In una recente intervista al quotidiano Il Riformista, Luigi Manconi, già Presidente della Commissione per i diritti umani del Senato, editorialista di Repubblica e La Stampa, osserva che le cause della tragica scomparsa della giovane pachistana Saman Abbas sono da ricercare nella “profonda separatezza che intercorre tra noi e gli stranieri”.
Il rischio di generalizzare
Il rischio è che, anche in ambito educativo, tra gli oltre 800.000 studenti di origine straniera che frequentano le nostre scuole ristagnino nicchie contrarie ai più elementari diritti umani. Dirigenti, docenti, ma anche responsabili politici e amministrativi, organi di pubblica sicurezza … non riescono a prevenire con la dovuta efficacia le prassi illecite di particolare complessità.
Per gli italiani, sostiene Manconi, “la prima preoccupazione è quella di tenere a bada gli stranieri e di prendere le distanze da loro, per garantire la sicurezza propria e dei propri beni”.
È sempre rischioso assumere un caso estremo come riferimento di analisi; non dimentichiamo che l’omicidio della giovane pachistana è avvenuto con una complicità molto ampia, in cui i parenti più stretti, a cominciare dalla madre, hanno giocato un ruolo di primo piano.
L’approccio interculturale
La vicenda, in ogni caso, deve interpellare tutti, in particolare coloro che operano in ambito educativo.
Tra i modelli di integrazione dei migranti (assimilazionista, quello francese; comunitarista, quello inglese), l’approccio interculturale, quello italiano, cioè dell’immediato inserimento nelle sezioni (scuola dell’infanzia) e nelle classi (dalla scuola primaria all’istruzione superiore) di tutti i bambini e gli alunni non italofoni, anche di quelli non in regola con il permesso di soggiorno, appare il più efficace, soprattutto perché permette una rapida socializzazione dei ragazzi accoglienti/accolti e una costruttiva “mescolanza” delle tante appartenenze che caratterizzano la nostra comunità nazionale. Che cosa ci insegna allora il caso di Saman Abbas?
L’universalismo dei diritti, prima di tutto
La stragrande maggioranza degli immigrati, pur conservando le tradizioni della loro cultura, accoglie con favore i principi che stanno alla base della convivenza dei paesi ospitanti, principi affermati oltre duecento anni fa.
Infatti, le rivoluzioni americana e francese della seconda metà del Settecento hanno rappresentato per il mondo occidentale uno spartiacque nella storia dell’umanità; sono stati sanciti i diritti di uguaglianza e di libertà di tutti gli uomini, impensabili nelle epoche precedenti.
I diritti umani sono universali, perché danno espressione alla tutela ed al soddisfacimento dei bisogni vitali che definiscono la forma di vita stessa. Si tratta comunque di diritti storici che hanno a che fare con la collocazione dei singoli e delle comunità: hanno, pertanto, costanti implicazioni particolaristiche, relative alle specifiche sfere dell’interazione.
Ma anche in Italia c’erano norme liberticide
Sappiamo quante difficoltà si sono frapposte alla loro effettiva praticabilità anche in Europa. In Italia, ad esempio, fino ai primi decenni del Novecento, le maestre elementari dovevano sottostare ad imposizioni, anche vessatorie, da parte di sindaci che le assumevano. È noto il caso “Italia Donati”, un’insegnante italiana, vittima di una vicenda di diffamazione che la condusse al suicidio. Eravamo nel 1886. Ma parlando di tempi più recenti, non dimentichiamo che il delitto d’onore, legge inserita nel Codice Rocco (1930), guardasigilli del governo fascista, è stata abrogata solo nel 1981. Sono passati solo quarant’anni da quella norma liberticida che prevedeva attenuanti molto forti per il padre che avesse ucciso la moglie o la figlia per vendicare l’onorabilità del proprio nome o della propria famiglia. Il femminicidio in ambito familiare, dunque, è stato tollerato in Italia per oltre trent’anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione.
In questo senso ha ragione lo storico francese Fernand Braudel quando sostiene che la mentalità dei popoli appartiene alla storia delle lunghe durate; essa, pertanto, resiste anche ai cambiamenti politici e sociali nel frattempo intervenuti.
Occidente: luogo di nascita della carta dei diritti
La prima regola, dunque, che la persona straniera deve fare propria è quella dell’incondizionato rispetto dei principi affermati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, votata dall’assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. Questo vale per tutti, naturalmente anche per gli italiani, che ogni anno si macchiano di atroci femminicidi.
Il fatto che in tale Dichiarazione si usi il linguaggio della cultura occidentale non è un segno di pregiudizio etnocentrico. Piuttosto, afferma Stefano Zamagni, “è indicazione del fatto che l’Occidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali… La nozione di diritti umani non è esclusiva dell’Occidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti” (Zamagni, 2005). In particolare, gli articoli 3 e 4 della Carta dell’ONU affermano principi il cui rispetto risulta sacrosanto proprio nella vicenda che ha coinvolto Saman Abbas:
- Articolo 3: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.
- Articolo 4: Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
La difficile inclusione
Qual è l’insegnamento che ci lascia in eredità questa straordinaria, coraggiosa giovane pachistana? Innanzi tutto il fatto che l’affermazione della dignità umana non può essere condizionata da nessun ius familiae, religionis, di clan… quando esso risulti contrario ai diritti fondamentali dell’uomo. Tutte le pratiche liberticide che cozzano contro la Dichiarazione dell’ONU del 1948 devono essere contrastate e severamente proibite. Non possono esistere“identità di gruppo” che vengano prima dell’affermazione dei principi sanciti a livello internazionale. Ha ragione, quindi, Luigi Manconi quando afferma che difendere visioni relativistiche sul piano culturale è “un’ipocrisia venata di sottile razzismo”.
In secondo luogo, va precisato che nella realtà di Novellara (Bassa reggiana) la presenza di comunità pachistane e indiane è consolidata da almeno 20-25 anni. Si tratta di uomini impegnati prevalentemente nelle stalle e nelle coltivazioni ortofrutticole locali.
Nel consiglio comunale di Reggio Emilia siede Marwa Mahmoud, laureata in Lingue e Letterature straniere a Bologna, presidente della commissione consiliare “Diritti umani, pari opportunità e relazioni internazionali”. Siamo, dunque, in presenza di realtà in cui i temi dell’inclusione fanno parte della cultura politica della comunità reggiana.
I problemi per le seconde generazioni
Saman apparteneva, di fatto, alle cosiddette seconde generazioni dei migranti, quelle più esposte ai rischi di concezioni “tribali” di culture maschiliste, che considerano la donna inferiore all’uomo: si tratta di realtà in cui si combinano i matrimoni anche per ragioni economiche e, in questo baratto, la donna diventa una merce di scambio, alla stregua di un prodotto. Purtroppo in alcune comunità, quella pachistana in particolare, tali prassi illecite sono ancora presenti.
In una realtà come quella emiliana, nel caso di Saman Abbas si sarebbe potuto fare di più? Probabilmente sì, anche se di fronte ad un deliberato femminicidio da parte di un intero clan patriarcale, probabilmente anche servizi sociali ed educativi più attenti alla complessità di queste situazioni non sarebbero stati in grado di prevenire quanto accaduto.
E la scuola? Questo è il punto. Saman Abbas non ha frequentato l’istruzione di secondo grado (peraltro, presente a Novellara), per decisione ancora una volta dei genitori. Dobbiamo interrogarci allora sul perché un diritto fondamentale come l’istruzione sia stato stracciato da una decisione della famiglia. Per inciso, questo problema coinvolge anche molti nuclei familiari italiani.
Spezzare le catene: una operazione difficile
Comunque dobbiamo chiederci pure dov’erano la scuola, l’amministrazione comunale, i servizi sociali, le autorità di pubblica sicurezza…? La storia di Saman Abbas deve segnare uno spartiacque sia a livello macro (relazioni tra Stati), sia a livello micro, nelle comunità locali dove si svolge l’esistenza quotidiana delle persone immigrate. A livello internazionale, ad esempio, chi decide di venire in Italia, dovrà sottostare a specifici accordi tra Stati che prevedano la rinuncia a pratiche liberticide. In caso di inadempienza, i Paesi contraenti si impegneranno a punire severamente chi si rendesse responsabile di reati contro la dignità della donna. Il problema è però molto più complesso. È, infatti, il livello locale che deve spingerci a profondi cambiamenti.
La scuola è il primo presidio civile
Partiamo dalla scuola. Innanzi tutto, essa in Italia rappresenta un presidio civile di primaria importanza. Forse l’unico! Quindi, deve essere, innanzi tutto, frequentata! La norma, purtroppo frequentemente disattesa, prevede che si possa abbandonare un percorso formativo solo dopo aver acquisito una qualifica professionale almeno triennale. Nel caso di Saman, questo obbligo non è stato neanche tentato. Perché tale inadempienza è stata tollerata? Se la ragazza pachistana fosse stata inserita in un percorso scolastico avrebbe potuto contare su un “supplemento” di aiuto e di protezione. Infatti, i docenti quasi sempre vengono a conoscenza di matrimoni forzati, perché le studentesse si confidano.
I successi spesso ci sono
Può capitare anche che queste informazioni vengano assunte con una certa rassegnata impotenza e cadano nel vuoto. Così, da un giorno all’altro le giovani spariscono in una sorta di volatilizzazione preannunciata e danno forma ad un destino verso il quale si è maturata la convinzione che nulla si possa fare. Una sorta di rassegnato fatalismo! Questo non può e non deve accadere!
Non è sempre così, beninteso! Ci sono scuole che si attivano, soprattutto nei confronti dei genitori, ma le ragazze che rientrano nei paesi di origine per sposare un parente, spesso molto più vecchio, non sono poche. Non sappiamo quanti siano questi matrimoni, anche perché spesso non vengono registrati. Questa volatilità è già un preoccupante segnale. La scuola, quindi, deve assumere una centralità nel prevenire queste atrocità e rappresentare il primo baluardo in grado di attivare tutti gli altri soggetti istituzionali del territorio.
Dovrà essere, infatti, l’intera comunità a farsi carico di un’effettiva coesione sociale, a cominciare da coloro che sono preposti ad assicurare l’incolumità delle persone fragili e, pertanto, più esposte di altre a rischi di violenze e ricatti.
Riferimenti bibliografici
Manconi L., Saman vittima della incapacità di dialogo tra culture diverse, Il Riformista, 9 giugno 2021
Zamagni S., Migrazioni, multiculturalità e politiche dell’identità, in Quaderni diesse n. 2, Una sfida educativa-integrazione e multiculturalità, Bologna, 2005