Il 2007 è certamente una data “cerniera” di profondo e trasversale cambiamento della società, paragonabile ai grandi eventi che hanno impresso mutamenti e accelerazioni a livello storico: il lancio del primo iPhone e la graduale e costante diffusione degli smartphone. Da quella data, con tante spinte gentili, il digitale è diventato una dimensione del nostro esistere, tanto che oggi, come dice il filosofo Luciano Floridi[1], è diventato davvero impossibile poter discriminare quello che agiamo in analogico da quello che agiamo in digitale. Sono due dimensioni della realtà quotidiana, totalmente integrate, come l’acqua dolce e quella salata in un’acqua salmastra.
Superare la dicotomia “reale” e “virtuale”
La vulgata di questi anni ci aveva abituato all’ennesima dicotomia polarizzante fra realtà (il de visu) e virtualità (il digitale); è un luogo comune che l’esperienza quotidiana di ognuno di noi può disinnescare. Viviamo “onlife” e tutto ciò che “agiamo” in digitale ha ripercussioni sull’analogico e viceversa. Viaggiando, utilizziamo mappe digitali che ci guidano e ci portano a destinazione; cucinando consultiamo in rete siti specializzati per dosare gli ingredienti; correndo, utilizziamo applicazioni di monitoraggio cardiaco e di misurazione delle distanze e della velocità; ascoltiamo musica e la condividiamo fra di noi in digitale, guardiamo gli eventi sportivi in digitale, seguiamo film e serie in digitale, affidiamo alle app dedicate i bilanci energetici e l’impatto nutrizionale degli alimenti, utilizziamo i registri elettronici scolastici, acquistiamo i biglietti per i trasporti, per gli eventi culturali; accediamo con spid o Cie ai siti istituzionali di servizio pubblico come il fascicolo sanitario, l’agenzia delle entrate, l’INPS; ogni nostra relazione-comunicazione personale e professionale viaggia sul “de visu” e sulle app di messaggistica. Non viviamo la realtà dell’onlife in modo schizofrenico dicendoci “ora sono analogico”, “ora sono digitale” ma l’interazione continua fra le due dimensioni è l’assoluta normalità. Un “nativo digitale” non nasce “imparato” ma nasce nella certezza e nella consapevolezza che la normalità sia l’onlife in tutte le sue manifestazioni e interazioni quotidiane.
Il digitale come capro espiatorio per l’adulto non consapevole
Se da un lato ormai tutti abbiamo la contezza di vivere onlife e utilizziamo più o meno consapevolmente il digitale, dall’altro è diffusa la semplificazione di riferire al digitale la responsabilità di molti comportamenti dei nostri adolescenti. Non ci si rende ancora conto che il digitale è uno spazio e un tempo di relazione ed interazione, uno strumento di “estensione” delle facoltà umane e che sono i comportamenti e le relazioni umane, come è sempre stato, a condizionare scelte e comportamenti. Citando alcuni passaggi illuminanti dello psicologo Matteo Lancini[2], perché un adolescente non dovrebbe dare particolare centralità al selfie, dopo essere cresciuto in contesti famigliari in cui ogni occasione lieta, significativa, di festa, di incontro è stata sottolineata con continue e condivise fotografie? Perché un adolescente non dovrebbe ricercare e rimanere del tempo sui videogiochi online, in collegamento con i suoi pari finalmente senza la presenza asimmetrica di un adulto che regoli e sorvegli? Perché gli adolescenti non dovrebbero spostarsi da un social ad un altro, evitando l’ingresso massiccio del mondo adulto negli stessi social (prima su Messanger, poi su Facebook, poi su Instagram, poi su tiktok… ora i nostri ragazzi e le nostre ragazze si stanno spostando su BeReal), esattamente come si comporterebbero in una dimensione analogica, in una piazza o in un locale?
Se viviamo onlife, la scuola può essere fuori dalla realtà?
Perché, noi mondo adulto, riteniamo invasivo ed eccessivo il mondo digitale dei nostri figli quanto lo usiamo normalmente come scorciatoia per “tenerli” cheti a casa, al ristorante o nelle diverse situazioni di vita quotidiana?
È evidente che manchi una consapevolezza educativa su questi temi soprattutto perché non abbiamo avuto ancora modo e tempo di fare un bilancio, una sincera metacognizione su come l’onlife ci abbia già cambiato. Abbiamo bisogno di ritrovare una centratura, quella che Ken Robinson chiamava “compostezza”. Anche e soprattutto nella scuola e nell’educazione.
Può d’altronde questa riflessione restare fuori dalla scuola? Può rimanere fuori dal progetto educativo? Può la scuola diventare quello spazio virtuale, così scollegato e staccato dalla realtà tanto da costituirne una simulazione mal riuscita, una sorta di mondo parallelo in laboratorio, una teca pedagogico didattica di un’epoca passata?
Le risposte sono tutte dei “no”. Ma come? Come possiamo introdurre anche la scuola nella dimensione dell’onlife?
La mediazione didattica
Occorre semplicemente favorire metodologie innovative che integrino digitale, socio-emotivo e imprenditivo nella mediazione didattica, evitando il sovraccarico del curricolo. La progettazione è il cuore di questo processo di integrazione, in cui la parola d’ordine non sia “al posto di” o “in aggiunta a” ma “anche”. Dobbiamo imparare a usare il digitale, a proporre la collaborazione e il lavoro in équipe, a favorire attività costruttiviste e creative integrando sapientemente e in modo equilibrato questi obiettivi formativi trasversali e non cognitivi a quelli disciplinari cognitivi. Ecco allora che si può fare educazione al digitale usando il digitale come fonte di contenuti, come strumento di accessibilità e inclusione, come ambiente di collaborazione e partecipazione, come strumento di creazione e progettazione.
I framework della UE come organizzatori logici e strumenti progettuali
Ci sono mille modi per integrare il digitale alla nostra azione didattica, prevedendo anche fasi di lavoro in cui le competenze imprenditive e socio emotive siano valorizzate e allenate. In questo lavoro di progettazione e di sviluppo i framework europei del Digcomp 2.2[3] e del Digcomp Edu, di Entrecomp e di LifeComp ci sono di grande aiuto e vanno visti come “organizzatori logici” a cui riferirci per noi stessi e per i nostri studenti, in perfetta continuità con i documenti legislativi che regolano la vita della nostra scuola, dalle indicazioni nazionali al piano nazionale scuola digitale, dalla legge sull’educazione civica a Scuola 4.0. La parte giuridica che norma la nostra scuola ha recepito e anticipato il cambiamento, la resistenza è in quello che il nostro caro ispettore Cerini chiamava il “curricolo implicito”, il perpetuare l’esperienza che abbiamo vissuto da studenti o che abbiamo vissuto da docenti senza nessuna sintonia con i nuovi contesti, la zona comfort in cui tendiamo ad accomodarci per inerzia. Occorre un cambio di passo ed una maggiore consapevolezza del presente e un po’ più di coraggio. Occorre lavorare di più in team e programmare con maggiore trasversalità, capendo che oggi le competenze disciplinari sono sempre più impastate e integrate fra di loro.
Non stiamo parlando di introdurre le “nuove” tecnologie in classe, come si diceva un lustro fa. Stiamo parlando di integrare la didattica ai nuovi linguaggi, come esigenza educativa prioritaria.
Se il docente saprà accogliere questa sfida e si proporrà come progettista, come designer, come coach degli apprendimenti, allora avrà un futuro ed una missione fondamentale. Se rimarrà un amplificatore di contenuti, sarà giustamente e facilmente sostituibile e quella mission sarà assolta da altri soggetti.
Digitale ed analogico: la strada per migliorare l’insegnamento
Occorre pensare onlife, progettare, per esempio, una unità di apprendimento su Leopardi in cui i contenuti siano esperiti da un lavoro di ricerca anche in digitale, rielaborati in una attività autentica, per esempio di podcasting, attraverso lavori a piccoli gruppi, sostenuti da consegne operative precise e ben osservabili e valutabili.
In una unità di apprendimento sulla cellula, le immagini ottenute dal microscopio digitale in classe possano essere condivise sulla piattaforma di classe e classificate e descritte sulle pagine di un blog creato dagli studenti.
Già da questi piccoli esempi emerge subito che centrali non sono solo i contenuti e le modalità di lavoro, ma anche le metodologie adottate[4], che vanno conosciute dai docenti e praticate sul campo. Solo con metodologie efficaci saremo in grado di garantire quell’integrazione fra digitale e analogico, fra competenza cognitiva e non cognitiva, formale e non formale.
Potremmo andare avanti con decine di esempi. Molti sono rinvenibili in una recente edizione di Studi e Documenti[5] proposti dall’équipe Formativa USR Emilia-Romagna/Servizio Marconi TSI. La direzione è questa, la costruzione di un ecosistema in cui analogico e digitale, scuola e territorio, formale e non formale, cognitivo e non cognitivo si integrino in una progettazione consapevole e funzionale. Abbiamo bisogno di docenti sempre più “designer” degli apprendimenti e meno “transistor” di informazioni.
[1] Luciano Floridi, Ethics after the Information Revolution, in The Cambridge Handbook of Information and Computer Ethics, Cambridge University Press, 2010.
[2] Matteo Lancini, “Adolescenti navigati. Come sostenere la crescita dei nativi digitali”, Erikson, Trento, 2015.
[3] Da oggi il DigComp 2.2 parla italiano.
[4] Le equipe formative nazionali nell’ultimo biennio hanno lavorato moltissimo su questa consapevolezza, con la proposta di “Innovamenti”.
[5] La Didattica nella Scuola 4.0 – Nuova pubblicazione SMtsi/EFTER.