Una risposta a Galli della Loggia sulle promozioni facili
In un intervento del 28 aprile scorso che ha fatto molto discutere, il professor Ernesto Galli Della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, ha argomentato la sua indignazione nei confronti della scuola italiana che non boccia più. La provocazione dell’autore non ha risparmiato nessuno: dalla politica, che per opportunismo avrebbe consentito il progressivo ridursi della scuola pubblica a fabbrica di diplomi facili, a tutti gli operatori della scuola, che per una falsa idea di “inclusione” avrebbero avallato l’estromissione del merito dalle pratiche valutative.
Le parole “merito” e “selezione” costituiscono l’asse portante del ragionamento. La scuola avrebbe rinunciato all’“accertamento del merito”. E chi, come il docente di un istituto tecnico citato in apertura del suo pezzo, osasse pretendere di farlo, oggi rischia addirittura la sospensione dal servizio. Infatti il tribunale di Lecce avrebbe annullato la sospensione che un dirigente scolastico avrebbe inflitto al collega proprio perché si sarebbe ostinato a voler valutare in modo giusto. Il quadro appare surreale a chi vive la scuola: sarebbero oggi i tribunali a consentire ad un insegnante di accertare il merito degli studenti, come se questo non fosse più possibile nella scuola italiana?
A cosa serve l’istruzione?
L’articolo di Della Loggia ha il pregio di non essere ambiguo. La sua idea di scuola emerge con chiarezza. La scuola deve “impartire conoscenze” e deve verificare “l’effettivo grado di apprendimento degli alunni”, più avanti riformulato come “profitto vero e proprio”. Tutto quello che impedisce tale compito è individuato come “voga democraticistica postsessantottesca”. Considerato che dal Sessantotto è passato quasi mezzo secolo, ed in questo mezzo secolo sono iniziate e si sono concluse intere carriere di insegnanti, se ne ricava che il cancro delle promozioni facili è irreversibile. Il genere letterario del testo peraltro è quello della lamentazione, e non si ravvisano rimedi se non quello di un ravvedimento complessivo.
“A cosa serve un sistema d’istruzione simile?”, si chiede l’estensore dell’articolo. Dai suoi argomenti la risposta emerge chiara: deve servire a selezionare i migliori, e per selezionare i migliori occorre bocciare, cioè adeguare l’assegnazione dei voti agli effettivi risultati. Curiosamente il paradigma pedagogico implicito, quello dei risultati, è abbastanza sovrapponibile a quello che, secondo una parte del mondo della scuola, le attuali politiche scolastiche perseguirebbero attraverso la rilevanza valutativa che viene assegnata alle prove standardizzate. Ne risulta che la scuola assolve al suo mandato quando riesce a stilare la lista dei meritevoli e quella di coloro che, non essendo meritevoli, dovrebbero andare ad ingrossare l’esercito dei ripetenti.
Il mito dei risultati “oggettivi”
Della Loggia con tutta evidenza non è un insegnante, e ama frequentare insegnanti come quello citato in apertura, che dice che soltanto il venti per cento degli alunni sarebbe promosso se i prof dessero le valutazioni esatte. Il paradigma dell’esattezza e dell’oggettività è quello che domina lo scenario discorsivo. E naturalmente la prospettiva valutativa resta schiacciata sulla dimensione misurativa. Gli alunni sono chiamati alla misurazione esatta delle loro prestazioni, e non c’è spazio per la chiacchiera inclusiva, soprattutto quando inclusione vuol dire cercar di capire che cosa ostacola l’apprendimento di un ragazzo, e quali strategie si possono concordare per consentirgli di ripristinare le migliori condizioni per apprendere. Della Loggia sa bene (o dovrebbe sapere) che per “aggiustare” processi ci vuole tempo, ma non ritiene che la scuola debba saper attendere. Allo scrutinio di giugno deve passare la mannaia. Come dire che siamo davanti a risposte semplici a problemi complessi.
In realtà è proprio la complessità la grande assente dal discorso di Della Loggia. La complessità e la dimensione dell’analisi costruttiva. Viene da chiedersi soltanto cosa intenda il professore per “merito”. Forse egli intende “eccellenza”, cioè quella condizione che è constatabile a partire da un risultato o da un traguardo. Che è il suo punto di osservazione. Merito, costituzionalmente parlando, dovrebbe essere invece parola processuale, che implica sguardo complessivo su tutta la vicenda di un allievo, che è cognitiva non meno che emotiva e volitiva. Cioè motivazionale. Uno sguardo che forse l’accademico che è in Della Loggia non ritiene di dover attivare, ma che la scuola per chiamarsi tale deve attivare, con buona pace del professore.
Una scuola che pro-muove
A scuola si imparano le Scienze, la Storia, la Matematica, la Lingua e tutte le altre discipline, ma attraverso queste si impara anche a stare con gli altri, a negoziare un punto di vista, a cercare soluzioni a problemi, a porre problemi, e non è detto che questi non siano da rubricare quali “apprendimenti”. A scuola si apprende a diventare cittadini, e non è detto che questo riesca ad accadere nel tempo voluto da Della Loggia o col riverbero immediato sulle conoscenze che egli desidererebbe. Diventare cittadini significa molte altre cose, e la Costituzione ha assegnato alla scuola il compito di rimuovere gli ostacoli che possono impedirlo, e chi lavora a scuola, ad esempio al Sud, sa bene che per realizzare quest’obiettivo bisogna essere disposti ad attendere pazientemente che gli esiti germoglino dai processi virtuosi. Forse è l’idea di scuola come comunità educante che crea disagio all’autore.
Ma se il progresso si verifica, o si sta certamente verificando, l’alunno è meritevole, e come tale merita di essere accompagnato e incoraggiato nel suo cammino. Cioè di essere, come dice l’etimo, pro-mosso. Della Loggia vede le promozioni come atto meramente burocratico, democraticistico e dequalificante, e quindi non vede alcuna cifra inclusiva o qualificante nel promuovere. La sua idea di merito è statica, e coincide con ciò che l’alunno “produce”. L’implicito politico che muove la sua rispettabilissima argomentazione non è poi tanto implicito. Così come non è implicito il dissenso di una parte della scuola, che ci auguriamo non minoritaria.