Un documento per “smuovere” le acque
L’appello per la scuola pubblica, elaborato da un gruppo di insegnanti secondari e universitari, e firmato da autorevoli figure del mondo accademico, si presenta come un’operazione di smascheramento. Chi ha governato la scuola negli ultimi anni avrebbe infatti mascherato “la natura ideologica, di marca economicistica ed efficientista” con parole e formule apparentemente inclusive e democratiche. Secondo gli estensori del documento sembrerebbe giunto il momento di aprire un ampio dibattito su alcune questioni di fondo, per la precisione sette.
Prima di entrare nel merito delle sette questioni, occorre plaudire comunque ad un’iniziativa che vuole far tornare a discutere sul progetto culturale che il nostro Paese pensa per la scuola.
Sette punti, sette domande
Competenze versus conoscenze?
Il primo punto, alquanto banalmente, contrappone conoscenze disciplinari a competenze, come se si trattasse di due entità distinte e non di un continuum evolutivo. Si può facilmente convenire sull’idea che “la competenza, unica e trasversale, si consegua nel tempo, nello spazio sociale, nei contesti comunicativi affettivo-cognitivi”, dove tuttavia la disciplinarità prima rivendicata si perde nella formulazione “unica e trasversale”. La sensazione è che il bersaglio non sia la competenza sic et simpliciter, quanto un uso distorto del costrutto, piegato a logiche di standardizzazione e di risultato. E in questo caso si conviene senz’altro con gli autori.
Il mito dell’innovazione
Il secondo punto insiste sulla non coincidenza tra innovazione e miglioramento. Sì, forse un’enfasi eccessiva di marca ministeriale sulle possibilità salvifiche del digitale andava ridimensionata. Ma i documenti ministeriali, per la verità, contengono anche le dovute precisazioni che vanno nella stessa direzione del documento. Anche qui compare la parola “ideologia”, che risulta essere il filo rosso del testo: l’ideologia produttivistica ed efficientista.
L’elogio della lezione
Il terzo punto ripropone alcuni mantra dell’insegnamento umanisticamente ispirato. Torna l’elogio della disciplina come strumento di formazione, e compare il sospetto per tutte le aggettivazioni (frontale, dialogata, laboratoriale) che si affibbiano alla parola lezione: “Rifiniture burocratiche che non ne intaccano la sostanza”.
A scuola di teoria o di pratica?
Il quarto punto prende le distanze dall’obbligo dell’alternanza scuola-lavoro, nella convinzione che “sia necessario portare la conoscenza del lavoro nelle classi, non gli studenti a lavorare”. È un punto che merita un dibattito più approfondito, capace di affrontare a viso aperto la madre delle questioni sottese: di che genere è il sapere della scuola? Teorico o pratico? Cos’è “teoria” e cos’è “pratica” nel processo di apprendimento di un soggetto in età evolutiva?
L’approccio docimologico psicometrico
Il quinto punto attacca la tendenza del sistema alla psicometria. Si rivendica il carattere qualitativo dei processi educativi e di ricerca. Sotto accusa gli orientamenti internazionali, che influenzerebbero le politiche formative dei singoli Paesi in senso comparativo e competitivo.
Valutazione formativa e Invalsi
Si lega al precedente il sesto punto, che getta una luce sinistra sul ruolo dell’Invalsi e sulla pretesa dell’Istituto – individuato come “terzo” – di frapporsi tra insegnanti e studenti nel processo di valutazione. Alla valutazione viene assegnata una funzione eminentemente formativa, che mal si concilia con le invasioni di campo degli enti preposti a compiere rilevazioni di apprendimenti in termini di prodotti e risultati.
Inclusione e uguaglianza
Il settimo e ultimo punto contesta le politiche legate all’inclusione, invitando il governo ad investire molto di più sulla soluzione dei problemi legati alla dispersione, all’inclusione e alle disuguaglianze.
Una moratoria per la 107?
Il documento si conclude con la richiesta di una moratoria su quattro dispositivi: l’alternanza scuola-lavoro, l’obbligo del Clil, le prove censuarie Invalsi e le modifiche relative all’esame di Stato del secondo ciclo, “che renderebbero di fatto sempre più marginale la didattica disciplinare”. Ad essa segue la richiesta di aprire un ampio dibattito governo-scuola di base-organizzazioni sindacali-cittadinanza su tutti questi temi e (sottolineato) su tutto l’impianto della Legge 107/2015. Non sfugge agli estensori che le questioni da loro poste non hanno la loro origine nella Legge 107, bensì in un iter legislativo che viene da più lontano. Sul banco degli accusati, pertanto, starebbe la politica scolastica “pluridecennale” che ha poi come “apice” la Legge 107.
Cattiva politica scolastica e buone abitudini in aula?
Qualche considerazione. Gli estensori individuano il “nemico” nella politica scolastica, e colgono una parte del vero. Che le politiche scolastiche nel nostro Paese abbiano adottato modelli produttivistici, con un’enfasi forse spropositata su aspetti di quantità e di risultato (si pensi alla resistenza pervicace del sistema a favore del voto in decimi nel primo ciclo), è condivisibile. Ma i nostri autori guardano poco in casa propria. L’impoverimento culturale della scuola, da essi lamentato, non può essere soltanto attribuito alla politica. Purtroppo in molte aule delle superiori quel che manca, e che invece servirebbe, è la capacità dei docenti di aiutare i ragazzi a transitare dalla mera ripetizione di nozioni alla loro rielaborazione competente. Sì, competente, se la parola riesce a smarcarsi da qualsiasi accezione addestrativa, e a riguadagnare lo spazio culturale che le è proprio.
A.A.A. cercasi epistemologia delle discipline e didattica formativa
La scuola delineata dal documento è molto bella, ma ha il solo difetto di essere alquanto rara nelle aule delle scuole superiori, e non solo per effetto dell’ideologia di cui parlano i colleghi. Credono davvero i firmatari che l’“epistemologia delle discipline” da loro invocata stia di casa tra i docenti italiani delle superiori? In tema di valutazione, poi, le logiche quantitative e comparative che si rimproverano al sistema hanno proprio tra i docenti delle superiori, cultori di voti, medie e punteggi, un avamposto più realista del re. E da tempi non sospetti.
Infine le discipline. Gli estensori difendono le discipline dalla modifica all’esame di Stato contenuta nel d.lgs. 62/2017 sulla valutazione. Verrebbe però da rivolgere loro una domanda: è stata di vostro gradimento l’interpretazione fin qui data dagli insegnanti italiani all’esame di Stato? Quale uso formativo (per non usare lo sgradito “competente”) delle discipline è stato fatto? Perché in questi venti anni non si è denunciata con forza la riduzione dell’esame di Stato ad accertamento di nozioni e a punteggificio? E dunque: perché la didattica disciplinare uscirebbe ancor più sminuita dal d.lgs. 62/2017 di quanto non lo fosse già dalla gestione didattica dell’esame di questo ventennio?
I firmatari: corto circuito tra accademia e scuola secondaria?
Quest’ultima considerazione apre due brevi riflessioni sulla fisionomia culturale e professionale dei firmatari dell’appello. I primi firmatari, prestigiose figure del mondo accademico, provengono da matrici pedagogiche molto diverse, e sono forse accomunati dal desiderio di smuovere le acque. Ci si associa volentieri ad un siffatto desiderio. Ma va anche detto che, se i primi firmatari dovessero sedersi attorno ad un tavolo per discutere, ad esempio, il primo punto, sarebbe interessante assistere al confronto tra Settis (o Russo) e Baldacci, o tra Luperini e Vertecchi. Seconda riflessione: a scorrere le firme, ci si accorge dell’entusiasmo suscitato da un simile appello soprattutto (anzi quasi esclusivamente) presso gli insegnanti del settore di scuola proverbialmente più refrattario a qualsiasi innovazione pedagogico-didattica: il secondo ciclo. E non stupisce la massiccia presenza dei docenti universitari (notoriamente poco informati sulle questioni ministerial-pedagogiche), da cui più volte giunge il lamento sulle pessime condizioni dei diplomati italiani. L’assenza dei docenti del primo ciclo – che, loro sì, le riforme e le controriforme le hanno sempre vissute sulla pelle – rende pertanto l’operazione alquanto settoriale.
Non c’è più il liceo di una volta?
In ultima analisi, nel ribadire il plauso ad un’iniziativa che ha avuto il merito di riaprire il dibattito sulle sorti della nostra scuola, non si può fare a meno di percepire quell’irresistibile profumo di “indietro tutta” che spesso aleggia nelle aule-docenti dei licei italiani, con la strizzatina d’occhio del mondo universitario, spesso insofferente verso il lassismo valutativo della scuola di massa. Profumo che si percepisce in modo ancora più intenso leggendo l’intervista al collega Carosotti, primo proponente dell’appello.