Ad assistere ad un colloquio di Esami di Stato del secondo ciclo si prova un mix di sconforto misto a perplessità, che potremmo definire epistemologica. Sono anni che il legislatore tenta di dare a questa fase dell’esame un sapore trasversale, fin dalla prima riforma dell’esame targata Berlinguer, e quel che oggi abbiamo sotto gli occhi è l’ennesimo tentativo, avviato nell’anno scolastico 2018-2019, di fare di questo colloquio un’occasione per integrare i saperi. Occorre tuttavia riandare alle premesse epistemologiche di questa continua rivisitazione del problema, che ha attraversato la fase della terza prova e della cosiddetta “tesina”, passando attraverso il famoso “elaborato” del ministro Bianchi che aveva proprio lo scopo dichiarato di mandare in soffitta la tesina.
La roulette del documento ignoto
Quel che però continua a suscitare perplessità – e sorprende che non la susciti proprio nel decisore politico – è la fase iniziale dell’attuale colloquio, che prescrive la somministrazione al candidato di qualcosa a lui sconosciuto – un testo, un’immagine o altro – su cui esercitare la propria capacità di collegare i saperi. Chi ha visto all’opera i candidati degli ultimi anni avrà constatato l’arrampicata sugli specchi determinata da questa sorta di roulette del documento, con i commissari intenti a lanciare ciambelle di salvataggio laddove, com’è alquanto prevedibile, la candidata o il candidato non riesca a produrre più che qualche balbettio culturale.
Come è difficile collegare i saperi
A chi giova tutto ciò? O, per meglio dire, quale oggetto di valutazione entra in gioco a questo livello del colloquio? Disinvoltura linguistica? Arte di arrangiarsi? Prontezza di spirito? Cultura generale? In realtà, si ha la sensazione che, se lo scopo da raggiungere è l’osservazione sul campo di una competenza culturale, la via attualmente perseguita di competenze culturali potrà osservarne ben poche. Perché non sono culturali, e neppure competenze. Sono sforzi di collegare esteriormente un argomento disciplinare con un altro. D’altra parte ciascuno dei commissari, come accadeva per la tesina, è pronto a mettere in scena la tradizionale conversazione nell’ambito della propria disciplina, con buona pace dell’integrazione dei saperi: “e ora passiamo alla Fisica…”.
È possibile riflettere su ciò che non si conosce?
Se nelle prime due prove il candidato deve dare occasione di esibire competenza di scrittura e competenza specifica nella disciplina di indirizzo, nel colloquio la competenza da esibire non si può improvvisare. A nessun adulto si può chiedere di intavolare una riflessione competente di fronte ad un oggetto culturale che non ha mai visto. La competenza si sviluppa nel tempo, mettendo in gioco le specifiche conoscenze e abilità disciplinari al servizio di una ricerca complessa su un tema che l’allievo sente adatto ai propri interessi. Peraltro c’è tanta enfasi sul curriculum dello studente, sulla personalizzazione e adesso anche sull’orientamento che non si comprende come mai proprio al colloquio d’esame gli interessi culturali degli studenti non debbano entrare in scena. Per questo si è del parere che, lungi dall’improvvisare, il candidato debba esibire il frutto di una ricerca condotta durante tutto l’anno scolastico con la tutoria di uno o più suoi docenti.
Il potenziale delle discipline
Le discipline scolastiche hanno in sé stesse il potenziale necessario al proprio trascendimento come spazio chiuso e nozionistico. Ogni disciplina può essere insegnata esplicitando il suo metodo di ricerca, ovvero i modi e le categorie interpretative di cui si serve per rappresentare il reale. Se ciascun insegnante ad inizio d’anno, in fase di progettazione, dichiarasse gli ambiti culturali di ricerca cui la propria disciplina è maggiormente votata e l’insieme di questi ambiti venisse offerto alla classe affinché ciascun alunno decidesse su quale spendersi, sarebbe possibile immaginare una sorta di “corso monografico” che un solo studente o un gruppo di alunni potrebbe svolgere lungo il corso dell’anno scolastico.
Il valore dell’interdisciplinarità
A parere di chi scrive il colloquio d’esame, lungi dal curiosare sulla capacità improvvisativa del candidato, dovrebbe esplorare proprio il frutto di questa ricerca interdisciplinare, e le competenze disciplinari dei commissari, lungi dall’andare a rovistare tra gli argomenti di un “programma” sul quale i ragazzi sono già stati verificati per l’ammissione, potrebbero utilmente esercitarsi dentro questo spazio d’indagine gestito dall’allievo. Se il candidato, ad esempio, ha voluto spendersi sul concetto di “patrimonio culturale” negli ultimi due secoli e ha presentato un lavoro complesso con apporti multidisciplinari, sarà cura dei commissari dismettere per un’oretta il proprio recinto contenutistico ed accedere allo spazio culturale proposto dal candidato, che certamente chiamerà in causa aspetti linguistici, storici, scientifici, giuridici, geografici e quant’altro.
Una sfida culturale
Il presupposto di questa riflessione è più coerente con l’intento profondo del legislatore di quanto non lo sia l’attuale liturgia del documento ignoto proposto dalla commissione. Infatti soltanto mettendo al lavoro gli allievi in modo prolungato su un progetto di ricerca, da essi stessi scelto, che si nutra di molteplici apporti disciplinari, si avrà la possibilità di osservare in essi ciò che il legislatore auspica, ovvero lo sviluppo di competenze culturali e di un metodo di ricerca che davvero segni un salto di qualità rispetto a quanto già verificato in sede di ammissione.
Soltanto in tal modo, a parere di chi scrive, l’Esame di Stato potrà costituire una sfida culturale decisiva per l’allievo, che per la prima volta assumerà la veste di “esperto” in un consesso di esperti.