La crisi degli Istituti professionali

L’attrattiva che non c’è nella scuola delle menti d’opera

I dati per l’anno scolastico 2021/2022, se pur ancora non definitivi, confermano la tendenza ad un calo progressivo delle domande di iscrizione agli istituti professionali, a cui pare non abbiano messo un freno le articolate azioni di riforma collegate al D.lgs. n. 61/2017, la recessione economica perdurante dal 2008, aggravata dalla pandemia in atto, l’attestarsi intorno al 29,5% del tasso di disoccupazione dei giovani e il possesso del record di inattivi in Europa.

È la conferma di un trend negativo che ha portato a dimezzare il numero degli studenti in poco più di un decennio e che ribadisce il mancato appeal del settore del nostro sistema di istruzione più organicamente strutturato per essere funzionale ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro.

Si conferma, inoltre, la forte connotazione geografica del calo in questione: sono le regioni del sud a far registrare il numero più basso di iscritti ai professionali. Per assurdo, il settore del sistema scolastico più legato al “made in Italy” (e quindi alla piccola e media impresa), che rappresenta il tessuto più diffuso dell’economia del paese, non è apprezzato dalle famiglie italiane ed è considerato una scelta assolutamente residuale.

Poca fiducia in questa “gamba” del sistema

Ci si chiede se ciò accade perché la stragrande maggioranza delle famiglie italiane creda che la garanzia di successo per i propri figli sul piano dell’occupabilità, passi necessariamente solo attraverso una scuola generalista (licei) e una laurea breve o magistrale. La preoccupazione, quindi, è che famiglie e studenti non ripongano fiducia in questa “gamba” del sistema di istruzione.

Eppure tutti gli interventi per migliorare questo settore, anche a seguito del D.lgs. 61/2017, si fondavano proprio su alcuni presupposti per aumentare l’occupabilità[1];

  • Flessibilità del curricolo con la personalizzazione del percorso di apprendimento, un bilancio di competenze alla base della possibilità di passaggi dal sistema di istruzione a quello di formazione professionale e viceversa;
  • Capacità di evitare la dispersione per la presenza di docenti tutor che motivano e orientano in modo progressivo al percorso formativo;
  • Giusto raccordo tra indirizzi di studio e settori produttivi o dei servizi, capace di garantire una buona occupabilità;
  • Valorizzazione della laboratorialità e dell’alternanza scuola lavoro, per attivare le risorse di un sistema duale anche in Italia.

Come rivalutare il ruolo dei professionali

La prima domanda che oggi ci si pone è proprio sul tipo di modello formativo per la scuola secondaria di secondo grado. È giusto puntare solo sulla despecializzazione e affidarsi alla formazione lunga (liceo+ laurea breve e/o magistrale) o è importante che ci siano anche percorsi brevi specialistici (diploma tecnico professionale + Istituto Tecnico Superiore), seppure sufficientemente flessibili e funzionali per l’apprendimento permanente?

La fotografia dell’attuale situazione delle iscrizioni descrive un Paese sbilanciato sulla prima scelta, che richiede tempi lunghi e che, soprattutto, confligge con il dato di fatto di un numero di laureati inadeguato nelle cosiddette professioni STEM (Science, Technology, Engineering e Math).

Nello studio pubblicato da Unioncamere “La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane nel 2020”[2] ci sono spunti interessanti di cui tener conto per una reale rivalutazione del ruolo degli istituti professionali attraverso l’unica arma vincente a loro disposizione: il collegamento rapido e diretto al lavoro senza rinunciare ad un profilo di costante aggiornamento delle competenze più richieste: le e skills, le soft skills e le green skills.

L’evoluzione della domanda di lavoro a seguito della pandemia

Lo studio mette in correlazione lo sviluppo della formazione e lo sviluppo delle imprese, proprio a partire dalla congiuntura epocale di crisi esplosa con la pandemia. Come prevedere, dunque, l’evoluzione della domanda di lavoro? Quali saranno i nuovi lavori che affiancheranno o sostituiranno i vecchi?

La prima macro conseguenza della riduzione drastica della mobilità di persone e merci determinata dalle chiusure su scala mondiale è stato il reshoring, cioè il ritorno a casa delle aziende già delocalizzate e la necessità di ricreare reti locali di produzione e scambio.

La seconda conseguenza è evidente nel ruolo svolto dalle competenze digitali (robotica e intelligenza artificiale) nel remote working: il controllo a distanza di produzioni e gestione amministrativa sembra rendere assolutamente credibile la previsione che entro il 2025 il tempo lavorativo sarà equamente distribuito tra uomini-donne e macchine.

Ci sono evidenze che perdurano, come il tasso di denatalità, che rendono la risorsa umana “produttiva” sempre più limitata a fronte dell’aumento della popolazione anziana in pensione.

I rischi e le nuove esigenze

Le professioni legate alle innovazioni tecnologiche, a deciso appannaggio della maggiore occupazione giovanile, dovranno comunque essere affiancate dalla crescente domanda di servizi sanitari, assistenziali, culturali, di intrattenimento… a tutti i livelli, che sono le articolazioni proprie degli istituti professionali. Lo stesso può dirsi sul tema della sostenibilità e i lavori “verdi”. Ma sono proprio questi ultimi lavori che sembrano non avere il gradimento dei giovani così come sono poco graditi, o non adeguatamente scelti, la pesca e l’agricoltura.

Il divario tra le competenze richieste e quelle possedute, già oggi elevato, rischia di aumentare nei prossimi anni. La crescente flessibilità del lavoro, sotto il profilo delle competenze tecniche ma anche dell’adattamento (resilienza) a tempi, spazi e relazioni sempre più diversificate, accentua il valore dei percorsi formativi ad alto contenuto di esperienze pratiche in contesti diversificati. Sarebbe necessaria, a quanto pare, una accelerazione nella realizzazione del vero sistema duale nei territori, proprio quando tutto il sistema produttivo e dei servizi ha bisogno di uscire dalla crisi.

Questo ci aiuta a leggere la geo localizzazione delle scelte, perché è vero che non basta insistere sul mismatching (mancato incontro) tra formazione e lavoro, se poi nel territorio mancano i servizi di placement necessari o le imprese interessate all’apprendistato formativo. Regioni come l’Emilia Romagna, il Veneto, la Lombardia e la Toscana hanno buone pratiche di collaborazione e intese tra scuola, imprese e territori che sarebbero allo stato attuale poco riproducibili nelle regioni del sud.

Sono residuali i laureati che provengono dall’istruzione professionale

Le prospettive non incoraggianti per l’occupazione, sia per chi possiede un livello elevato di istruzione (laurea in settori non richiesti) sia per chi ha un livello di istruzione media, hanno stabilizzato il numero dei NEET[3] in Italia al 29,5% dei giovani tra i 25 e i 34 anni. Un recente rapporto di AlmaLaurea[4] ci informa che solo il 2,1% dei laureati proviene dall’istruzione professionale, che sono complessivamente diminuiti i laureati in possesso di diploma tecnico (18,9%) e che il 76,5% proviene dai licei.

I dati confermerebbero che, pur all’interno di un positivo generale aumento dei laureati in Italia, la tendenza dei diplomati degli istituti tecnico professionali è quella di non proseguire nel percorso universitario. Purtroppo questo non significa che abbiano potuto fruire di un inserimento nel mondo del lavoro entro i primi sei mesi dal diploma. In questa difficile e lunga crisi la scuola non ha dunque funzionato adeguatamente come ascensore sociale. Eppure da sempre si ripropone con forza il tema dell’equità effettiva, della capacità di rispondere agli obiettivi strategici di ciascun settore dell’istruzione e della formazione, della capacità di produrre competenze adeguate all’inserimento nel mondo del lavoro.

Far crescere l’attrattività è possibile

Tuttavia un dato parzialmente positivo emerge: i diplomati degli istituti professionali hanno un indice di occupazione entro i due anni più alta rispetto agli altri diplomati; lavorano in occupazioni in genere coerenti con l’indirizzo scelto.

Nell’ambito della Next Generation EU si dà grande importanza all’apprendistato formativo, la cui utilità è stata finora poco praticata per un’efficace transizione dalla formazione al lavoro. Una maggiore disponibilità di risorse in questo settore e un aumento del dialogo tra scuola, imprese e territori, soprattutto al sud potrebbero far crescere sensibilmente l’attrattiva dei percorsi professionalizzanti.

Se è vero che il made in Italy ha sottoposto e sottopone di fatto il suo mercato del lavoro soprattutto alla domanda internazionale, è anche vero che l’alimentare, il sistema moda, il legno-mobili, i macchinari (…) confermano un’ampia e diffusa rivalutazione del lavoro artigianale collegato e valorizzato anche dalle politiche per la transizione 4.0 e l’introduzione in tutti i settori delle tecnologie più avanzate.

Inoltre, la pandemia ha messo in evidenza interi comparti produttivi e di servizi da implementare o creare ex novo: dalla farmaceutica alla sanità, dalla comunicazione alla commercializzazione. La sfida sembra giocarsi prevalentemente in quella che il rapporto Unioncamere definisce ibridazione tra la migliore tradizione e l’innovazione tecnologica: le nuove competenze si collocano (e siamo costretti ad usare l’ennesimo anglicismo) tra up skilling (competenze che aumentano l’efficacia d’azione rispetto al contesto) e re skilling (sviluppo di competenze completamente nuove).

Verso il cambiamento qualitativo del mercato del lavoro

Se l’esigenza di formazione permanente è la cifra più rilevante che emerge in un quadro di rapida e parziale indefinibilità dello sviluppo della domanda del mercato del lavoro, è evidente che si assiste a un cambiamento qualitativo della domanda di lavoro, a cui la scuola, da sola, non potrebbe far fronte.

Di qui, forse, la percezione delle famiglie di una sostanziale inadeguatezza della proposta formativa dei professionali potrebbe essere modificata soltanto da un evidente investimento interistituzionale sulla costruzione reale delle professioni tradizionali da innovare e introvabili da costruire, con il recupero di alleanze e patti territoriali per lo sviluppo, di cui gli Istituti Professionali e gli ITS rappresentino punti avanzati di ricerca e di realizzazione.

La pandemia dovrebbe aver insegnato che saranno sempre più frequenti i cambiamenti di rotta improvvisi e inattesi. Il sistema scolastico pratica ancora oggi un orientamento prevalentemente informativo sugli sbocchi lavorativi e in cui è stata indebolita l’incidenza dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento.

Occorre far fronte all’emergenza con una rete di servizi di reale supporto al sistema scolastico come nella migliore tradizione del VET (Vocational Education and Training) europeo. Una filiera virtuosa non si costruisce soltanto con l’ennesima riforma di questo settore dell’istruzione e della formazione. Le buone pratiche in atto sembrano piuttosto indicare la necessità di leggere in modo più strutturale il percorso dell’apprendimento permanente dall’IeFP ai Centri Provinciali Istruzione per gli Adulti fino agli Istituti Tecnici Superiori come campi di reale investimento di ricerca e sviluppo da parte degli enti locali e delle imprese. Questo sarebbe un segnale importante per le famiglie e i giovani in fase di orientamento.


[1] https://www.miur.gov.it/istituti-professionali

[2] https://excelsior.unioncamere.net Monitoraggio dei flussi e delle competenze per favorire l’occupabilità.

[3] Giovani senza occupazione e non inseriti nei processi di formazione.

[4] Cfr. XII Indagine AlmaLaurea 2020 – I profili dei laureati del 2019.