Il principio dell’autonomia – che discende dalla legge 59 del 15 marzo 1997 – ha cominciato ad avere conseguenze sull’organico quando, con il DM 234 del 26 giugno 2000, si cercò di individuare una soluzione ai problemi, che in quell’anno si stavano presentando. Ricordiamo che nell’anno scolastico 2000-2001, a seguito della riforma degli ordinamenti (legge 10 febbraio 2000, n. 30, di fatto mai decollata) e in assenza dei decreti attuativi, c’era il rischio di avviare l’anno scolastico in un contesto indefinito. Si decise, allora, partendo dal DPR 275/1999 (art. 8 e art. 12) di conferire una quota di autonomia alle scuole nella misura del 15%. Successivamente, con il DM del 28 dicembre 2005, il ministro Letizia Moratti portò la quota al 20%. Poi, con il DM 47 del 13 giugno 2006, il ministro Giuseppe Fioroni la estese anche al primo ciclo d’istruzione.
Autonomia e flessibilità
Nelle scuole secondarie di secondo grado, la quota di autonomia, dunque, può essere utilizzata nei limiti del contingente di organico annualmente assegnato alle istituzioni scolastiche e senza determinare situazioni di soprannumerarietà, in base all’orario complessivo delle lezioni previsto per il primo biennio e per il complessivo triennio.
Gli spazi di flessibilità permettono, invece, di articolare le aree di indirizzo in opzioni, per offrire risposte efficaci e mirate alle esigenze del territorio e ai fabbisogni formativi espressi dal mondo del lavoro e delle professioni.Questo strumento va ricondotto, tuttavia, ad un quadro di criteri generali definiti a livello nazionale per prevenire il rischio del ritorno ad una frammentazione e disarticolazione dell’offerta formativa.
Quote di autonomia e di flessibilità
Nei Licei, nel secondo biennio la quota di autonomia è stata aumentata sino al 30%, nel primo biennio e nell’ultimo anno è rimasta al 20%, mentre la quota di flessibilità non è prevista (non essendoci aree di indirizzo). Negli Istituti tecnici, la flessibilità è del 30% nel secondo biennio e del 35 nell’ultimo anno. Negli Istituti professionali, secondo il D.lgs. 61 del 13 aprile 2017, si arriva fino al 40% nel secondo biennio e nell’ultimo anno (con 264 ore di personalizzazione degli apprendimenti nel biennio).
Quindi, nel secondo biennio e nell’ultimo anno delle scuole secondarie di secondo grado, l’utilizzo delle quote di autonomia e degli spazi di flessibilità consente di introdurre gli insegnamenti opzionali, secondo quanto previsto dal comma 28 della legge 107/2015 (opportunità rilanciata successivamente dalla nota ministeriale n. 1830 del 6 ottobre 2017).
Gli insegnamenti opzionali
Con la legge 107/2015 (18 anni dopo la 59/1997, 16 anni dopo il DPR 275/1999, 15 anni dopo il decreto 234/2000), nel comma 5 si arriva ad istituire formalmente l’organico dell’autonomia, nel comma 63 a definirlo: “(…) costituito dai posti comuni, per il sostegno e per il potenziamento dell’offerta formativa”, e nel comma 68 a determinarlo “comprende l’organico di diritto e i posti per il potenziamento, l’organizzazione, la progettazione e il coordinamento”. Nella nota 1830/2017 viene ulteriormente precisato che, tra i punti ineludibili del PTOF, ci sono anche i “fabbisogni dell’organico dell’autonomia”, insieme ad altre priorità come l’introduzione degli “insegnamenti opzionali”, grazie all’utilizzo delle quote di autonomia e degli spazi di flessibilità” (come già ricordato, nel secondo biennio e nel quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado).
I docenti dell’autonomia concorrono alla realizzazione del PTOF
Proviamo a rileggere il comma 5 della legge 107/2015. “Al fine di dare piena attuazione al processo di realizzazione dell’autonomia e di riorganizzazione dell’intero sistema di istruzione, è istituito per l’intera istituzione scolastica, o istituto comprensivo, e per tutti gli indirizzi degli istituti secondari di secondo grado afferenti alla medesima istituzione scolastica l’organico dell’autonomia, funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche come emergenti dal piano triennale dell’offerta formativa predisposto ai sensi del comma 14. I docenti dell’organico dell’autonomia concorrono alla realizzazione del piano triennale dell’offerta formativa con attività di insegnamento, di potenziamento, di sostegno, di organizzazione, di progettazione e di coordinamento”.
Una partenza assai incerta
Quindi, non si tratta solo di attività di insegnamento, ma anche di potenziamento, sostegno, organizzazione, progettazione e coordinamento. È, indubbiamente, un grande passo in avanti nell’attuazione reale dell’autonomia della scuola. Però una nota successiva (n. 2852 del 5 settembre 2016), facendo riferimento al comma 5 della legge 107/2015, sottolineava, da un lato, che l’organico dell’autonomia doveva essere visto in una logica unitaria, dall’altro, tuttavia, riconosceva la difficoltà per le scuole di applicarlo in maniera adeguata ed efficace: “Nel corso delle operazioni di definizione dell’organico e di attribuzione dei posti di potenziamento, ciascuna scuola ha avuto la possibilità di verificare la consistenza del proprio organico dell’autonomia, anche se, in questa fase di prima applicazione, indubbiamente, alcuni vincoli, come il piano assunzionale e la mobilità straordinaria, non hanno sempre consentito di trovare una diretta corrispondenza tra le attribuzioni dei posti e la specificità dell’offerta formativa”.
Staff da potenziare
Nella stessa nota 2852/2016 si metteva anche in evidenza che l’organico di potenziamento sarebbe dovuto andare anche a beneficio dell’organizzazione e progettazione, quindi a beneficio dello Staff: “Si pensi, inoltre, alla possibilità di far svolgere ai docenti di staff (collaboratori, coordinatori, referenti, individuati ai sensi dell’art. 25 del D.lgs. 165/2001 e del comma 83 art. 1 della Legge 107/2015) attività di organizzazione, progettazione, coordinamento, in coerenza con il sopra richiamato comma 5 della Legge. Ricordiamo, a tale proposito, che la Legge di stabilità 2015 ha eliminato l’istituto dell’esonero del collaboratore vicario, abrogando l’articolo 459 del decreto legislativo n. 297/1994 e rinviando – di fatto – la questione all’utilizzo dell’organico dell’autonomia”.
Purtroppo, proprio i vincoli posti al potenziamento non sempre hanno consentito di dare forza e sostegno alle figure a supporto all’autonomia della scuola, come middle management, middle leadership, meta-dirigenza.
Rapporto tra potenziamento e piano assunzionale
Di fatto ogni scuola ha dovuto determinare il suo fabbisogno in base alla propria offerta formativa definendo il monte ore degli insegnanti, le quote di autonomia e gli spazi di flessibilità, soprattutto il tipo di potenziamento per raggiungere gli obiettivi prefissati. Le singole istituzioni scolastiche hanno richiesto, fin da subito, quindi, agli USR la concessione di posti dell’organico di potenziamento relativi a specifiche discipline e a classi di concorso. Però nella maggior parte dei casi queste richieste sono state disattese anche perché le classi di concorso dei docenti disponibili quasi mai corrispondevano con le richieste delle scuole. Molti docenti assegnati nell’organico di potenziamento di una determinata scuola (per trasferimento, con titolarità nella scuola stessa, o (allora) anche per chiamata diretta con titolarità nell’ambito territoriale) non hanno potuto insegnare la disciplina della propria classe di concorso perché magari non era prevista nel PTOF della scuola. Di contro molte scuole non hanno potuto usufruire dei docenti richiesti in base alla propria offerta formativa perché quelli assegnati rientravano in altre classi di concorso.
Alla ricerca di una collocazione
Euanto appena decritto è stata la normale conseguenza per aver voluto costruire un organico di potenziamento sulla base di cattedre disponibili per l’immissione in ruolo. È stato però anche un primo tentativo di mettere mano al precariato (come aveva richiesto l’Europa) cercando di affievolire il numero di docenti che da anni prestavano servizio a tempo determinato senza possibilità di stabilizzazione. La scelta del “piano assunzionale” è stata sicuramente motivata e opportuna. L’errore è stato quello di pensare che potesse contestualmente collegarsi funzionalmente anche alle diverse offerte formative delle nostre scuole e diventare la leva strategica per il potenziamento. In realtà, si è venuto a determinare che l’utilizzo di molti docenti si è rivelato molto spesso improprio e a volte anche fantasioso. Molti insegnanti sono stati indotti a girare come globetrotter alla ricerca di una propria collocazione o, comunque, a rimanere “a disposizione” per eventuali supplenze. È stato, di fatto, utilizzato prevalentemente il comma 83 della legge 107/2015 (supplenze) anziché il comma 7 che elenca le priorità formative nazionali a cui ogni scuola deve fare riferimento. Tale fenomeno ha eliminato, in parte, la precarizzazione esterna, introducendola, però, all’interno delle scuole.
Una spirale senza fine
Non solo. Secondo la logica dei compartimenti stagni, anche ora può accadere che un docente di potenziamento (la cui classe di concorso non è funzionale alle esigenze di quella scuola) chieda il trasferimento e lo ottenga; la scuola di provenienza si veda restituire un altro docente appartenente alla stessa classe di concorso, mai prevista nel piano triennale dell’offerta formativa. Si innesca una spirale che sembra non raggiungere mai un punto di ragionevole composizione. Questi problemi non vengono risolti nei livelli territoriali perché gli Uffici scolastici regionali non hanno margini di autonomia sufficiente per impostare diversamente la materia, che attiene, invece, ad un profilo di responsabilità nazionale.
La qualità della scuola e Il benessere organizzativo
Se inizialmente tale situazione poteva essere considerata tollerabile, per lo stato di emergenza e di eccezionalità, permanendo dopo diversi anni rischia di diventare un vero e proprio automatismo disfunzionale. Una Amministrazione che lo tollera disattende ai suoi compiti. Tutto questo ricade inesorabilmente sulla qualità dell’offerta formativa della scuola, sugli esiti di apprendimento degli studenti e anche sul benessere organizzativo, che lo stesso Contratto di lavoro relativo al personale del Comparto Istruzione e Ricerca (triennio 2016-1018) indica come importante materia di confronto (Titolo I, art. 22, comma 8, b4): “la promozione della legalità, della qualità del lavoro e del benessere organizzativo e individuazione delle misure di prevenzione dello stress lavoro- correlato e di fenomeni di burn-out”.
Dopo 6 anni dalla prima applicazione si corre il pericolo che tale meccanismo resti immutabile. Purtroppo, nessuno sembra curarsene, o comunque gli esiti della cura non sembrano ancora efficaci. Come dice Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi a margine dell’episodio dell’Azzecca-garbugli, “D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo”; vale a dire: qualcuno che se ne occupi e non lasci il problema chiuso in un faldone sommerso dai tanti altri faldoni con problemi che oggi appaiono ancora più urgenti.
Studiare una soluzione concreta
Non è facile affrontare e risolvere la questione. Bisogna comunque provarci con coraggio e determinazione: studiare e analizzare le diverse situazioni, ponderare le possibili soluzioni, predisporre gli atti che occorrono, partendo dal presupposto che questi hanno un profilo non solo didattico e organizzativo, ma anche giuridico e normativo. È un processo che dovrebbe essere collocato all’interno delle procedure per la mobilità e delle nuove stabilizzazioni.
È evidente che occorre agire anche sulla base di una disponibilità volontaria e prevedere incentivi. Si tratta di predisporre una programmazione poliennale, a partire dalla richiesta di trasferimento o dalle ordinarie prassi di passaggio ad altra classe di concorso in presenza di conforme abilitazione, sino al passaggio di ruolo. Non si escludono, qualora necessari, corsi di riconversione, con l’esplicita clausola che, nella scuola in uscita, possa verificarsi un cambio della classe di concorso a favore di un potenziamento più compatibile con l’indirizzo degli studi. È inutile pretendere di semplificare ciò che è complesso. Ma questo non significa ignorare l’evidenza. Per provarci occorre condividere il presupposto che il potenziamento è una risorsa che ci può dare frutti migliori.
L’autonomia praticata
La scuola deve poter “opzionare” quella quota di potenziamento che – senza assecondare la retorica dell’autonomia, ma credendo fino in fondo nell’autonomia agita con responsabilità – serva per sostenere il progetto educativo di istituto, il diritto all’apprendimento, nel rispetto della professionalità docente. Sino a quando le scuole non saranno poste in grado di governare l’organico, a partire dal dirigente scolastico, nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, l’autonomia è destinata ad un flatus vocis. Lecito dubitare che ci sia la volontà per sanare una delle eredità del recente passato, che, come altre, poco hanno a che fare con la pandemia. Tuttavia, se ci fosse “un uomo”, ovvero qualcuno in grado di occuparsene, una “volontà politica”, ne trarrebbe beneficio tutta la scuola potendo finalizzare e ottimizzare l’uso delle risorse pubbliche. Questo determinerebbe un rinnovato slancio verso l’ampliamento dell’offerta formativa, oggi rilanciata dai Patti educativi di comunità e dai Piani per l’estate. Il docente avrà in tal modo la possibilità di mettere alla prova l’esercizio costituzionale della libertà di insegnamento, “intesa anche come libertà di ricerca e innovazione metodologica e didattica” (art. 25, comma 3, del D.lgs. 165/2001), all’interno di una autonomia agita, considerata cioè come presupposto per la “ricerca e sperimentazione” (legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 21, comma 10 e DPR 8 marzo 1999, n. 275, art. 6).
Senza un autentico governo dell’organico, potenziamento compreso, difficilmente potranno dispiegarsi le conseguenze utili di una reale autonomia.