Il dibattito sull’esistenza e la vitalità degli Istituti professionali di Stato in Italia è tornato alla ribalta per due ordini di motivi: il primo è il dato sulla dispersione scolastica, che proprio in questo segmento scolastico sta raggiungendo livelli preoccupanti. Il secondo motivo di interesse è l’emanando decreto ministeriale di riordino dei professionali, che rappresenta una delle deleghe della Legge 107/2015.
Chi scrive dirige un Istituto di Istruzione Secondaria (IIS) dove il 25% di studenti frequenta le classi del professionale per operatori meccanici ed elettrici, e ha preso parte ai lavori della Commissione ministeriale che sta lavorando sul decreto legislativo e sul nuovo profilo di competenza richiesto a chi esce dall’istruzione professionale e vuole inserirsi con competenze adeguate in un mondo del lavoro che, in questo settore, è in forte innovazione.
Per ovvie ragioni di riservatezza, dal momento che i lavori della Commissione sono ancora in corso, non anticiperò le prospettive che saranno aperte dall’emanando decreto, ma mi limiterò a mettere in evidenza i nodi critici sottesi.
Stereotipi da accantonare
Iniziamo, in prima istanza, smentendo il luogo comune che chi sceglie un istituto professionale appartenga al penultimo gradino di competenza all’uscita dalla scuola secondaria di primo grado (è generalmente condivisa l’idea che l’ultimo gradino sia la formazione professionale regionale). Niente di più sbagliato: da un lato è vero che chi si iscrive al professionale spesso è un ragazzo in difficoltà di apprendimento, molto spesso è straniero, altrettanto spesso presenta problematiche tali che fanno desistere lui (e la sua famiglia) dall’intraprendere percorsi scolastici più “impegnativi”; dall’altro lato occorre però cominciare a rendersi conto e sostenere che negli istituti professionali i ragazzi imparano un mestiere e trovano spianata davanti a loro la strada per l’ingresso nel mondo del lavoro.
C’è di più: in zone del Paese dove esiste un indotto lavorativo in grado di assorbire ragazzi con una specializzazione tipica, è difficile trovare allievi che, a 6 mesi dal diploma (o dalla qualifica), non siano già inseriti in un contesto di lavoro a tempo indeterminato.
Nonostante la crisi occupazionale che da diversi anni a questa parte sta raggiungendo livelli preoccupanti, sono proprio i ragazzi con un diploma di un istituto professionale ad essere cercati di più dalle aziende. Una ricerca di Unioncamere del 2013 evidenzia l’esistenza di una serie di professioni “introvabili”: assistente socio-sanitario, riparatore di macchinari e impianti, meccanico riparatore di auto, addetto alle vendite all’ingrosso, cuoco, sembrano essere le professioni più richieste e meno disponibili. I nostri istituti professionali stanno lavorando su questo….
Un curricolo da ripensare
Ma come è organizzato il curricolo negli Istituti professionali? L’obiettivo affermato negli ordinamenti è quello di far acquisire agli studenti competenze di carattere generale (le softskill di cui tanto si parla) accanto a saperi tecnico-professionali; si deve formare un ragazzo che conosca gli elementi di una professione, ma sappia pensare, interagire con gli altri, lavorare in gruppo, assumere decisioni ed essere imprenditore di se stesso.
La realtà dei fatti, tuttavia, dopo l’ultima riforma del settore, non sembra andare nella direzione auspicata; la diminuzione delle ore di laboratorio pratico, dove l’apprendimento veniva fortemente mediato dall’esperienza, e l’introduzione, in particolare nelle classi del biennio, di un numero di discipline decisamente ridondanti (13/14 “materie” da studiare), ha reso molto accidentato il percorso per i ragazzi più in difficoltà.
I dati delle “bocciature” lo testimoniano; gli studenti che al termine del primo anno non vengono ammessi all’anno successivo, o vengono “riorientati” verso la formazione professionale regionale, in alcuni indirizzi rasentano il 40%, e si riducono ad una media non inferiore al 20% al termine del secondo anno; poi, nel triennio, i ragazzi si “stabilizzano” e, al termine del 3° anno, negli Istituti autorizzati a far conseguire la qualifica IeFP, abbastanza difficilmente vengono estromessi dal sistema scuola.
Questo però non soddisfa: occorre porsi l’obiettivo di ridurre sensibilmente la dispersione già al termine del 1° e del 2° anno e, soprattutto, attivare modelli e strategie che facilitino la transizione dalla scuola al mondo del lavoro. Ma ne parlerò tra breve.
I “boatos” sulla fine dei professionali di Stato
Secondo alcune voci “autorevoli”, invece, occorrerebbe prendere atto della difficoltà di garantire percorsi formativi di qualità nell’ambito dell’istruzione professionale e chiudere gli Istituti professionali, cedendo alle Regioni l’esclusiva della formazione ai mestieri.
Una di queste voci è quella di Valentina Aprea, Assessore all’Istruzione Formazione e Lavoro della Lombardia, che nel corso di un convegno recente promosso dalla Fondazione Treellle (http://www.treellle.org/streaming-evento-quaderno-12), ha affermato che l’esperienza degli istituti professionali statali deve considerarsi chiusa.
Dello stesso parere sembra essere Luigi Bobba, sottosegretario al Ministero del lavoro, che individua come obiettivo quello di estrapolare l’istruzione e la formazione professionale, creando un settore a parte rispetto al resto del sistema di istruzione secondaria di secondo grado, che faccia capo al Ministero del lavoro e non a quello dell’Istruzione.
Alla base di tutto ciò c’è un obiettivo comune: abbassare l’età di accesso al mondo del lavoro e introdurre progressivamente un sistema duale alla tedesca.
Per quel poco che ho avuto occasione di analizzare, tuttavia, una via italiana alla formazione duale è praticabile senza far scomparire gli Istituti professionali dal panorama delle opportunità formative di secondo grado.
Rivalutare la cultura “professionale”
Un primo settore di intervento è quello che si basa sul riordino (qualcuno l’ha definita una rivoluzione) del curricolo degli Istituti professionali: innanzitutto una semplificazione del curricolo del biennio, che per norma deve essere unitario, con una forte riduzione del numero delle discipline accorpate per aree disciplinari. Ancora, un’impostazione flessibile del curricolo, organizzata per periodi e livelli sul modello della formazione degli adulti, in modo che il giovane che ha acquisito competenze valide in una disciplina tecnica, e non in una delle aree disciplinari generaliste, abbia la possibilità di recuperare il livello carente senza ripetere tutto il curricolo dell’anno, con un sistema di crediti certificati progressivi. Altro elemento importante è restituire spazio all’esperienza e al laboratorio, utilizzando tutti gli strumenti di flessibilità e autonomia possibili, perché i ragazzi che hanno maggiori difficoltà nell’apprendere trovino proprio nell’esperienza concreta, attraverso un flusso cognitivo dalle mani al pensiero, lo stimolo a consolidare il proprio sapere in maniera integrata.
È quello che ho potuto vedere in due grandi Istituti professionali tedeschi, dove i ragazzi che prendono parte ad un percorso formativo duale rappresentano la quasi totalità della popolazione scolastica dell’Istituto. La scuola si occupa di insegnare la teoria di base e fornisce gli strumenti per la progettazione; in laboratorio si sperimentano le soluzioni progettate; in azienda (nei laboratori aziendali innovativi, veri e propri training center) la sperimentazione trova concretezza in un manufatto che viene valutato dal tutor aziendale e, al rientro in classe, si effettua una verifica dell’intero percorso, imparando dagli errori a correggere quanto progettato.
Le prospettive?
Oggi, con gli strumenti previsti dalla Legge 107 e dal Jobs Act, la prospettiva di una vera “rivoluzione” è possibile.
Da un lato l’emanando decreto legislativo della Legge 107 probabilmente introdurrà un nuovo modello, tendente all’integrazione tra saperi culturali e saperi tecnici, in linea con le esigenze attuali, che miri al raggiungimento di una professionalità spendibile, che valorizzi la cultura del lavoro nel senso più ampio del termine, unitamente ad una preparazione globale che integri competenze culturali generali e competenze tecnico-professionali specifiche. A fine del quinquennio l’obiettivo dev’essere quello dell’inserimento nel mondo del lavoro, oppure la prosecuzione nel sistema dell’istruzione e formazione tecnica superiore o nei percorsi universitari.
D’altro canto l’introduzione dell’apprendistato per la formazione e il diploma, già previsto nella Legge 107 e nell’art. 43 del Decreto 81/2015 (Job Act), e la decretazione seguente in merito agli standard formativi, consentono di attivare, già a partire dal 2° anno, un’alternanza potenziata che gradualmente diventi apprendistato di primo livello. Le Regioni stanno completando l’iter normativo di recepimento degli standard del Job Act, e predisponendo i protocolli di attivazione di questa tipologia di apprendistato anche nel sistema dell’Istruzione professionale.
I prossimi passi
Che cosa manca per rendere effettivo l’intero sistema? Una grande flessibilità organizzativa e gestionale per gli Istituti professionali (lo ha sottolineato l’Associazione Treellle nel recente convegno “Accendere i fari sull’istruzione professionale”), tramite la definizione di un organico che consenta uno sviluppo del curricolo per aree disciplinari e un potenziamento del sapere esperto, la possibilità di reclutare esperti esterni che sostengano l’innovazione, aiutando a verificare, modificare, aggiornare gli obiettivi tecnico-professionali, perché il mondo del lavoro si innova più rapidamente di quanto il mondo della scuola pensi. E soprattutto formare i dirigenti e i docenti, perché l’introduzione di una programmazione attenta agli outcome innovativi, a percorsi di apprendimento basati sul learning by doing (dalla pratica alla riflessione) richiede tempo, approfondimento e integrazione tra saperi.
Ci si riuscirà? Ce lo auguriamo fortemente, per avere la possibilità di rispondere a futuri interlocutori come mi ha risposto il collega della scuola tedesca di Aalen. Alla domanda su quanti completavano il percorso duale nel tempo previsto, la riposta è stata 98%. Il 2% di differenza? Abbiamo chiesto. La risposta: sono i più bravi che abbiamo indirizzato alla università tecnica (un equivalente del nostri ITS) per raggiungere una qualifica superiore.
In Germania stanno testando il sistema da un ventennio: noi iniziamo ora, ma forti delle esperienze altrui possiamo accelerare i tempi, perché non ci possiamo permettere più a lungo i livelli di dispersione attuali.