Perché il 54,6% degli studenti italiani sceglie i licei?
La settimana scorsa (6 febbraio) si sono chiuse le iscrizioni online per il nuovo anno scolastico alle classi prime delle scuole primarie e secondarie di primo e di secondo grado, e dai primi dati diffusi dal MIUR emerge la netta preferenza per gli indirizzi liceali, scelti dal 54,6% degli studenti italiani, mentre il 30,3% opta per gli Istituti tecnici e solo il 15,1% per un Istituto professionale.
Il liceo piace sempre di più e si conferma quel trend di crescita che dal 2014/2015 vede i licei scelti da più di uno studente su due.
La parte del leone spetta al Liceo scientifico, che tra indirizzo tradizionale, opzione per le scienze applicate e sezione sportiva, attrae il 25,1% degli studenti (24,5% lo scorso anno). Aumentano sensibilmente anche gli iscritti al Liceo classico, che passano dal 6,1% dello scorso anno al 6,6%, mentre rimangono stabili gli altri indirizzi.
Non sembrano riscuotere successo, oltre alla sezione sportiva (1,6%), il Liceo europeo/internazionale (0,7%), i Licei musicali, ancora a quota 0,8%, e quelli coreutici, sempre allo 0,1%.
Tuttavia la situazione è abbastanza variegata a seconda delle diverse aree territoriali: il Lazio si conferma la regione con la maggiore percentuale di iscritti ai licei (66,8%), e a seguire l’Abruzzo (60,8%), l’Umbria (58,8%), la Campania (58,3%), la Liguria (58%).
Tengono gli Istituti tecnici, anche se dal 1990 ad oggi gli iscritti passano dal 44% al 30,3%
Se la tendenza risulta stabile rispetto allo scorso anno, dal 1990 ad oggi gli iscritti agli Istituti tecnici sono passati dal 44% al 30,3%, mentre quelli dei licei dal 30% al 54,6%: una vera e propria inversione di tendenza, o di moda, se vogliamo.
Il più gettonato tra gli Istituti tecnici resta il Settore Tecnologico, che con i suoi nove indirizzi conferma il 19% delle scelte, mentre il Settore Economico, in leggero calo, registra l’11,2% delle iscrizioni.
Cadono così nel vuoto gli appelli nei confronti degli Istituti tecnici fatti dal mondo delle imprese, e finanche dall’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi, che in un’intervista su Il Sole 24 ore di circa un anno fa affermava che «Il nostro Paese ha bisogno di un forte rilancio dell’istruzione tecnica. O noi rendiamo chiaro che l’istruzione tecnica applicata è la condizione della sopravvivenza della struttura produttiva italiana, o la nostra industria è destinata a scomparire».
Lo stesso professore bolognese analizzava, in quell’interessante intervista, le cause di questo fenomeno: prima fra tutte la mentalità dei genitori, che erroneamente ritengono gli istituti tecnici scuole di serie B.
«C’è perfino chi ha pensato – continuava l’ex premier – che per frenare il calo forse dovremmo chiamarli “Licei tecnici”: quando si arriva a questo tipo di pur ingegnosa scappatoia vuol dire che c’è un grande problema di incomprensione sociale».
Questa, naturalmente, non sarebbe una novità, visto il precedente della riforma Moratti, che con la Legge 226/2005 aveva introdotto i Licei economico e tecnologico in luogo della soppressa istruzione tecnica.
Come ben ricordiamo, sarà poi il ministro Fioroni con la Legge 40/2007 a disattivare la licealizzazione dell’istruzione tecnica e a riportare le lancette indietro, a seguito di fortissime critiche, anche del mondo del lavoro, che richiedevano un’istruzione tecnica forte, ben strutturata, rinnovata, capace di promuovere competenze di tipo scientifico e tecnologico necessarie al mondo del lavoro.
L’ex statista emiliano, allora, suggerisce persino una «urgente e sistematica campagna pubblicitaria, tipo Pubblicità Progresso, a favore degli istituti tecnici. Bisogna – continua ancora – farla proprio in chiave di salvataggio del futuro del Paese e del futuro dei nostri giovani: serve per moltiplicare i posti di lavoro e mettere in giusto rilievo la dignità e la grandezza del “fare”»[1].
Tuttavia un ulteriore forte impulso all’istruzione tecnica potrebbe sicuramente derivare dagli ITS[2], il segmento di formazione “alta” non universitaria, un sistema consolidato da alcuni anni in altri paesi europei, ma che nella nostra istruzione terziaria rimane ancora con numeri di iscritti troppo bassi, stante anche la resistenza e la concorrenza delle Università.
Flessione per gli Istituti professionali: dal 16,5% di un anno fa al 15,1%
Continua a calare, invece, l’iscrizione agli Istituti professionali, che dal 16,5% dello scorso anno (già in calo rispetto all’anno precedente) scende al 15,1% di oggi. In particolare il Settore Servizi scende dal 10,5% al 9,6%, mentre il Settore Artigiano conferma la posizione con un 2%.
Ovviamente la situazione non è uniforme su tutto il territorio nazionale. Un dato in controtendenza rispetto al dato nazionale si è registrato in Emilia Romagna, dove il numero maggiore di iscrizioni (53%) è stato raggiunto negli Istituti tecnici e professionali, a fronte del 47% dei licei.
Ma è il Veneto che si conferma la regione con meno ragazzi che scelgono gli indirizzi liceali (45,9%) e la prima nella scelta dei Tecnici (38,5%). Seguono, sempre nei Tecnici, Friuli Venezia Giulia (37,5%) ed Emilia Romagna (35,8%).
Gli Istituti professionali, invece, sono primi nelle scelte dei ragazzi della Basilicata (19,3%), seguiti da Campania (17,5%) e Puglia (17,3%).
Ovviamente, per una più puntale analisi, si resta in attesa del focus e delle statistiche del Ministero.
Eppure il 46,9% dei diplomati degli Istituti tecnici e professionali trova lavoro a un anno dal diploma
Secondo Alma Diploma (dato riportato da Filo Diretto Web di Rai Parlamento)[3], il 49,9% degli studenti degli Istituti tecnici e professionali trova lavoro a un anno dal diploma, con punte del 57% per chi esce dagli indirizzi di Elettronica. Uno su due, quindi, passa dai banchi all’azienda, a fronte di circa 60.000 imprese che ogni anno hanno difficoltà a reperire figure professionali tecniche e specializzate.
E allora gli istituti tecnici e professionali, affiancati da virtuosi percorsi di alternanza scuola-lavoro e da stage presso le aziende, gli ITS e i poli tecnico-professionali, possono davvero configurare un sistema educativo innovativo e integrato con quello economico e produttivo, e diventare un passepartout per l’occupazione? Non è da escludere, anche se Confindustria chiede al sistema scolastico di adattare i curricoli alle richieste delle aziende e del mercato.
Perché tutti matti per i licei?
E allora il successo dei licei deriva dal “fascino” che ancora esercita, sia a destra che a sinistra, l’impianto scolastico gentiliano, sopravvissuto al ventennio e alle innumerevoli riforme dell’Italia repubblicana? Quella scuola d’élite, pensata e attuata da Gentile per le future classi dirigenti, continua ancora ad essere punto di riferimento per le famiglie italiane? O persiste una concezione aristocratica della cultura e dell’educazione, che considera solo i licei scuole per selezionare i migliori, e le altre scuole una sorta di “Liceo inferior” per i “nati alla zappa e alla vanga”?
Numeri alla mano, in Italia pare sia ancora molto netto quello che Edgar Morin, da tutti citato e da pochi praticato, chiama “le scontro fra le due culture”, ovvero la separazione tra l’area umanistica e l’area scientifico-tecnologica, malgrado l’invito dello studioso francese.
Probabilmente nell’immaginario delle famiglie italiane, che esercitano ancora un grosso peso nella scelta della scuola secondaria dei figli, il liceo, soprattutto scientifico, rappresenta la scuola che consente di conseguire una preparazione più completa, e nel contempo permette ai ragazzi di posticipare le decisioni alla fine del percorso universitario.
Ma si tratta di provincialismo o è una scelta consapevole, dettata soprattutto dallo status sociale della famiglia, e da quella mai tramontata dicotomia fra lavoro intellettuale e lavoro manuale? E l’orientamento in uscita dalla scuola media, quanto incide sulla scelta del successivo ciclo di studi?
Orientamento e scelte scolastiche
Le variabili che incidono sulle decisioni dei 14enni sono sicuramente diverse, e il tema della scelta dell’indirizzo della scuola secondaria è stato affrontato da diversi autori.
Daniele Checchi, dell’Università degli Studi di Milano, nel 2010, per conto della Fondazione Agnelli, ha condotto un’interessante ricerca sull’“Uguaglianza delle opportunità nella scuola secondaria italiana”[4], in cui analizza la relazione tra percorsi scolastici e origini sociali.
Dal lavoro di Checchi emerge che in Italia individui dotati di abilità, ma provenienti da famiglie culturalmente deficitarie, finiscono nella formazione professionale, e viceversa individui con basse capacità e genitori istruiti si ritrovano nei licei. I genitori laureati, pertanto, tendono a non seguire le indicazioni orientative della scuola rivolte alla formazione professionale, così come genitori poco istruiti rendono meno probabile l’iscrizione agli indirizzi liceali, nonostante l’orientamento in tal senso degli insegnanti.
Il titolo di studio dei genitori continua a rimanere rilevante: il figlio di un genitore laureato ha una probabilità nulla di ricevere un orientamento verso la formazione professionale, mentre ha un’alta probabilità di essere indirizzato verso i licei.
Famiglie con ridotte risorse finanziarie sceglieranno, così, percorsi più corti e con maggior spendibilità sul mercato del lavoro: ancora una volta la povertà materiale si ripercuote sulla povertà educativa (7° Atlante dell’infanzia a rischio, “Bambini supereroi”, 2016)[5].
Una scuola in affanno
Che la sorte degli Istituti tecnici e professionali sia dipesa anche e soprattutto dalla riforma Gelmini è ormai risaputo. E se da un lato era necessario superare la frammentazione prodotta dai numerosi indirizzi di studio e sperimentazioni, il Piano programmatico di riordino e sviluppo del sistema scolastico (legge 133/2008), che prevedeva un contenimento della spesa pubblica di circa 8 miliardi di euro in un triennio per il settore dell’istruzione, non si limita soltanto a una riduzione degli indirizzi dell’istruzione tecnica e professionale, ma procede anche a ridurre il carico orario obbligatorio, non superiore a 32 ore settimanali, con buona pace per le attività laboratoriali e le materie disciplinari. Per non parlare degli ambienti di apprendimento nelle cosiddette “classi pollaio” delle scuole superiori!
Spesso politica e politici, con il beneplacito della maggior parte della stampa e degli opinionisti di grido, invece di mettere un limite alla riduzione progressiva di risorse destinate alla scuola e all’istruzione (meno insegnanti; aumento degli alunni per classe; laboratori quasi decimati e obsoleti; divieto di nominare i supplenti per il primo giorno di assenza dei docenti; utilizzo dei docenti del potenziamento per le supplenze sino a dieci giorni; divieto di sostituzione per il personale ATA; divieto di sostituzione per i primi sette giorni per i collaboratori scolastici), cercano i responsabili all’interno della scuola, anche attraverso una deleteria campagna di disconoscimento sociale del corpo docente.
Ma veramente il grande e irrisolto problema della scuola italiana sono la scarsa professionalità dei docenti e la mancanza di valutazione riferita a insegnanti, dirigenti e scuole? Oppure il male della scuola italiana erano e sono gli scarsi investimenti sull’istruzione pubblica?
E la politica che fa?
Dobbiamo guardare con preoccupazione ai dati sulle risorse destinate all’istruzione nel nostro Paese. L’Italia è all’ultimo posto in Ue per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione (7,9% nel 2014, a fronte del 10,2% medio Ue), finanche dopo la Grecia.
Se si guarda al PIL, invece, sempre secondo i dati Eurostat 2014 (riportati da Il Sole 24 Ore nel 2016)[6], la spesa italiana per l’educazione è al 4,1%, a fronte del 4,9% medio Ue, penultima dopo la Romania (3%) insieme a Spagna, Bulgaria e Slovacchia.
E se le parole sono pietre e i numeri lo sono ancora di più, non è forse giunta l’ora di fare, con estrema onestà intellettuale (e politica), un bilancio sugli interventi riformatori della scuola, imposti, la maggior pare delle volte, dall’alto e senza il coinvolgimento di chi nella scuola ci vive? Gli ultimi anni sono costellati, d’altronde, di riforme, controriforme, abrogazioni e cacciaviti!
Ma soprattutto non è arrivato il momento di capire, attraverso una convocazione degli “Stati generali della scuola italiana”, dove vogliamo andare, senza corporativismi da una parte e senza imposizioni o ricette precostituite dall’altra?
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Iscrizioni | 2017 | 2016 |
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Licei | 54,6% | 53,1% |
Classico | 6,6% | 6,1% |
Scientifico
(indirizzo “tradizionale” + opzione Scienze Applicate + sezione Sportiva) |
25,1% | 24,5% |
Scientifico tradizionale | 15,6% | 15,5% |
opzione Scienze Applicate | 7,8% | 7,6% |
Sezione Sportiva | 1,6% | 1,4% |
Liceo linguistico | 9,2% | 9,2% |
Liceo artistico | 4,2% | 4,1% |
Liceo europeo/internazionale | 0,7% | 0,7% |
Liceo scienze umane | 7,9% | 7,6% |
Licei musicali | 0,8% | 0,8% |
Licei coreutici | 0,1% | 0,1% |
Istituti Tecnici | 30,3% | 30,4% |
Settore economico | 11,2% | 11,4% |
Settore tecnologico | 19% | 19 % |
Istituti professionali | 15,1% | 16,5% |
Settore servizi | 9,6% | 10,5% |
Settore Industria e Artigianato | 2% | 2,1% |
[1] Per un approfondimento cfr. “Perché è importante l’istruzione tecnica” di Romano Prodi, Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2016.
Vedi pure: «L’Europa è sfuocata sui rischi per le banche» di Romano Prodi, su Il Sole 24 ore, 17 gennaio 2017 (“Son vent’anni che mi batto perché venga incentivata l’istruzione tecnica”).
[2] Per un approfondimento sugli ITS vedi il n. 27 di Scuola7 del 23 gennaio 2017: “Gli Istituti Tecnici Superiori. Questi sconosciuti”. https://www.scuola7.it/2017/27/
[3] “Scuole tecniche: passepartout per il lavoro?” Andato in onda su Rai Parlamento il 17 gennaio 2017.
http://www.rai.it/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-4a036bed-7b5e-41cf-a4b3-5fca61019d9b.html
[5] In Scuola7, n. 24 del 19 dicembre 2016: “Presentato da Save the children e Treccani l’Atlante dell’infanzia a rischio 2016” – https://www.scuola7.it/2016/24/
[6] Eurostat, Italia maglia nera per spesa pubblica in istruzione e cultura, Il Sole 24 ore, 26 marzo 2016.