La pedagogia e l’educazione non fermano i folli. Maestri e professori possono continuare a pensare e dire che la guerra, il litigio violento, le oscenità sono un male per l’uomo e per la vita sociale ma… cosa abbiamo fatto e possiamo ancora fare per costruire una pedagogia della Pace?
Ragionevolmente pessimisti?
Cosa c’è oltre le bandiere arcobaleno che hanno invaso le nostre scuole e ben oltre quelle piccole cerimonie di accoglienza delle bambine e dei bambini Ucraini?
Ci sono morti e feriti, eroi ucraini, prigionieri, qualche disobbedienza nell’esercito invasore, tante perplessità in chi protesta in Russia (dove si rischia la prigione), paesi distrutti… una grande sofferenza per tutti.
Ci sono infiniti paragoni e riflessioni sulle tante guerre contemporanee: Siria, Yemen, Afghanistan, Iraq, Filippine, Nigeria, Somalia e tante altre zone del pianeta dove si continua ad uccidere ed affamare tanta povera gente.
È abbastanza logico essere pessimisti. È abbastanza comprensibile essere presi dallo sconforto se si è educatori e se si guarda lontano pensando al futuro delle nuove generazioni. A volte addirittura si pensa che l’educazione stessa sia fallita e sia stato inutile, o addirittura rovinoso, il continuare a credere nell’educazione alla pace ed allo sviluppo, al rispetto dell’ambiente, all’interculturalità, ai diritti umani, alla sostenibilità, alla legalità…
Quel brutto mal di testa che ti coglie guardando la TV
Le agenzie di informazione sembrano cinicamente voler mettere il mondo e i cittadini davanti ad una realtà che va oltre ogni idea, speranza, progetto, sogno.
TV, media, pubblicità, social e perfino gruppi di pari… sono tutti coinvolti nel dire che alla guerra si debba rispondere con la guerra…
È davvero un pugno nello stomaco che si alterna ad un fitto mal di testa figlio degli sbalzi di pressione in questa primavera strana.
Qualcuno saggiamente dice che “ci vuole il tempo che ci vuole” e silenziosamente rispondiamo, quasi intimoriti dalla nostra ingenua irrealtà: ma dopo tremila anni ancora dobbiamo aspettare?
Tutto sembra davvero definitivamente impossibile, eppure… la forza delle idee nasce dalla gestione dei contrasti.
Realismo della guerra e sogno della pace
Qui c’è un contrasto fortissimo tra il realismo della guerra e il sogno della Pace e di un’umanità intera felice. Gli esperti indicano un numero di circa 15.000 testate nucleari (bombe atomiche) presenti sul pianeta, il 75% possedute da Usa e Russia; gli stessi esperti indicano in 50 il numero di bombe atomiche che possono distruggere irreversibilmente l’umanità sulla Terra.
Proprio sul piano della realtà l’educazione alla Pace e, meglio ancora, la pedagogia della nonviolenza, la gestione e risoluzione dei conflitti possono costruire mattoni ed edifici consistenti per un assoluto cambio di direzione.
Si tratta dell’imparare ad utilizzare – anche sulla base di esperienze storiche non lontanissime – tecniche di trasformazione nonviolenta dei conflitti nella forma e nei contenuti.
D’altra parte la diplomazia era nata anche con questo fine. Chi lavora in diplomazia usa molto spesso modalità relazionali, basate su dialogicità, motivazione e ragionevolezza. La stessa mediazione che deve usare un diplomatico al servizio di un paese democratico quando si siede nello stesso tavolo accanto a responsabili di crimini efferati. Eppure quella mediazione ha il potere di sospendere un conflitto armato per costruire la speranza di un nuovo dialogo per un futuro migliore.
La ricerca educativa per la pace
A scuola occorrerebbe ridurre in tutte le discipline lo studio cronologico del passato molto remoto e lasciare un tempo abbondante allo studio degli ultimi centocinquant’anni in tutte le discipline: storia, geografia, scienze del pianeta, letteratura, musica, arte, tecnologia.
La scuola e l’Università dovrebbero costruire curricoli basati sulle analisi di fatti ed eventi che caratterizzano la nostra società, sulle dinamiche che si instaurano tra persone e gruppi, tra etnie e paesi, tra nazioni piccole e grandi. Bisognerebbe evitare posizioni ideologiche, basarsi invece su analisi e riflessioni pur all’interno della complessità della conoscenza; imparare a trovare soluzioni di conciliazione e di pace. La grande massa di informazioni disponibili permette analisi approfondite a livello scientifico, storico, geografico, letterario.
La ricerca pedagogica sociologica e psicologica ha elaborato modelli efficaci per la costruzione di ambienti di apprendimento in una dimensione ecosistemica (Bronfenbrenner) tali da mettere al primo posto il valore umano e la serenità di ciascuno.
La classe attiva
Sono varie le testimonianze di una pedagogia (forse inimitabile) che ha segnato un tracciato chiaro per costruire un mondo migliore lontano da quello di oggi (Don Milani, Don Roberto Sardelli, Paulo Freire…). La didattica attiva non era e non è solo relazione, dialogicità, senso del gruppo e cooperazione, ma qualcosa di più. Oggi, molto probabilmente, i ragazzi di Barbiana utilizzerebbero, ad esempio, i report de “il Sole 24 ore” per studiare i dati ISTAT[1] con lo scopo di capire e conoscere prima di argomentare.
Si può realizzare una scuola in cui l’indagine viene utilizzata come primo metodo di conoscenza: raccogliere dati che serviranno per altri approfondimenti, costruire poi dibattiti e confronti tra i compagni di classe, ma anche in un contesto più allargato.
Una scuola attiva serve per mantenere viva e rinvigorire la naturale curiosità che i bambini hanno come dotazione naturale quando mostrano il loro bisogno di toccare e manipolare, quando manifestano in forme diverse la loro voglia di sapere e quando si incamminano verso le prime avventure intellettuali.
La cultura nonviolenta
Fare ricerca e fare gruppo non significa evitare conflitti di idee, o punti di vista diversi. Introdurre a scuola la cultura nonviolenta significa, per esempio, partire dal racconto di tanti episodi come quello di Rosa Parks che con il suo rifiuto cambiò la storia dei diritti degli afroamericani. Ma significa anche ascoltare una bambina di quarta elementare che riesce a collegare l’elezione di Obama a Presidente nel novembre 2008, alla storia di Rosa Parks nel dicembre 1955 e all’autobus 2657.
Educare alla nonviolenza è una scelta culturale per rifiutare sempre di più l’uso di una violenza che non è né necessaria né utile.
Johan Galtung, ricercatore e sociologo, distingue tre tipologie di violenza: diretta, strutturale e culturale o simbolica. La prima è quella diretta verso un’altra persona: tortura, omicidio, abuso fisico o psicologico, umiliazione, discriminazione, bullismo.
La violenza strutturale è una forza piuttosto invisibile formata dalle strutture che impediscono il soddisfacimento dei bisogni primari. Da qui apartheid, leggi sulla segregazione razziale, condizioni sociali ingiuste, accesso diseguale all’istruzione, condizioni di vita degradanti, povertà. Se ne deduce che la violenza strutturale (non definibile come indiretta) è un processo che dura molto più della violenza diretta ed è un processo provocato dalle politiche sociali ed economiche di uno o più paesi.
Poi c’è la violenza culturale e simbolica che si manifesta spesso in atteggiamenti e pregiudizi (razzismo, sessismo, fascismo, islamofobia…). È il tipo di violenza che tenta di trovare legami, se non addirittura ragioni, in ideali umani e religiosi, secondo arbitrarie interpretazioni storiche.
Lo studio e l’analisi di tali fenomeni non può escludere il mondo della formazione dalla scuola di base all’Università.
La gestione dei conflitti
Eric Fromm si è dedicato all’analisi dell’aggressività umana distinguendo un atteggiamento assertivo e positivo che difende il proprio punto di vista rispetto ad altri. È quello che Gandhi definiva il satyagraha nella cultura della nonviolenza. L’aggressività degenera in forme negative verso gli altri ritenendo le ragioni dell’altro come improprie o inutili, quanto non dannose, e la decisione di assumere intenzionalmente atteggiamenti di attacco e soppressione violenta dell’altro da sé.
La cultura della nonviolenza è innanzitutto il rifiuto di qualsiasi atteggiamento violento verso l’altro da sé con l’adozione di atteggiamenti costruttivi e creativi dei conflitti con un modello noto come “triangolo del conflitto”.
Nei punti estremi (vertici) dei triangoli si definiscono gli elementi del conflitto e la loro diversa trasformazione in soluzioni distruttive (violente) o costruttive e pacifiste.
Quando cresce e si sviluppa una dimensione conflittuale si generano perciò atteggiamenti e comportamenti che creano contrapposizione e chiusura tra parti, gruppi, singole persone. Quello che vediamo è soprattutto il comportamento ed infatti diamo attenzione e peso alle posture ed alle parole.
Spesso restano nascosti, se non addirittura latenti, gli atteggiamenti (culturali) e le contraddizioni vere e proprie che fanno scaturire il conflitto. In alcuni casi è presente solo una delle tre caratteristiche e il conflitto, se non frenato e ben gestito, sfocia nella violenza che si esprimerà in forme sempre più forti e materialmente visibili.
Il conflitto come contraddizione
La gestione dei conflitti rivaluta il concetto stesso di conflitto inteso non come guerra ma come contraddizione e contrapposizione tra vari soggetti che hanno o potrebbero avere scopi diversi.
Si tratta quindi di un’azione preventiva da utilizzare nelle fasi di crescita.
Alla base di questo percorso c’è l’empatia. Bisogna essere in grado di costruire un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno alla comprensione, senza però compromettere questioni affettive (simpatia, antipatia) e giudizi morali. Si tratta di costruire situazioni che portano al dialogo e ad atteggiamenti positivi nei confronti degli altri, di facilitare la comunicazione nei gruppi, le abitudini al confronto e al dialogo, le attività cooperative e l’ascolto attivo.
Una Primavera piena di arcobaleni…
L’evento della guerra così vicina a noi ha finito per determinare una sorta di didattica dell’emergenza educativa nelle nostre scuole.
Perfino durante le tante feste di accoglienza di alunni provenienti dall’Ucraina gli occhi dei bambini ci guardano e sembrano comunicarci incertezza e insoddisfazione. Adulti un po’ superficiali addebitano tale tristezza al pensiero stesso della guerra, ma i bambini sono sempre un passo più avanti: loro sanno bene che non basterà far oscillare bandierine italiane, ucraine e dei sette colori per sentirsi in pace con sé stessi, i compagni ed i nuovi arrivati.
Forse dovremmo cominciare a riflettere su cosa quei bambini e ragazzi hanno discusso nelle loro aule, prima di essere costretti a lasciarle e cercare altre aule in altri paesi, se a loro volta hanno lavorato con i loro insegnanti per comprendere che tutti sono belli, indipendentemente dal colore dei capelli o di quello della pelle, dal voto in italiano e matematica…
Sì, forse si deve parlare della globalità dei bambini a scuola perché loro, a differenza nostra, vedono più facilmente le soluzioni.
Per ora un bell’evviva a tutti gli arcobaleni che riusciremo a costruire e vedere nel cielo sopra di noi.