L’orientamento a scuola: una routine “ininfluente”?
Aperta la stagione delle iscrizioni (C.M. 15-11-2016, n. 10), è inevitabile tornare a parlare di consiglio orientativo: una di quelle pratiche della scuola italiana la cui obbligatorietà è fissata da una norma antica, diciamo anche poco conosciuta, e che si riproduce troppo spesso stancamente. Le origini si rintracciano nel D.P.R. 14 maggio 1966, n. 362, che fissa il dovere, da parte del Consiglio di classe, di esprimere per ciascun alunno ammesso all’esame di terza media un’indicazione ragionata rispetto al percorso da intraprendere a conclusione del primo ciclo di istruzione, motivandola con un parere non vincolante.
Qualche punto viene chiarito o ribadito nella C.M. 400/1991 e nell’O.M. 90/2001, ma da allora il consiglio sembra scomparire dai documenti ministeriali: non ne fanno riferimento né le Linee guida in materia di orientamento lungo tutto il corso della vita (C.M. n. 43/2009), in cui pure si sottolinea il ruolo strategico attribuito all’orientamento nella lotta alla dispersione e all’insuccesso formativo, né il Regolamento della valutazione (D.P.R. 122/2009). Eppure che si tratti di un adempimento ancora in vigore lo ha dimostrato nel 2013 il MIUR che, in due note del Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali, ha invitato le scuole ad inserire anche il consiglio orientativo nelle rilevazioni degli esiti degli esami di Stato del primo ciclo; e tra gli indicatori di qualità di processo nelle tabelle del RAV compaiono la “predisposizione di un modulo articolato per il consiglio orientativo” e la percentuale di studenti e famiglie che lo seguono.
Fonti e criteri del consiglio orientativo
Un parere non vincolante, ma espresso in modo ponderato da dei professionisti dell’educazione, può essere importante per accompagnare un ragazzo di 13-14 anni alla scelta responsabile dell’indirizzo di studi da frequentare, che è, come dire, il primo mattone di un progetto di vita in costruzione. Ma non è faccenda semplice, visto che il consiglio si colloca allo snodo di istanze differenti, tra le motivazioni dell’allievo, ciò che i genitori vedono in lui o vogliono per lui o a volte desiderano attraverso lui, i vincoli e le opportunità del contesto, i punti di vista degli insegnanti. In più le prassi sono differenziate e spesso ridotte ad adempimento burocratico.
Su quali criteri si basano i Consigli di classe per redigere il consiglio? Quali elementi si prendono in considerazione? Gli interessi, le attitudini, le aspirazioni dell’allievo o i suoi risultati di apprendimento? Si procede tirando le fila di un lavoro di osservazione e di supporto condotto in modo sistematico, oppure si esprime il parere frettolosamente e in modo estemporaneo, affidandosi essenzialmente alle intuizioni e all’esperienza? Quanto peso ha la volontà preventivamente esplicitata dalla famiglia?
Ancora, va considerato il fatto che i tempi si sono contratti: una volta il consiglio si esprimeva in sede di ammissione all’esame di licenza media; ora andrebbe formulato tra gennaio e febbraio, in tempo utile per consentire le preiscrizioni alle scuole di istruzione secondaria di 2° grado. E non è raro trovare ancora a gennaio ragazzini indecisi, sballottati tra l’insegnante di italiano che preme per il liceo classico, quello di matematica che insiste sulla bravura nelle materie scientifiche, i compagni di classe che si iscrivono ad una scuola “di tendenza” e la famiglia, che magari sarebbe incline a scegliere un istituto caratterizzato, almeno per sentito dire, da un “buon ambiente”[1].
Le transizioni come compito di sviluppo
Non se ne esce se non ripensando complessivamente le prassi orientative nella scuola ed il consiglio che di quelle dovrebbe essere il distillato. In primis, a partire dal riconoscimento della pari dignità di ogni percorso formativo, l’orientamento dovrebbe perdere ogni valenza diagnostica ed essere concepito come un processo intrecciato ai percorsi didattici, capace di sostenere l’allievo nello sviluppo del proprio progetto di vita e di formare capacità di scelta, che lo mettano in grado di inserirsi attivamente nella vita della comunità e di far fronte, sulla base di una concezione realistica delle proprie attitudini e delle proprie motivazioni, ai momenti di snodo e di transizione che connotano l’evoluzione delle storie di ciascuno. In questo senso restano fondamentali le indicazioni della Direttiva ministeriale n. 487 del 6 agosto 1997, in cui l’attività orientativa è definita quale “parte integrante dei curricoli di studio e, più in generale, del processo educativo e formativo sin dalla scuola dell’infanzia”.
Non basta un open-day
L’orientamento a scuola, vogliamo dire, non è un consiglio puntuale ma un itinerario, un complesso di linee di intervento che andrebbero progettate e realizzate nel tempo, e che dovrebbero includere percorsi per la comprensione di sé e delle proprie inclinazioni da parte dell’allievo, attività in grado di far emergere gli interessi e i valori cosiddetti professionali, senza dimenticare l’educazione alla decisione, al progetto, alla capacità di affrontare il cambiamento.
Infine è vero che l’orientamento non può essere ridotto alla sua componente informativa, ma è altrettanto vero che su questo versante l’azione delle scuole ha ampi margini di miglioramento: per scegliere, ragazzi e famiglie hanno bisogno di conoscere in modo serio ed approfondito, al di là delle visite alle scuole superiori e degli “open day” (sempre più “eventi-vetrina”), le caratteristiche dei vari indirizzi di studio. Questo consentirebbe almeno di bloccare il diffondersi di vulgate metropolitane, tipo – solo per fare un esempio – l’identificazione riduttiva del liceo delle scienze applicate come un liceo scientifico in cui non si studia il latino.
Il nodo della questione, in fondo, non è l’utilità del consiglio orientativo, che pure alcuni chiedono di abolire, né la struttura del documento, che in numerose realtà si sta variamente cercando di articolare; piuttosto in gioco è la capacità della scuola di fornire ai ragazzi la bussola che consenta loro di trovare la propria rotta in un mondo complesso ed in perenne agitazione.
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[1] Nel corso del XIV convegno organizzato dall’associazione Alma Diploma il 14-12-2016 presso il MIUR, sul tema “Orientamento e dis-orientamento. Gli strumenti e le azioni per le scelte degli studenti della scuola secondaria di I e II grado”, è stato presentato il Rapporto su “Il profilo dei Diplomati 2016”, da cui emergono aspetti critici sull’esperienza scolastica intrapresa al termine della scuola media. https://www.almadiploma.it/indagini/profilo/profilo2016/
Il Profilo dei Diplomati mostra che il fenomeno del disorientamento è già evidente tra il I e il II ciclo degli studi, tant’è che una quota importante dei diplomati, al termine del percorso formativo, è “pentita” della scelta compiuta a 14 anni. In altre parole, se tornassero ai tempi dell’iscrizione alla scuola superiore, mentre 53 diplomati su cento ripeterebbero lo stesso corso, ben 47 su cento cambierebbero l’indirizzo di studio e/o la scuola. In particolare, 13 su cento ripeterebbero il corso ma in un’altra scuola, 8 sceglierebbero un diverso indirizzo/corso della propria scuola, e 26 cambierebbero sia scuola che indirizzo. La quota dei diplomati che cambierebbe corso e/o scuola è più elevata tra i professionali (52%), seguiti dai tecnici (48%) e dai liceali (45%). È interessante esaminare le ragioni espresse dai diplomati che cambierebbero corso e/o scuola: il 41% lo farebbe principalmente per studiare materie diverse, il 20% per compiere studi che preparino meglio al mondo del lavoro, il 16% per compiere studi più adatti in vista dei successivi studi universitari (Alma Diploma, 2016).