzione Italiana del 1948. Allora la democrazia appariva come un ideale comune da perseguire dopo l’esperienza delle dittature pre-belliche. E questo diede slancio a nuove idee mettendo a tacere le scelte del passato.
Il trionfo delle idee democratiche avrebbe poi dovuto trovare conferma ed espressione nell’Unione Europea, ma sembra che oggi gli entusiasmi si stiano spegnendo e l’ottimismo stia battendo la fiacca. Si stanno affievolendo le passioni che avevano salutato la fine della Seconda Guerra Mondiale e che avevano annunciato il mutamento del corso della storia.
Segnali di crisi della democrazia contemporanea
Quando cerchiamo di trovare le ragioni di questo torpore, che ha avvolto il pensiero democratico nel nostro Continente, dobbiamo fare i conti con una serie di indicatori che hanno sicuramente profonde ragioni nel comportamento di tutti i Paesi dell’Unione, non solo dell’Italia. Il disinteresse per il voto, la mancanza di fiducia nei confronti dei partiti, la mancanza di impegno nella ricerca di una identità sovranazionale. Ora stiamo assistendo ad un recupero delle identità di ogni specifico territorio, intese come demarcazione di differenza e di distanza tra i Paesi, con la conseguente marginalizzazione del bene comune per il perseguimento di un superiore interesse di parte.
La guerra come soluzione di conflitti
Ma c’è qualcosa di ancora più grave: anche in Europa sta diventando pervasiva l’idea che la risoluzione dei problemi non passa più attraverso il ricorso alla ricerca del compromesso ma attraverso il ricorso alla forza e alla guerra. Questo è tristemente evidente nella mancata ricerca di un dialogo là dove sussistono pericoli di crisi.
A giustificare il trionfo di questo modo sbrigativo di risolvere le conflittualità c’è, forse, l’assenza di figure autorevoli come quelle che, nell’immediato dopo guerra, si erano generosamente impegnate nella ricerca del bene comune, e che erano sostanzialmente presenti in quasi tutti i Paesi dell’Europa Occidentale. La mancanza di figure carismatiche, che testimonino libertà e diritti, possono accelerare il diffondersi delle politiche di prevaricazione e dei nazionalismi.
Le ricadute nel mondo della scuola
La crisi di partecipazione democratica e il ricorso ai conflitti nella risoluzione dei problemi sono due test fondamentali di questo momento storico, che hanno finito col riverberarsi anche nel mondo delle istituzioni, a partire dalla scuola.
Nel secondo dopo guerra e fino agli anni della contestazione del ’68 (basti guardare agli insegnamenti e al pensiero di Don Milani) si era registrata un’ascesa costante dei valori di libertà e di democrazia anche nella legislazione scolastica dei vari Paesi, a partire dall’Italia. Nel corso del nuovo secolo, invece, al primo posto tra le priorità troviamo il “merito”, non inteso come legittimo riconoscimento dell’impegno e della competenza individuale a servizio della collettività, bensì come attenzione alle dotazioni intellettive individuali. Così interpretato, il merito finisce col marginalizzare i bisognosi e i fragili e rischia di tradire il diritto alle uguali opportunità che la democrazia deve garantire.
È vero che le politiche inclusive hanno fatto registrare esiti a volte disomogenei su cui molti hanno espresso riserve, ma è altrettanto vero che l’Italia è un paese sempre all’avanguardia nella battaglia delle libertà e dei diritti di ciascuno. Dobbiamo tuttavia riconoscere che ora rischiamo di perdere quello smalto che fino ad oggi ci aveva caratterizzato.
Il pericolo di un ritorno al passato
La cosa che più preoccupa nel mondo scolastico è un ritorno di fiamma dei valori gentiliani, specialmente quelli che mettono al primo posto le persone più capaci e che dimenticano i più deboli. L’emergere ti tale situazione porterebbe alla graduale, ma inesorabile, rinuncia di quei valori democratici su cui si fonda la garanzia di accesso alla formazione indipendentemente dalle situazioni personali di partenza. Intesa così, la valorizzazione dei talenti e del merito potrebbe mettere in crisi il concetto di uguaglianza delle opportunità, a vantaggio di una scuola selettiva e per pochi, negando di fatto valore ai principi ed ai valori del bene comune che la democrazia politica e culturale del secondo dopo guerra in poi aveva cercato di perseguire.
Un campanello d’allarme: il voto in condotta
Molto sono le spie che testimoniano la tendenza verso scelte valoriali pregresse. Una di queste, per esempio, è la nuova centralità che sta assumendo il voto di condotta.
Non c’è dubbio che ci sono stati episodi che hanno riportato l’attenzione sui comportamenti degli studenti e sulla necessità di farne oggetto di riflessione e di valutazione. Anche di fronte ad alcuni episodi di violente contestazioni da parte di genitori per le misure sanzionatorie delle scuole nei confronti dei loro figli, fa molto riflettere. A livello nazionale si è ritenuto opportuno provare a proporre alcune misure che possono essere definite di natura repressiva, tra cui il ripristino del voto di condotta che, da parti di molti, è sembrata una presa di posizione eccessiva. Si comprende la necessità che la scelta normativa debba assumere un carattere deciso, ma ciò non significa che bisognava far ricorso necessariamente a misure meramente punitive. Sarebbe stato opportuno, per non interrompere il dialogo educativo, forse ricercare altre formule volte a fare acquisire una maggiore consapevolezza dei propri comportamenti.
La crisi del comportamento è una questione sociale
I bambini e i ragazzi cresciuti in un clima permissivo non sempre sono consapevoli quando assumono un comportamento inadeguato. Questa mancanza di consapevolezza può degenerare in comportamenti istintivi che anche nelle famiglie non trovano azioni di contenimento.
Ad esempio, ha colpito il fatto che in molti casi i genitori stessi si siano rivalsi contro i docenti che avevano adottato misure sanzionatorie per comportamenti ritenuti non coerenti con i Regolamenti scolastici.
Qui è emersa la debolezza di iniziative dello Stato democratico che ha reagito, a parere di chi scrive, d’impulso anziché ricercare misure di dialogo volte a modificare gli atteggiamenti scorretti e a costruire comportamenti sani. La risposta delle istituzioni, attraverso misure repressive e meramente punitive, mette a rischio anche il principio delle uguali opportunità, che in democrazia non possono mai essere messe in discussione. Sono riemerse posizioni gentiliane che hanno privilegiato il concetto di merito e di eccellenza, sic et simpliciter, o di forme di censura, non tenendo in debito conto le condizioni degli alunni provenienti da ambienti familiari e sociali caratterizzati da povertà educativa.
Istruzione di qualità o qualità dell’istruzione?
Un altro segnale che indica la debolezza della scuola democratica è quello che enfatizza l’istruzione di qualità anziché la qualità dell’educazione. Il ripristino della centralità dell’istruzione equivale ad esaltare l’autorità dei docenti. Ricorrere al voto come espediente per ottenere un comportamento più corretto non è certamente educativo, ma solo strumentale. È da qui che a volte proviene il dissenso tra i docenti e le famiglie degli alunni, spesso rovinosamente sfociato in forme di reazione che hanno portato alcuni genitori a farsi giustizia da soli, considerando i propri figli vittime dei trattamenti dei docenti sul piano valutativo.
Molte famiglie, nella sostanza, non accettano valutazioni restrittive per i propri figli perché queste sarebbero la testimonianza palese di una effettiva inferiorità culturale. La crisi del dialogo fra scuola e famiglia è l’espressione di un malessere che la scuola democratica non ha saputo gestire: il ricorso ai tradizionali comportamenti repressivi, di fatto, hanno ignorato il valore educativo di una sana contestazione.
Una soluzione facile ma non efficace
La scuola democratica ha sicuramente avuto le sue colpe. La responsabilità di questa situazione negativa va ricondotta anche al dilagare del permissivismo che, molto spesso, è stato considerato come la modalità più semplice per risolvere problemi complessi.
Una volta però preso atto che il permissivismo non poteva costituire la soluzione ai problemi, l’istituzione ha riscoperto la strada della censura anziché quella del dialogo. Dalla censura non si crea benessere, dalla censura non scaturisce mai un clima positivo; dai disagi adolescenziali e generazionali, in un clima repressivo, non emergeranno mai le energie da trasformare in saperi e competenze.
Costruire il dialogo per perseguire gli obiettivi
Non c’è dubbio che per realizzare un modello di scuola che ponga attenzione alle uguali opportunità e che persegua l’ideale del successo formativo di ognuno, la scuola non può offrire soluzioni semplicistiche, ma deve tendere al perseguimento di obiettivi che rifiutino metodi autoritari a vantaggio del dialogo tra scuola, famiglia e società.
Se vogliamo essere coerenti con il dettato costituzionale, che garantisce democrazia e uguali opportunità, occorre stimolare negli alunni la necessità di modellare i propri comportamenti nel rispetto della convivenza civile. Non è pensabile abbandonarsi al permissivismo perché porterebbe inevitabilmente verso la deriva dell’autoritarismo. È solo attraverso il dialogo costruttivo e rinunciando a risposte meramente repressive che si possono attivare strategie efficaci, quelle che portano alla conquista di nuove sicurezze.