Negli ultimi mesi il nostro Paese sembra aver preso coscienza di una grande questione generazionale: scarsi incentivi all’occupazione giovanile, scarse strutture per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro, difficoltà a reinterpretare il ruolo della formazione e della scuola, in un contesto rapidamente mutato. Facile fare recriminazioni e addossarsi delle colpe, più difficile costruire “politiche” che siano sufficientemente condivise e fattibili. Qual è il giudizio di Confindustria? È giusto dare meno ai padri (oramai ai nonni) e più ai figli? In che modo e per fare che cosa?
Dieci anni vissuti in un mercato paragonabile ad una economia di guerra ci hanno lasciato un compito difficile e necessario al tempo stesso. Non è possibile fare differenze generazionali in un’emergenza diffusa, perché al centro delle politiche attive del lavoro va posta la persona nella sua universalità. Dunque è giusta la priorità per i giovani, che vanno inseriti con successo e sostenibilità nei percorsi lavorativi, ma una pari urgenza c’è per tutti i lavoratori che senza un’adeguata formazione non hanno gli strumenti per rientrare nel circuito lavorativo, quando sono vittime di crisi aziendali profonde, o per rimanere con successo e soddisfazione personale a fornire un contributo di crescita e sviluppo nel campo in cui si applicano quotidianamente.
I dati sullo “scollamento” tra esigenze delle aziende e livelli di qualificazione forniti dalla scuola sono clamorosi. Molte associazioni imprenditoriali lamentano la carenza di quadri tecnici intermedi o di professionalità di elevata competenza. C’è però bisogno anche di manodopera di livello base. D’altra parte abbiamo le percentuali più alte d’Europa di NEET. Come mai tutto ciò? C’è un problema di mercato del lavoro? Di incontro domanda-offerta? Di autoreferenzialità della scuola? Di scelte sbagliate dei ragazzi? Di cattiva informazione?
Non c’è, a mio avviso, un problema di posizionamento dei mondi coinvolti nella questione della mancanza di incontro tra domanda ed offerta. Il buon lavoro svolto negli anni ha sicuramente abbattuto barriere di autoreferenzialità sia del comparto dell’istruzione che di quello dell’impresa, e si può dire, senza tema di smentita, che oggi si condividono obiettivi ma soprattutto linguaggi, e questo non può che far ben sperare per i risultati attesi. Attraverso questo rinnovato rapporto bisogna agire su una necessaria informazione che orienti le scelte dei ragazzi, ma soprattutto su una lenta ma continua modernizzazione dei curricoli, che possano da un lato facilitare l’occupabilità dei giovani, ma dall’altro rendere più competitivo il nostro comparto produttivo, che il più delle volte è ancorato a cognizioni e concezioni organizzative obsolete.
Da un paio d’anni è stata attivata per tutte le scuole secondarie italiane l’esperienza di alternanza scuola-lavoro. Faticosamente, con difficoltà operative, ma anche con tanti dubbi. Molti insegnanti la considerano una perdita di tempo (specie nei Licei) o un subdolo tentativo di addestrare precocemente ad un mestiere. Insomma c’è anche una questione “culturale”. Qual è l’interpretazione “autentica” per Confindustria?
La Confindustria ha spinto molto, insieme alle altre associazioni di rappresentanza, per l’adeguamento del nostro sistema duale ad altre realtà europee. L’alternanza scuola-lavoro inserita nella “Buona Scuola” è un primo passo importante, che forse andava inserito con maggior gradualità nel nostro sistema, ma che senza dubbio è un ottimo ed imprescindibile strumento di diffusione di una cultura sino a ieri troppo distante, soprattutto dall’agito degli imprenditori. Abbiamo per questo motivo immediatamente posto in priorità assoluta dei nostri programmi il tentativo di aumentare negli imprenditori la coscienza formativa e l’applicazione di percorsi condivisi con la scuola, nei dettami di quanto previsto dalla legge. Abbiamo pubblicato e recentemente aggiornato una guida pratica, un autentico vademecum, che possa affiancare i nostri colleghi in questo percorso. Agli imprenditori più scettici, e ai docenti che considerano tutto ciò una perdita di tempo, va ricordato che le 400 ore di alternanza (200 per i licei) sono ore di didattica, di una nuova didattica adeguata agli altri paesi europei, e non di lavoro. Un necessario affiancamento per far capire ai nostri giovani dinamiche, gerarchie, organizzazioni e, perché no, distanze e problematiche del mondo dell’economia diffusa, che fino a ieri restavano solo nell’immaginazione dei nostri figli, e che segnavano un impatto dirompente al loro ingresso nell’attività lavorativa.
Le imprese sono preparate ad accogliere in maniera intelligente migliaia di ragazzi delle scuole? Cosa si potrebbe fare per formare figure di supporto (tutor) sia nella scuola, sia nelle aziende? Quali incentivi e facilitazioni pubbliche sarebbe necessario mettere in campo?
Le imprese non sono pronte per dimensione, organizzazione e cultura. Fino a ieri mediamente 250.000 ragazzi ogni anno e per poche ore venivano ospitati nelle aziende in percorsi di alternanza. Oggi parliamo di 1.250.000 ragazzi per 400 ore, e la moltiplicazione tra i fattori dà un risultato in ore di presenza in azienda che spaventa, se rapportato alle dimensioni medie dell’impresa Italiana e a quanto dicevo relativamente alla cultura formativa degli imprenditori. Ciononostante esistono pratiche esemplari, che vanno anche oltre quanto previsto dalla legge nel nostro Paese. Esistono e non hanno geografia, nel senso che sono realtà importanti di percorsi sia al sud che al nord dell’Italia, e non necessariamente in zone di grandi comparti industriali. Dunque si deve partire da qui, da quei percorsi virtuosi che esistono da prima della Buona Scuola, e che devono fungere da autentici apripista per tutti gli altri. Appare ovvio che, così come è stata regolamentata, la legge è palesemente mancante sotto il profilo delle facilitazioni. Pur trattandosi di una norma che abbraccia due mondi (scuola e lavoro), resta un obbligo soltanto per gli studenti e le scuole, mentre si affida al buon senso e alla coscienza delle imprese, e dispone fondi soltanto per le scuole (seppur insufficienti, a sentire gli addetti ai lavori) da parte del Miur, mentre nulla è previsto per rimborsare le spese di tutoring, formazione per la sicurezza e quant’altro nelle imprese. Più difficile dunque diffondere la cultura, se questa ha anche un costo vivo, e persino la dotta Germania ne è un buon testimone, se ricordiamo che le imprese “formative” aumentarono del 35% allorquando furono inseriti dal governo tedesco incentivi per le stesse. Il fondo interprofessionale che rappresento (Fondimpresa), unitamente agli altri fondi, può senza dubbio essere lo strumento adatto per intervenire su questa come su altre politiche attive del lavoro, accompagnando le imprese nel rimborso e nella formazione dei tutor aziendali con il conto formazione che le imprese Italiane hanno e che spesso non sfruttano, perdendo inesorabilmente i propri fondi accantonati.
Oltre all’alternanza scuola-lavoro c’è il problema dell’istruzione professionale, della formazione professionale, di un eventuale sistema duale (mai decollato, anche per resistenze politiche e sociali), dell’apprendistato. È possibile orientare i giovani italiani verso questi “canali formativi” spesso considerati di minor pregio sociale? Come invertire questa tendenza? Ci sono esperienze interessanti da riportare? Quale può essere il ruolo di Fondimpresa?
La vera svolta per il futuro lavorativo in Italia è il combinato disposto dei percorsi citati. L’alternanza scuola-lavoro, come detto, è un modello didattico che poco ha a che fare con l’occupazione, essendo un veicolo importante di occupabilità. Cosa diversa sono invece la formazione professionale e l’apprendistato, che sono strumenti vivi ed attesi per l’occupazione, e che in altri paesi europei rappresentano il vero centro di interesse sia per i giovani che per le imprese. Fondimpresa negli anni si è impegnata fortemente per l’affiancamento delle persone occupate nella loro formazione continua, che è e resterà uno strumento imprescindibile per la crescita individuale e anche del sistema delle imprese. Dalla sua nascita il fondo ha erogato 2,5 miliardi di euro in ore formative, e circa la metà di questa cifra è stata investita in percorsi di formazione relativi all’innovazione e alla competitività. Ad oggi il fondo non ha possibilità di azione sugli inoccupati, e soltanto con apposita deroga governativa ha messo in piedi percorsi per lavoratori in mobilità negli anni passati. Ultimamente tuttavia è stato possibile finanziare percorsi formativi per disoccupati che a fine percorso venivano inseriti in azienda o di neo-assunti, ed il successo è stato importante. Sono, personalmente e a nome del fondo, impegnato in colloqui col Ministero per poter allargare il nostro raggio di azione anche ai percorsi per neo-diplomati e disoccupati, ma questo, come si intuirà, non dipende solo dalla nostra volontà, ma anche da condizioni a contorno che sono fondamentali per l’attivazione di nuove attività.
Le trasformazioni nel sistema produttivo, nelle forme di globalizzazione, la presenza pervasiva del digitale e delle tecnologie, l’automazione, etc. sembrano far presagire la scomparsa del lavoro così come lo conosciamo. Di questo parla Industria 4.0, ma molti vedono più rischi che potenzialità. Dal punto di vista delle imprese come viene affrontato il grande tema dell’innovazione? Cosa ci si aspetta da un lavoratore che entra nel mondo del lavoro? Quali qualità e competenze? Quelle soft e traversali (relazionali, personali, creative, ecc.), quelle funzionali (lingua inglese, informatica, comunicazione) o quelle cognitive (il “leggere, scrivere, far di conto” magari rivisitato)? Forse un po’ di tutto questo, ma a cosa dare la priorità?
La sfida del cambiamento è iniziata lo stesso giorno in cui è cominciata la crisi economica. Nell’era dei “tag” abbiamo voluto etichettare questo cambiamento con 4.0, ma ciò che ci attende non è che una fisiologica, necessaria, strutturale variazione del modo di lavorare, dell’organizzazione nel farlo e degli strumenti con cui farlo. Per questo motivo ben venga la diffusione di competenze trasversali che hanno visto l’impegno diffuso di tutti negli ultimi anni. Ben venga l’applicazione di nuove teorie organizzative per i necessari cambiamenti che porteranno ad innovare i processi prima che i prodotti, ma l’appello sentito e profondo che mi sento di fare, a nome anche dei miei colleghi imprenditori, è di non perder mai di vista l’importanza fondamentale che rappresentano le competenze di base. Ciò non solo nell’ottica importantissima della competitività delle nostre imprese, che hanno bisogno sempre più di persone preparate e che si sappiano esprimere bene, ma anche e proprio nell’ottica innovativa, dove non c’è leadership, comunicatività o problem solving che tenga, se non si hanno le necessarie competenze base ad un livello accettabile (in primis matematica, inglese e grammatica).
A parole tutti (Governo e forze politiche, parti sociali, addetti ai lavori) riconoscono che una buona istruzione è una risorsa fondamentale per le opportunità personali di crescita e per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. È possibile tenere insieme questi due valori? E come parlarne ai ragazzi (senza un’idea di futuro), ai genitori (forse troppo disorientati) e agli stessi docenti (alle prese con uno stato d’animo sfiduciato)?
Per passare dalle parole ai fatti si deve infittire il rapporto tra imprese e giovani. In questo modo i ragazzi potranno toccare con mano l’importanza della buona istruzione rispetto al loro valore occupazionale. Solo così le pagine, a volte pesantissime, dei libri di testo potranno divenire leggere e persino piacevoli. L’idea di futuro è insita nelle nuove generazioni; va ricordato loro che il successo è dietro l’angolo, se e solo se si riusciranno a coniugare le loro aspirazioni, la loro propensione e la loro innovazione giammai con le richieste del mercato, ma con il loro sapere e il loro “imparare” che, a differenza delle nostre generazioni, non dovrà mai affievolirsi fino alla fine dei loro giorni. Più complesso il discorso delle famiglie, troppo spesso legate a logiche obsolete e con in mano la bussola del guadagno e del successo economico a tutti i costi, e dei docenti, che hanno bisogno, come gli imprenditori, di un cambio radicale di visione, culturale prima che materiale, che li porti ad adeguare i loro percorsi alle spinte dei giovani con gli strumenti del mercato del lavoro. Mai come in questo caso va esteso ai docenti l’appello che il Presidente di Confindustria ha rivolto ai ragazzi in occasione dell’ultimo evento “Orientagiovani”. Il Presidente ha detto: “Non morite di esperienza!”. Ecco, credo sia questo un buon indirizzo da dare ai docenti. Una continua ed inesorabile spinta ad innovare il loro sapere, una sana fame quotidiana di aggiornamento.