Nei vent’anni che ci separano dall’inizio di questo millennio, la scuola italiana ha progressivamente preso possesso della propria autonomia, prima confidando su norme e regolamenti generali, successivamente dando a questi stessi pratica ed esercizio. Abbiamo visto in questi anni il ruolo diverso che hanno assunto gli Stakeholders, come pure i mutati rapporti con gli Enti territoriali; abbiamo assistito al cambiamento nella gestione amministrativa e contabile delle scuole; abbiamo imparato a realizzare curricoli e tante tipologie di progetti; sono nate nuove figure professionali e le reti di scuole; abbiamo imparato a costruire una didattica più inclusiva e laboratoriale; siamo più sensibili alla valutazione formativa e alla costruzione di ambienti di apprendimento; sono nati i Piani educativi personalizzati e tanto altro ancora. Tutto ciò ha permesso al sistema scuola di rimanere attivamente dentro il proprio tempo sociale, dando risposte (o almeno cercando di darle) alle complesse dinamiche di un presente in perenne stato di mutazione.
I problemi endemici che si frappongono al miglioramento
Non sempre questo processo è stato semplice. Persistono infatti questioni endemiche che rischiano frequentemente di complicare l’organizzazione stessa delle scuole, le quali sono ben consapevoli degli aspetti prioritari e cruciali di cui si devono occupare (come le didattiche). Molto spesso devono però fare i conti con la mancanza di alcuni supporti e di quelle azioni di accompagnamento che invece sono necessarie per rinforzare e consolidare i processi. Nel sistema scuola, per fare un esempio, si ripropone frequentemente la questione del turn-over del personale docente e amministrativo e, anche se forse meno frequentemente, quella del turn-over della dirigenza scolastica.
Al di là di ogni legittima ragione contrattuale, il cuore della questione risiede spesso nella apparente involontarietà di alcuni fenomeni che mettono a rischio le stesse finalità di ogni istituzione scolastica. Si pensi al personale precario, a volte impegnato su più sedi e alla frammentazione degli stessi incarichi; si pensi alle Istituzioni scolastiche con tanti plessi disseminati su territori geograficamente e/o socialmente disagiati; oppure alle classi sovraffollate per le quali il fabbisogno di piani e insegnamenti personalizzati si scontra proprio con il numero elevato di studenti. Bisogna fare i conti con i cambiamenti nelle relazioni personali e istituzionali, anche come conseguenza della cultura digitale e del flusso enorme di informazioni (infodemia) che oggi rende anche difficile orientarsi nelle scelte. Sono in buona sostanza proprio queste le ragioni che ostacolano la coerenza interna nella gestione della scuola e la costruzione di una buona offerta formativa.
La difficile strada della condivisione
Pur nella consapevolezza dei problemi endemici del nostro sistema d’istruzione, un punto fermo da cui partire per porsi nell’ottica del miglioramento è, comunque, quello della condivisione delle responsabilità di tutti i soggetti direttamente coinvolti nella gestione dei processi di apprendimento e nella promozione delle finalità educative (Dirigente, docenti, personale amministrativo e collaboratori).
Il personale scolastico è un corpo multiplo, è un insieme di aspettative, un coacervo di pensieri, una rete di esperienze non necessariamente armonizzate, anzi, a volte già dense di zone di conflitto. Nel quotidiano di un’istituzione scolastica convivono (non sempre pacificamente) emozione e logica, personalismo e professionalità, entusiasmo e stanchezza, ottimismo e rassegnazione, impegno e fretta di tornare a casa. Il Dirigente scolastico, che orienta le dinamiche organizzative, deve poter considerare le tante forme di convivenza e la varietà delle prospettive, cercando fin da subito una sintesi verso cui ricondurle, spostando le singole attenzioni e cercando di finalizzarle verso un progetto condiviso e verso una mission comune.
Un paradigma identitario
Si tratta di promuovere un paradigma identitario dell’Istituzione scolastica dentro il quale le diverse individualità convergano: ciascuna con il proprio bagaglio di competenze professionali, di esperienze emotive e di voglia di mettersi più o meno in gioco.
La relazione educativa docente-studente (e per reciprocità studente-docente) non può esimersi per sua natura da componenti affettivo-emotive, senza le quali l’apprendimento si ridurrebbe a una pura trasmissione di saperi. Gli studenti comunicano tra loro e con i loro docenti, i docenti comunicano tra loro e con gli staff organizzativi, col Dirigente e con i suoi collaboratori, con il personale amministrativo, con i collaboratori scolastici, con le famiglie, in una dinamica complessiva di scambio e reciprocità, a seconda delle situazioni che si costruiscono nei diversi contesi, in una rete complessa di individualità.
La scuola come Learning organization
Questa prospettiva, di cui il sistema scolastico ha cominciato da diversi anni a prendere opportuna coscienza, richiede riflessioni, modelli e buone pratiche di riferimento. L’OCSE, per esempio, ha pubblicato nel 2016 un rapporto dal titolo “Che cosa rende una scuola un’organizzazione che apprende?”[1]. In esso viene proposto un modello organizzativo a più dimensioni che gli autori identificano sostanzialmente in sette punti:
- sviluppo e condivisione di una vision centrata sull’apprendimento di ogni studente;
- creazione e sostegno delle opportunità di formazione continua per tutto lo staff;
- promozione di team di apprendimento e collaborazione all’interno dello staff;
- creazione di una cultura della domanda, dell’innovazione e della ricerca;
- creazione di un sistema di raccolta e scambio di conoscenza e apprendimento;
- apprendimento e scambio con l’ambiente esterno;
- sviluppo di una leadership condivisa per l’apprendimento.
Condividere una visione comune
La proposta OCSE tende a costituire un modello organizzativo nel quale le parti possano avere una visione più ampia del sistema entro cui si trovano a operare, superando i vincoli dettati (ma più spesso autoimposti) dal solo ruolo che il singolo professionista ricopre nel sistema stesso. Condividere una visione comune significa trovare ragioni etiche del proprio mestiere e servirsene per migliorare il benessere comune. Ma significa anche condividere coerenza nelle scelte didattico-educative, nei rapporti con studenti e genitori, nel manifestare, incoraggiare e promuovere domande e fabbisogni, nel dare attenzione alla comunicazione interna ed esterna attraverso modi e tempi utili a costruire relazioni, nel considerare la documentazione prodotta dalla scuola come strumento identitario e non burocraticamente prescrittivo, sia che riguardi regole organizzative e/o di pianificazione, sia che riguardi pratiche didattiche. Per fare qualche esempio basti pensare ad una programmazione didattica di Istituto che faccia riferimento alle metodologie dell’apprendimento cooperativo, o alla realizzazione di compiti di realtà, che possa coinvolgere a vario titolo tutte le classi e non soltanto quelle che, per ragioni più diverse, sembrano prestarsi ad una migliore efficacia di risultati; oppure si può pensare alla gestione alla progettazione che non sia delegata esclusivamente alle figure di sistema e agli uffici di segreteria ma che, nelle sue diverse fasi, coinvolga, a vario titolo, le componenti della comunità professionale.
La scuola come organizzazione che apprende attua in sostanza un modello di leadership condivisa dove l’esercizio del proprio ruolo diventa relazione motivata e responsabile, superando le tentazioni e i limiti dell’autoreferenzialità. Rappresenta un’idea di scuola nella quale le frammentazioni, le criticità, quell’involontario, ma spesso frequente, dover ricominciare ogni volta da capo, possano venire riassorbiti dall’istituzione che si fa sistema, per cui la visione identitaria della singola istituzione considera e accoglie le proprie precarietà che diventano punto di partenza per scelte più adeguate[2].
Il robot Genghis e la metafora del cervello
I presupposti teorici del modello Learning organization non nascono dalle ricerche sul sistema scuola. Gareth Morgan[3], per esempio, definisce la Learning Organization come un modello auto-regolativo utilizzando la metafora del cervello che processa informazioni. Morgan definisce la metafora del cervello come messa in sequenza di un sistema informativo, collegato ad un sistema comunicativo che si completa in un sistema decisionale. L’autore, per spiegare meglio l’accostamento, racconta l’esempio del robot Genghis, realizzato da Rodney Brooks, un ricercatore del MIT. Si tratta di uno scarafaggio meccanico, ogni sua zampa è dotata di un sensore in grado di percepire l’ostacolo e conseguentemente di far compiere alla singola zampa l’azione appropriata per superarlo: il corpo dello scarafaggio-automa non è un cervello centrale ma un insieme di strumenti di semplice connessione tra le informazioni pervenute dai sensori delle zampe, in grado perciò di trasmettere in modo coordinato l’informazione dell’ostacolo percepito da una delle zampe alle altre cinque zampe che potranno azionarsi coerentemente a quell’informazione. Ciascuna zampa è quindi autonoma, percepisce l’informazione-ostacolo che trasmette attraverso i connettori situati nel corpo e decide l’azione che deve compiere per affrontare a sua volta l’ostacolo (allo stesso modo le altre cinque zampe, una volta raggiunte dall’informazione). Le zampe sono dunque unità autonome, non devono rispondere a un sistema integrato di coordinamento. La fluidità di movimento di Genghis deriva dalla reciprocità degli impulsi informativi che le zampe scambiano tra loro.
Il robot Genghis, rispetto agli attuali risultati della ricerca, rappresenta un prototipo elementare, tuttavia ancora molto efficace per “comprendere come l’azione intelligente possa essere il risultato di processi quasi autonomi collegati da un insieme limitatissimo di regole chiave”[4].
Mettere gli errori a sistema
La Learning organization, dunque, si fonda sulla condivisione e sullo scambio di conoscenze e responsabilità. Certamente, può succedere che un processo non riesca a centrare l’obiettivo, si può, quindi, “sbagliare”. Ma, qui, anziché ripartire da capo, l’errore può essere ricondotto a sistema, diventando conseguentemente una opportunità.
Una importante discussione sulle strategie attorno a questi temi è stata al centro dell’evento on-line “Learn from Mistakes, l’errore come occasione di apprendimento nelle organizzazioni”, del 31 gennaio scorso, promosso da Niuko[5] nell’ambito del progetto Maps for Future. Un’organizzazione che apprende deve sapere che comunicazione, informazione, decisione hanno a che fare, per esempio con il carattere oppositivo dei propri interlocutori e soprattutto con l’imprevedibilità di fini eterogenei. Ricordiamo, per esempio, che fu una comunicazione istituzionale involontaria e maldestra che accelerò la definitiva caduta del muro di Berlino[6]. Ma è anche vero che è proprio la comune tensione verso il nuovo e verso la ricerca, che rende un’Organizzazione che apprende capace di ricondurre le emergenze, il routinario e il precario a diventare parti di un sistema che le ricomprenda responsabilmente: “chi non innova non fa errori, ma sbaglia”. È questo il presupposto da cui è partito l’evento Maps for Future del 31 gennaio scorso.
La reciprocità richiesta agli studenti nei confronti della proposta formativa che li riguarda dovrebbe avere la medesima natura di quella che unisce i professionisti dell’istituzione scolastica nel momento in cui la propongono, la monitorano o l’aggiornano, nel pensarla, cioè, costantemente come occasione di miglioramento e presupposto per acquisire una visione comune e condivisa della società.
[1] Marco Kool – Louise Stoll, What Makes a School a Learning Organization? n.137 OECD University College London, 2016.
[2] È interessante (e importante) evidenziare, tra l’altro, come lo stesso ambiente INDIRE stia considerando da qualche tempo il sistema della Learning Organization OCSE di Kool e Stoll, dedicando ad esso proprio quest’anno, uno degli armadi del progetto Biblioteca dell’Innovazione, per promuovere la raccolta di pratiche organizzative orientate verso questa materia.
[3] Gareth Morgan, Images – Le metafore dell’organizzazione, Franco Angeli Milano, 1989 (1°ed.).
[4] Gareth Morgan, cit., p. 107.
[5] Cfr.: https://mapsforfuture.niuko.it.
[6] Cfr.: Massimiano Bucchi, Sbagliare da professionisti – Storie di errori e fallimenti memorabili, Rizzoli, Milano, 2018.