Quattordici articoli costruiscono sicuramente uno schema di decreto legislativo asciutto ed essenziale. Sono tuttavia sufficienti per far capire che l’operazione che si attiva non è una semplice revisione dei percorsi di istruzione professionale. Si tratta piuttosto di una virata decisa che mette in discussione l’impianto culturale del Regolamento vigente degli Istituti Professionali. Non un ritorno al passato, e neppure una blanda discontinuità con la pur recente riforma.
Solo qualche accenno ai nodi più importanti, per rimandare ad una riflessione più ampia e puntuale.
La scuola delle arti e dei mestieri per lo sviluppo del sistema paese
I problemi da cui si parte, dispersione e occupabilità in primis, rendono centrale l’attenzione alla debolezza socio-culturale degli studenti degli istituti professionali, e solo successivamente fanno recuperare un respiro educativo da bottega rinascimentale agli ambienti laboratoriali che si vanno ad incentivare. Lo schema di decreto ragiona di formare gli studenti ad arti, mestieri e professioni strategici per l’economia del Paese per un saper fare di qualità, denominato “Made in Italy”.
Gli articoli 4 e 5 dello schema di decreto con l’Allegato B entrano nel merito di una scelta di campo, che consenta agli istituti professionali di marcare la differenza tra scuola vocazionale e scuola tecnica. Si tratta di correggere-attenuare-invertire le scelte operate con il dPR 87/2010, che avevano fatto parlare di licealizzazione dei professionali. Percorso scolastico e organizzazione del curricolo sono impostati per rendere credibili i nuovi profili d’uscita e accreditare le stesse istituzioni scolastiche come scuole territoriali dell’innovazione, aperte e concepite come laboratori di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica. Ma quali caratteristiche devono avere i percorsi di IP come parte integrante del sistema di istruzione secondaria superiore per essere cerniera tra i sistemi di formazione e del lavoro?
Il sistema duale nell’apprendimento permanente
Il sistema duale del VET (Vocational education and training) in Europa ha dimostrato efficacia nel contrastare le disuguaglianze socio-culturali. Ha visto diminuire la dispersione dove si innalzano i livelli di istruzione e delle competenze di cittadinanza di un’utenza normalmente considerata debole; una maggiore flessibilità, e azioni che orientano e accompagnano il progetto di studio e di vita delle persone, si sono dimostrate decisive nell’apprendimento permanente. Per valorizzare la persona nel suo ruolo lavorativo, le competenze di un diplomato dell’IP non possono identificarsi con quelle meramente applicativo-esecutive; occorre collocarle in una posizione intermedia dialogante con l’imprenditorialità, l’autoimprenditorialità e la disposizione alla cooperazione per la soluzione di problemi[1].
L’obiettivo affidato ai P.E.Cu.P è dunque estremamente difficile, perché neppure i dati più severi della crisi occupazionale hanno convinto le famiglie italiane ad iscrivere i loro figli alle scuole professionali. Il tema dell’occupabilità non trova un orientamento convinto nella fase di passaggio dal primo al secondo ciclo, fatta eccezione (ma anche qui la spinta propulsiva si va esaurendo) per indirizzi che riguardano lavori prepotentemente saliti alla ribalta mass-mediale (come quello enogastronomico).
Lo scontro gratuità dei saperi versus utilità dei saperi ha visto fin qui prevalere la prima, in assenza di una contestualizzazione del problema nell’attuale società della conoscenza.
Se non inserito nella prospettiva della crescita complessiva della qualità dell’istruzione, anche il sistema duale rischierebbe in Italia di disegnare un approccio precoce al lavoro senza ottenere un contestuale sviluppo della persona e del sistema paese. La norma di salvaguardia dell’apprendimento permanente sta proprio nell’integrazione tra i sistemi, che esalta la responsabilità e l’autonomia del soggetto in apprendimento per la costruzione del suo percorso. Ma è una sfida culturale che non può essere lasciata alle singole riforme di ordinamento.
Le ipotesi di soluzione nello Schema di Decreto
a) Tracciare filiere virtuose e visibili di percorsi di studio e lavoro, che facciano prefigurare esiti in uscita direttamente nel lavoro, negli ITS e nell’Università. Sono 11 gli indirizzi che si prospettano. Il percorso quinquennale viene scandito in biennio + triennio, a cui corrispondono certificazioni di competenze precise: al termine del biennio quelle relative alle competenze chiave della cittadinanza attiva dell’obbligo di istruzione (D.M. 139/2007); all’esame di Stato quelle integrate tra la dimensione culturale comunicativa e quella tecnico-operativa del V livello EQF.
b) Rendere reversibili le scelte. Sono previste vie d’uscita verso l’IeFP e i rientri all’IP: al terzo anno con il percorso in classi separate, per il conseguimento del diploma di qualifica triennale del Repertorio Nazionale delle Qualifiche, con un possibile quarto anno per il Diploma di Tecnico Professionale; il rientro nei percorsi quinquennali è possibile sia al quarto sia al quinto anno.
c) Potenziare le metodologie laboratoriali e le attività di laboratorio per l’acquisizione solida di tutte le competenze, da quelle linguistiche a quelle logico-matematiche, a quelle di indirizzo.
d) Incrementare le attività in alternanza scuola lavoro e/o in apprendistato.
e) Definire un sistema di orientamento efficace anche per i nuovi lavori.
I punti di attenzione
Se l’elencazione favorisce la conoscenza puntuale dei singoli aspetti, non dobbiamo dimenticare che rispondere ad uno solo di questi significa incontrare tutti gli altri.
Le Reti degli istituti professionali hanno, ad esempio, sempre rivendicato l’urgenza di mettere mano al punto c), in particolare alla necessità di riequilibrare sia le discipline del curricolo sia il rapporto orario tra area generale e area di indirizzo.
L’ipotesi quantitativa dell’Allegato B “Quadri orari dei nuovi istituti professionali” sposta 66 ore annuali dall’area generale a quella di indirizzo nel primo biennio e 33 ore nel triennio, tenendo fermo il monte ore annuale a 1056. Incremento congruo o insufficiente?
Chi avesse pensato ad un ritorno al passato, con l’aumento complessivo del monte ore del curricolo, deve ora fare i conti con altre modalità di valorizzazione dell’area professionalizzante, ed entrano in gioco i punti b) e d) e la quota di personalizzazione del Progetto formativo individuale fino a 264 ore nel biennio.
Analogamente per le discipline dell’area cosiddetta generale: il quadro orario costringe di fatto a pensare l’aggregazione in Assi sia nel biennio sia nel triennio.
Si tratterà di ragionare molto attentamente sulla definizione dei Periodi didattici[2], sull’organizzazione del curricolo per Unità di apprendimento[3], sulla possibilità di divisione della classe in gruppi di livello.
La certificazione delle competenze e la reversibilità dei percorsi prefigurano sicuramente esigenze di cambiamento metodologico, ma anche di un uso più consapevole degli strumenti di attuazione dell’autonomia scolastica[4], se non si vuole correre il rischio di vanificare il tentativo di integrazione tra sistemi di istruzione, formazione, lavoro.
Saranno i Piani Triennali dell’offerta formativa degli istituti professionali, nel periodo 2018/2019 – 2022/2023, a dirci se la sperimentazione risponde ai punti di attenzione e agli indicatori di monitoraggio del documento “Analisi di impatto della regolamentazione”.
Sicuramente un decreto di questa portata ha bisogno di azioni di accompagnamento, sia all’interno delle istituzioni scolastiche sia nella sussidiarietà tra le autonomie.
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[1] Cfr. Allegato A allo schema di decreto punto 1.
[2] Cfr. articolo 4 comma 2 dello schema di decreto
[3] Cfr. articolo 5 comma e) dello schema di decreto
[4] Cfr. articolo 6 dello schema di decreto