Nel 1974, quando apparvero i Decreti delegati, tutti (o quasi) salutarono con favore l’apertura della scuola alla cultura della partecipazione e della collegialità. Con gli Organi Collegiali, si delineava il tramonto di un sistema fino ad allora troppo autoreferenziale, troppo autoritario, troppo opaco nelle sue decisioni e nelle sue valutazioni; genitori ed anche alunni venivano chiamati ad esprimere le loro opinioni e a manifestare le proprie istanze, a collaborare, ad intervenire attivamente nella vita della comunità, attraverso rappresentanti individuati con libere elezioni.
Lo stallo della gestione democratica della scuola
La gestione democratica della scuola, ampliata dall’autonomia, attraversa però oggi una fase di profondo stallo, un po’ per motivi endogeni, un po’ per le notevoli trasformazioni storico-sociali verificatesi negli ultimi decenni; è in crisi specialmente il dialogo con la famiglia, che sta assumendo forme al limite del patologico. Al termine di un anno così difficile, in cui tante tensioni sono esplose, è possibile tracciare un bilancio e fare una riflessione. In attesa, ovviamente, che si metta mano alla riforma degli Organi Collegiali, di cui da tanto, troppo tempo si discute.
Le elezioni: normativa datata ed esiguità della partecipazione
Le esigenze dettate dalla pandemia hanno rivelato il carattere, datato rispetto ai tempi, della normativa che regola il meccanismo elettorale. I Dirigenti scolastici si sono a lungo interrogati sulle possibilità concrete di effettuare le elezioni dei rappresentanti dei genitori soprattutto senza rischi per la salute e la sicurezza. Alcuni hanno deciso di svolgerle in presenza, con un complicato sistema di accessi regolamentati e sfalsati negli orari, collocando le urne per il deposito delle schede nei cortili o negli androni e stilando rigorosi ordini di servizio per gli addetti alla vigilanza; altri hanno optato per elezioni a distanza, scontrandosi in questo caso con la scelta dei metodi per garantire la libertà, l’unicità e la segretezza del voto e spingendosi talora ad acquistare una delle – costose – piattaforme utilizzate dalle Università per le nomine dei componenti le Commissioni concorsuali. Le polemiche e gli ostacoli non sono comunque mancati: dai casi di scuole in cui, nonostante le precauzioni, si sono verificati assembramenti, a quelli di contestazioni circa la regolarità della presentazione in via telematica delle liste o circa la correttezza del conteggio dei voti.
La qualità della partecipazione
In ogni modo, le percentuali dei partecipanti sono, come ormai avviene da vari anni, ben poco confortanti: le famiglie disertano questo appuntamento, segno che in pratica credono poco alla effettiva utilità della loro presenza negli Organi collegiali, e non è raro che dei genitori si trovino eletti come rappresentanti “in contumacia” o siano quasi costretti ad offrirsi come vittime sacrificali perché all’assemblea i presenti si contano sulle dita di una mano. Eppure, il dato percentuale della partecipazione dei genitori alle elezioni del Consiglio di Istituto costituisce uno degli indicatori di qualità nel RAV.
Le forme del dialogo: ritualità e incomprensioni
Se spesso le forme di rappresentatività appaiono frutto di cooptazione più che di personale convinzione, quelle di partecipazione rivelano un logoramento progressivo. Non si può non constatare con rammarico che i rappresentanti dei genitori negli Organi collegiali tendono a farsi portavoce di problemi ed esigenze specifici e contingenti, mentre i temi importanti, quelli propriamente educativi, finiscono per restare sullo sfondo, o ancora percepiscono le loro funzioni come marginali e burocratiche, o, peggio, si rinchiudono in logiche corporative, vedendo in Dirigenti e docenti quasi una sorta di “controparte”.
Il genitore che siede in Consiglio di classe, è inutile nasconderlo, prende parte alle riunioni (quando può) fondamentalmente per approvare una decisione già presa su una visita guidata, per confermare la scelta già fatta dei libri di testo, per essere informato su problematiche di cui poi darà conto agli altri con una e-mail o un WhatsApp, e ne approfitta, quasi inevitabilmente, per chiedere “Sì, ma mio figlio come va?”.
Dagli organi collegiali alle chat di classe
Sono situazioni di ripetitività ordinaria, quasi liturgica, che non costituiscono comunque che la punta dell’iceberg. Perché i problemi sono altri: nelle chat di classe, spesso a partire proprio dalle informazioni ricevute sull’andamento “didattico-disciplinare” della classe, rimbalzano lamentele su quello o quell’altro insegnante, che gradualmente si amplificano e talvolta diventano protesta popolare, sfociando in esposti o denunce. La scuola, il professore, finiscono così sul banco degli imputati, mostri sbattuti in prima pagina.
Un altro scenario? Riunione del Consiglio di classe di fine anno: “Avrete capito, da quanto hanno riferito i singoli docenti, che quest’anno gli alunni hanno dimostrato di essere cresciuti, maturati, specialmente sotto il profilo della collaborazione, dell’unità di gruppo, del rispetto delle opinioni altrui. In questo senso, la progettualità relativa all’insegnamento di educazione civica si è rivelata … Prego, lei vuole intervenire?”. “Beh, volevo chiedere: ma il programma lo avete finito? Perché nell’altra sezione hanno fatto di più, specialmente in Italiano, anche gli altri genitori si lamentano…”. Il mito del programma, che ancora resiste, e che si accompagna all’altro punto-chiave, quello del “come va” un ragazzo.
L’incerto profilo del Consiglio di Istituto
La crisi più seria è in ogni modo quello che attraversa il Consiglio di Istituto, specialmente dopo la riforma della Legge 107/2015, che, in riferimento alle modalità di elaborazione del PTOF, ha cambiato nella sostanza le sue attribuzioni di organo di indirizzo. Incertezza delle funzioni e disorientamento in alcuni casi si tramutano in volontà di controllo e sforzo di affermazione di un ruolo, che trascendono i confini posti dalla normativa. Negli ultimi tempi, non è raro che si senta parlare di riunioni in cui si svolgono discussioni accesissime, al limite dello scontro, si criticano le scelte organizzative del Dirigente, fino a delegittimarle, ci si disperde in controversie e puntualizzazioni, anche con la conseguenza di dilatare eccessivamente la durata delle sedute, ci si rifiuta di approvare il PTOF, o il Programma annuale. È perciò necessario ed urgente che si intervenga per ridefinire, con precisione e chiarezza, i compiti del Consiglio, e per fissare le prospettive di una governance reale.
La cultura della comunità
Dal canto nostro, e sul piano pedagogico, non possiamo non sottolineare l’esigenza che la scuola recuperi un dialogo sereno e fattivo con le famiglie, se si vuole rifondare il senso della comunità. Secondo Roberto Esposito, se si pensa ad una possibile definizione del termine “comunità” viene spontaneo richiamare alla mente termini quali “bene comune”, o “comune appartenenza”, e pertanto caratterizzarla come un “avere in comune”. Il filosofo propone invece di soffermarsi sull’etimologia del termine latino communitas, cum-munus, che significa originariamente dono, inteso come dovere, come obbligo derivante da un patto, Perciò, il munus che la communitas condivide “non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare”. È bella questa immagine della società in cui tutti donano all’altro, si spogliano di sé perché l’altro risplenda nella sua luce, si passano un pegno come in una staffetta. La cultura del dono contro quella della chiusura e dell’individualismo che immunizza – immunitas come contrario di communitas – il soggetto e lo lascia solo nel suo cammino; la cultura del dono che, se condivisa, può far incontrare in un dialogo fattivo i genitori, i figli, la scuola.