La denuncia dei 600 professori: non è uno scoop
In questi giorni s’è fatto un gran dire nei media del documento sottoscritto da 600 intellettuali di prima grandezza, che rivelano ciò che è arcinoto da anni, ampiamente segnalato dalle ultime rilevazioni Pisa e dall’indagine internazionale promossa dall’Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti nei principali paesi industrializzati: che parte degli studenti italiani non sanno l’italiano. Anche se dai titoli roboanti dei giornali e dalla stessa formulazione allarmata della denuncia parrebbe che nessun giovane italiano conosca la propria lingua.
Solo con questa generalizzazione una non-notizia poteva diventare uno scoop giornalistico. Inoltre il fenomeno non è uniforme sul piano geografico e sociale: “È drammatica la distanza tra i licei del Nord-Est e gli istituti professionali del Mezzogiorno”[1]. Dunque non parlerei di procurato allarme, ma neppure di denuncia equilibrata. Ferma restando la gravità del fenomeno, riconduciamolo intanto alle reali proporzioni: “Immaginiamo una festa con un centinaio di studenti, tutti del secondo anno delle superiori. Venti di loro non sanno l’italiano”[2], e non tutti loro!
Ovvietà dei rimedi proposti
Della denuncia colpisce poi la genericità: gli errori “appena tollerabili in terza elementare concernono grammatica, sintassi e lessico” (che altro se no?). Ma soprattutto delude la modestia delle proposte, di un’ovvietà sconcertante: “dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale…”. A chi non verrebbero in mente questi rimedi? Ma pensano davvero i Seicento che gli insegnanti di scuola non conoscano e non applichino questi strumenti? Sarebbe come consigliare ai pompieri l’uso dell’acqua in caso di incendio. Accertata la calamità, ecco i “nuovi” rimedi proposti: “importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti”, “introduzione di momenti di seria verifica”, “verifiche nazionali periodiche”. Verifiche poi fatte come e da chi? “Le prove Invalsi – dice Luciano Canfora, certamente esagerando – sono una mostruosità, una cosa senza alcun senso … la miglior cosa sarebbe eliminare l’Invalsi e restituire i suoi test a chi li ha inventati”. Valutazioni e verifiche, comunque, fatte sempre da chi non è mai stato in classe, quindi non è un insegnante.
Ma cosa chiedono i “clienti”?
Il problema non sta tanto nell’imporre verifiche o nell’individuare le terapie giuste – che probabilmente già esisterebbero e che comunque spetterebbe agli insegnanti trovare se gliene fosse data l’opportunità – ma nella concreta possibilità di applicare questi rimedi nelle nostre scuole. Scuole ridotte ormai a negozietti con la merce eternamente in saldo e le svendite per tutto l’anno, sempre alla ricerca spasmodica della soddisfazione del cliente (alunni e genitori). E che cosa chiede il cliente? Che tutto sia facile, che lo studio sia solo funzionale all’esercizio di una professione. Cacciari, uno dei Seicento, assolvendo totalmente insegnanti e studenti, addita come causa principale dell’analfabetismo dei giovani lo smantellamento dei licei, e il fatto che oggi pare che “l’unica cosa indispensabile sia professionalizzare”[3]. Cose che scriveva il fisico Lucio Russo vent’anni fa nel mirabile pamphlet Segmenti e bastoncini[4], e che da decenni ripetono Giulio Ferroni, Paola Mastrocola. Le ripeteva Umberto Eco. Cosa c’entra tutto questo con il quasi-analfabetismo dei giovani?
L’obiettivo di una professionalizzazione precoce comporta l’eliminazione, o comunque l’indebolimento, delle materie “inutili”, sgradite ai clienti dell’aziendina-scuola. Materie, le lingue classiche in primis, il cui studio rappresenterebbe invece un’efficacissima terapia dei mali denunciati.
Lingue morte o lingue geniali?
Ad esempio lo studio del latino servirebbe ad arricchire il lessico, anche qualitativamente: “Grazie al latino, una parola italiana vale almeno il doppio”, scrive Nicola Gardini nel recentissimo best seller Viva il latino. E analoghi attestati di utilità dello studio del greco (che sarebbe poi niente di meno che la lingua in cui ancora oggi parla la scienza) troviamo nell’altro pure recentissimo best seller di Andrea Marcalongo, La lingua geniale – 9 ragioni per amare il Greco.
Serianni lamenta che molti giovani “arretrano davanti alle prime parole astratte. Parole come esimere o desumere, che sono mattoni fondamentali per la costruzione di un discorso argomentativo”. Ebbene la conoscenza dello spessore diacronico della parola italiana attraverso l’etimologia servirebbe ad ampliare il patrimonio lessicale, quindi la capacità stessa di pensare. Ma soprattutto lo studio del latino insegnerebbe – proponendo un modello di sintassi ipotattica, quindi opposta quella paratattica, oggi vincente, dell’inglese – una disciplina del pensiero. Promuoverebbe quella capacità di argomentare gerarchizzando, la cui assenza è la cosa più preoccupante negli scritti incoerenti e sconnessi degli studenti. Ben più preoccupante del deficit di ortografia, su cui invece punta l’attenzione il documento dei Seicento.
Le virtù della traduzione
Un potente antidoto alla violazione della coerenza testuale è poi sicuramente rappresentato dell’esercizio di traduzione dal latino, che in pratica consiste proprio nel rintracciare i fili del discorso, che assicurano la compattezza che fa sì che un testo sia ciò che ne indica l’etimologia stessa: una tessitura coerente, e non un insieme di frasi sconnesse e sospese nel vuoto, prive di una connessione logica.
Per non dire delle sfumature di pensiero che il latino abituerebbe ad esprimere, anzi a concepire, visto il nesso strettissimo che intercorre tra lingua e pensiero. È il caso dell’uso del congiuntivo, che il latino insegna egregiamente ad opporre all’indicativo, e che in italiano si sta perdendo perché se ne ignora la funzione di esprimere la soggettività, cioè l’azione verbale desiderata, supposta, messa in dubbio, ecc.
Tutto questo, naturalmente, sempre se il latino lo si potesse insegnare, senza che frotte di genitori sindacalisti dei loro figli si fiondino al Tar per ogni voto un po’ al di sotto del cinque.
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[1] Luca Serianni, Se i ragazzi italiani non sanno l’italiano, la Repubblica 26 febbraio 2014.
[2] L. Serianni, cit.
[3] Intervista su: http://www.huffingtonpost.it/2017/02/05/gli-studenti-scrivono-male-italiano-appello_n_14628952.html
[4] Lucio Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano 1998, p. 86.