Gentile Presidente, continua il “tormentone” sull’INVALSI, o meglio, sul “senso” da attribuire alle prove di rilevazione degli apprendimenti, che da una decina di anni coinvolgono la totalità degli allievi di alcune classi scolastiche (2^ e 5^ della scuola primaria, 3^ media, 2^ superiore e – dal prossimo anno – 5^ superiore). I messaggi che si percepiscono a livello politico sembrano portare verso il superamento delle prove INVALSI così come le abbiamo conosciute, per tornare ad un regime di facoltatività, magari lasciato alle singole scuole. Come interpreta queste tendenze e quali potrebbero essere le conseguenze delle decisioni che si ipotizzano?
Abbiamo notizie diverse: il Ministro Bussetti ha suggerito di mettere a punto anche nuove prove (di geografia e sulle soft skill), e quindi non ci risultano cambiamenti radicali. Dobbiamo però dire che l’introduzione di altre prove standardizzate richiede anni di sperimentazione; una prova, infatti, per diventare definitiva impiega dai 18 ai 24 mesi.
In realtà le prove costituiscono ormai un patrimonio per il Paese, perché i dati che offrono sono elementi presi in carico e utilizzati per attività di diverso tipo. Un esempio per tutti: gli interventi sulle cosiddette aree interne si sono fondati anche sulla base di dati INVALSI, che hanno messo in risalto in quali zone gli esiti scolastici fossero insoddisfacenti. Anche diverse università italiane (Bari, Bologna, Milano, Torino) utilizzano i dati INVALSI per sviluppare ricerche ulteriori. Insomma credo che si possano immaginare innovazioni, che andranno considerate nella prospettiva dei tempi di realizzazione e della loro utilità generale. Si tratta evidentemente di scelte politiche che non competono all’Istituto.
C’è poi un motivo ancora più rilevante che dovrebbe comunque spingerci a mantenere le prove censuarie, cioè per tutti gli studenti, e quindi per tutte le scuole. La singola scuola non saprebbe che farsene di prove “facoltative” o campionarie. Se confermiamo l’attuale assetto autonomistico delle scuole, è fondamentale offrire a ciascuna scuola dati che riguardano le sue classi e i suoi studenti, messi in relazione con opportuni dati di confronto.
Sembrano emergere due tipi di resistenze verso l’INVALSI. La prima si riferisce al tipo di prove utilizzate. Si dice che “misurare” gli apprendimenti attraverso test standardizzati finirebbe per privilegiare risposte convergenti, senza mettere in risalto un pensiero argomentativo, la capacità di fare sintesi, la comprensione. È proprio così? La seconda teme il ruolo di “controllo” esterno sulle scuole e sull’autonomia didattica dei docenti, che le prove finirebbero per svolgere. Che ne pensa?
La mia impressione è che il cambiamento della compagine governativa abbia risvegliato aspettative del passato da parte di alcuni, che vorrebbero cogliere questa occasione per rimettere in discussione il senso delle prove. Aggiungerei inoltre che si fa riferimento a prove del passato lontano che, come per qualsiasi innovazione, scontavano il periodo per così dire “di rodaggio”.
Le prove attuali richiedono modi di pensiero anche argomentativo, stime del risultato in matematica, immaginazione e lettura di significati impliciti, ecc. Tutte abilità che nulla hanno a che fare con modalità di pensiero convergente. La mia impressione più frequente su questo tema è che si parli delle prove senza conoscerle direttamente.
Vorrei inoltre precisare che le prove INVALSI verificano competenze quali la comprensione del testo, l’uso di competenze matematiche applicate alla quotidianità, che costituiscono prerequisiti per l’esercizio pieno dei diritti di cittadinanza. Proprio perché si fa riferimento a competenze di base, non possiamo considerare invadente il compito istituzionale dell’INVALSI di verificare tale acquisizione, che richiama peraltro una delle missioni fondamentali delle nostre scuole.
A scuola ovviamente si imparano moltissime altre cose – posso dirlo con piena consapevolezza da psicologa dell’educazione – e l’INVALSI non aspira a mettere a punto prove standardizzate su tutte le discipline.
Ci sono diversi aspetti la cui acquisizione si può verificare con modalità di valutazione “a validità locale”, e questo non inficia né la possibilità di fare prove standardizzate, né quella di mettere a punto prove più direttamente collegate ai curricoli realizzati. Sono convinta che a scuola si imparino cose diverse che richiedono modalità di verifica diverse, e di questo i docenti sono ben consapevoli.
Per quanto riguarda il timore del controllo, credo di non aver mai partecipato a un incontro, nei contesti più diversi (accademici, scolastici, istituzionali…), senza ribadire l’assoluta estraneità delle prove alla funzione di controllo. A meno che per “controllo” non si voglia intendere la facoltà offerta agli stessi docenti di verificare quanto i loro studenti siano in grado, come direbbe Pellerey, di “orchestrare” le proprie conoscenze in un contesto cognitivamente impegnativo come quello proposto nelle nostre prove.
Ha fatto molto discutere il collegamento tra prove INVALSI ed esami di Stato, sia nel primo ciclo (già attuato nell’a.s. 2017-18) sia nel secondo ciclo (in previsione). Benché le prove non facciano parte integrante della valutazione d’esame e vengano svolte alcuni mesi prima, la semplice partecipazione è considerata condizione “sine qua non” per l’ammissione all’esame. Inoltre i risultati delle prove vengono inseriti all’interno di una certificazione “formale” rilasciata ad ogni singolo alunno. Si è spesso parlato del valore di sistema delle prove, come indice di buon andamento di una scuola o di una classe e non di un singolo allievo. È ancora questa la prospettiva?
La separazione tra gli esami di Stato nella terza secondaria di primo grado e le prove INVALSI è stata una richiesta molto caldeggiata dai docenti, e assolutamente condivisibile. Sono prove diverse – esami di Stato e prove INVALSI – ed è opportuno che siano separate, anche per non sovraccaricare l’esame nel suo complesso.
Il fatto che l’INVALSI restituisca i risultati con una certificazione è la conseguenza naturale di un esame. Il valore di sistema delle prove si pone su un piano diverso, perché ha una funzione informativa da cui si rilevano gli ambiti di intervento per attività compensative. In tale prospettiva le scuole meridionali, ad esempio, nella scorsa programmazione europea, hanno ricevuto cospicui finanziamenti che hanno dato la possibilità di fare le prove al computer (computer based test – CBT) senza scontare alcun divario tecnologico tra Nord e Sud: non è un elemento da poco nel nostro Paese, e di questo dovremmo prendere tutti atto con soddisfazione.
Complessivamente direi che nel nostro Paese è emersa da anni l’imprescindibile necessità di disporre di attendibili dati non solo sul sistema scolastico nel suo insieme, ma anche sulla singola scuola e sul singolo studente, a garanzia del raggiungimento di alcune fondamentali competenze di cittadinanza. E come presidente dell’Invalsi, ma anche come cittadino, credo sia importante che il nostro istituto si faccia carico di rispondere a tutte e tre queste importanti richieste.
Torniamo al valore di “sistema” delle prove. Oggi ogni scuola è impegnata in processi di autovalutazione, di miglioramento e di rendicontazione pubblica dei risultati, all’interno dei quali il “peso” delle prove INVALSI è notevole. Quasi tutte le scuole inseriscono il miglioramento dei risultati INVALSI tra gli obiettivi del proprio miglioramento. Non è eccessivo? Come promuovere la conoscenza e l’intervento sui molti fattori che possono determinare o condizionare il successo scolastico? E le scuole che operano in contesti difficili e con allievi “fragili” non rischiano di rimanere intrappolate in questo “specchio” della loro condizione di partenza?
L’autovalutazione delle scuole rappresenta una delle novità importanti delle attività dell’INVALSI: puntare sulla riflessività dei docenti, sulla loro capacità di considerare il proprio operato in modo da evidenziare i punti di forza e i punti di debolezza, e individuare gli obiettivi per indurre i miglioramenti. Si evidenzia così un’idea di valutazione che vede un protagonismo da parte del “valutato”, e si investe proprio sul suo empowerment, vale a dire sul suo potenziamento, per poter davvero realizzare i processi necessari per cambiare positivamente. Che le prove INVALSI siano spesso (ma non sempre) alla base degli obiettivi che la scuola si auto-assegna vuol dire soltanto che si prende in carico un compito fondamentale della scuola. Più che parlare di “specchio” sgradito per gli studenti fragili, direi che da adulti dobbiamo prendere atto di non garantire l’acquisizione di un diritto, quello della comprensione di un testo ad esempio, da parte di una popolazione studentesca che molte volte non ha altro modo per acquisirlo. È una responsabilità di cui dovremmo farci carico, e riconoscere quando non si è riusciti a raggiungere quest’obiettivo senza rinunciare a vedere i dati di realtà per quello che sono.
In effetti, gli studi sul valore aggiunto sembrano considerare e valorizzare l’impegno delle scuole (anche di quelle più disagiate) nel promuovere una buona formazione dei loro ragazzi. Ma quanto vale questa misura? È utilizzata a livello istituzionale e da parte delle singole scuole? Come si sta muovendo l’INVALSI su questo tema?
Il valore aggiunto, che noi preferiamo chiamare “effetto scuola”, è uno degli elementi più recentemente messi a punto dall’INVALSI, e la sua restituzione alle scuole serve proprio a mettere in luce l’impegno dei docenti, anche quando i loro studenti non raggiungono i risultati attesi. Nelle scuole con un alto valore aggiunto potremmo dire che i docenti fanno tutto quello che è ragionevole attendersi da loro. Ciò mette in luce la necessità che la comunità di riferimento della scuola – Enti Locali, Associazioni, Cooperative, mondo produttivo, famiglie – riconoscano il bisogno di collaborare in modo da aiutare la scuola, e in definitiva ciascun alunno, a perseguire e a raggiungere i propri obiettivi. Non sembri questa un’utopia, perché è quello che succede a Trento e a Torino, ad esempio, dove Cooperative e Fondazioni sostengono con attività varie le scuole in difficoltà.
Il valore aggiunto quindi serve proprio a informare meglio le scuole e, come si vede, ancora una volta non c’è alcuna funzione censoria nell’offrire questo tipo di dati alle scuole e all’Amministrazione Centrale.
Dopo dieci anni di prove INVALSI di lingua italiana e di matematica, per la prima volta – lo scorso anno – sono state introdotte prove di inglese, a partire dal primo ciclo. Perché questa scelta? E cosa ci dicono le prove in termini di preparazione degli allievi, anche in un confronto internazionale? Tecnicamente come sono state predisposte queste prove? Cosa accadrà per il secondo ciclo?
Poiché lo scopo principale delle prove INVALSI è quello di fornire informazioni solide e comparabili su alcuni ambiti fondamentali, certamente oggi non potevano mancare le competenze di base della lingua inglese. È sempre più importante che i nostri studenti acquisiscano a scuola buone competenze in inglese, rafforzando l’idea che la scuola è un luogo fondamentale per il suo apprendimento. Non è infatti un caso che le Indicazioni nazionali e le Linee Guida di tutti gli ordini di scuola richiedano esplicitamente il conseguimento di una buona conoscenza della lingua inglese, fissandone anche il livello secondo gli standard definiti dal Quadro Comune Europeo di Riferimento (QCER) e utilizzati in tutto il mondo: A1 per la primaria, A2 per la secondaria di primo grado, B2 per la secondaria di secondo grado. Ciò vuol dire che la finalizzazione delle prove d’inglese è quella di misurare gli aspetti comunicativi della lingua, per ora limitandosi alla comprensione della lettura e dell’ascolto.
Fino a qualche mese fa le nostre conoscenze sulla qualità dell’apprendimento dell’inglese nelle nostre scuole erano praticamente nulle. Non vi erano dati attendibili, se non le singole esperienze vissute da ciascuno di noi. Da quest’anno, grazie alle prime prove Invalsi svolte dagli alunni di quinta primaria e terza media, disponiamo di dati estremamente precisi.
Il quadro che ne emerge è piuttosto articolato. A fronte di esiti per lo più soddisfacenti della scuola primaria, più nella comprensione della lettura che in quella dell’ascolto, le differenze sul territorio nazionale divengono molto più evidenti al termine della terza secondaria di primo grado. In alcune regioni ben oltre il 50% degli allievi non raggiunge i traguardi previsti (livello A2) in entrambe le competenze oggetto di rilevazione, collocando il Paese in una posizione di svantaggio rispetto a molti altri paesi europei non anglofoni. La certificazione che abbiamo dato ad ogni alunno della scuola secondaria di primo grado costituisce poi di per sé un servizio offerto a tutte le famiglie, con una particolare attenzione verso quelle che non potrebbero permettersi di pagare un ente certificatore privato.
Infine, ma non da ultimo, alcune parole sulla costruzione delle prove. Esse sono predisposte, anche in collaborazione con altri paesi europei, secondo i rigorosi standard definiti dal Consiglio d’Europa, che sono ormai un punto di riferimento imprescindibile a livello internazionale, non solo europeo.
Quanto realizzato per il primo ciclo d’istruzione ha orientato anche la costruzione delle prove per l’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado. Nel marzo 2019 gli studenti sosterranno prove di ascolto e lettura per l’accertamento dei livelli B1 e B2 del QCER, coerentemente con quanto previsto dall’ordinamento vigente.
A volte i docenti non sono soddisfatti del contenuto delle prove. Molti le ritengono troppo lontane dai contesti reali delle classi o dei ragazzi. Ma, in concreto, chi prepara queste prove? Come vengono scelte nella loro versione finale? Cosa si può fare per migliorarne le caratteristiche? In sintesi, quand’è che si può dire che siamo di fronte ad una “buona” prova?
Le prove sono costruite principalmente da docenti di scuola con una lunga esperienza didattica, sulla base dei Quadri di riferimento (QdR) INVALSI per la valutazione. I QdR rappresentano uno strumento fondamentale, poiché definiscono quali traguardi tra quelli contenuti nelle Indicazioni nazionali/Linee guida sono accertabili mediante delle prove standardizzate. In questo modo è possibile sapere cosa le prove INVALSI possono dire, e soprattutto cosa non possono dire, comunque sempre ed esclusivamente all’interno degli obiettivi previsti nelle Indicazioni nazionali/Linee guida.
Il processo di costruzione di una prova standardizzata deve seguire un rigoroso percorso scientifico, che parte dalla valutazione qualitativa di ciascun quesito con la verifica sul campo della sua validità mediante un doppio pre-test su un ampio campione di studenti. Solo dopo questo percorso, che non dura mai meno di 18 mesi, una domanda può essere ritenuta adeguata per confluire in una prova INVALSI. Pertanto la ricerca del miglioramento delle domande è insita nel processo stesso di costruzione, poiché le informazioni acquisite in ogni fase hanno un effetto di retroazione sul processo stesso di costruzione dei quesiti.
L’INVALSI sta gradualmente ampliando il raggio della sua azione: al di là della somministrazione annuale delle prove, c’è un impegno importante sul fronte dell’autovalutazione (questionari, dati, benchmark, ecc.) e della valutazione esterna delle scuole (protocolli, scelta e preparazione dei valutatori, rilascio di report, ecc.). Che giudizio dà di quest’attività promossa negli ultimi anni? La pubblicazione dei dati può incentivare atteggiamenti opportunistici nelle scuole o il rischio di una competizione “al ribasso” tra scuole? Cosa si dovrebbe fare per aiutare le scuole a migliorarsi, ad esempio per colmare il persistente divario tra regioni del Nord e del Sud?
Come ho già detto, l’autovalutazione delle scuole rappresenta una novità per l’implicita nozione di valutazione a cui fa riferimento, che prevede un ruolo attivo e la partecipazione consapevole dei docenti. All’autovalutazione si affianca la valutazione esterna delle scuole, svolta sul campo dai nostri nuclei esterni di valutazione (NEV). Anche in questo caso occorre sottolineare che i nuclei non vanno nelle scuole per assegnare loro un giudizio dall’alto, ma per esaminare le priorità di miglioramento che la scuola ha individuato, e proporre eventuali aggiustamenti.
Ci sono state polemiche in seguito alla pubblicazione dei dati presenti nel RAV, alcuni dei quali si sono prestati ad attacchi talora davvero duri. In realtà questi effetti erano stati previsti e discussi in un apposito seminario organizzato in collaborazione con il Ministero all’inizio del 2016 proprio sulla pubblicità dei dati; ma al tempo della pubblicazione dei RAV su Scuola in chiaro l’entusiasmo per la trasparenza e per la maggiore pubblicità possibile ha orientato verso la pubblicazione totale di tutti i dati, salvo esplicita diversa volontà del dirigente scolastico.
In Finlandia, paese sempre citato a proposito dei buoni risultati del suo sistema scolastico, i dati delle scuole non sono pubblici, e sono noti solo alle autorità che prevedono apposite misure compensative.
La pubblicità, in altre parole, può indurre anche comportamenti opportunistici, che non garantiscono una migliore scelta da parte delle famiglie e squilibrano il sistema.
Per avviare il miglioramento le scuole possono giovare di esperti dell’INDIRE, delle università e/o di associazioni professionali, ancora una volta assumendosi la responsabilità di scegliere gli interlocutori per avviare tale processo. Rientra in questa prospettiva anche l’obiettivo di ridurre il divario tra gli esiti delle scuole del Nord e del Sud.
L’ultima arrivata in casa INVALSI è la valutazione dei dirigenti scolastici. All’istituto spetta il compito di definire i protocolli di valutazione e di formare i valutatori. Cosa ci può dire dell’avvio di questa esperienza? Esiste il rischio di stimolare un atteggiamento formale e difensivo dei dirigenti e dei valutatori, se la valutazione si basa fortemente sull’analisi delle “carte” piuttosto che su visite dirette alle scuole? E come coniugare la valutazione collegata ad un incentivo economico con la finalità del “miglioramento” dell’azione dirigenziale?
L’avvio della valutazione dei dirigenti scolastici, malgrado le note turbolenze sindacali e le incertezze politiche che l’hanno accompagnato, è stato realizzato formando i team di valutazione all’analisi del portfolio dei dirigenti, al riconoscimento delle specifiche azioni professionali, all’individuazione delle aree di miglioramento, con l’indicazione finale di un feedback professionale.
Per garantire l’equità su tutto il territorio nazionale è stata formata una task force di esperti accademici e di formatori senior – dirigenti tecnici particolarmente competenti – che, dopo aver predisposto un modulo formativo intensivo di tre giorni, hanno realizzato (finora) 23 seminari (19 di base e 4 avanzati) in otto città poste in zone diverse del nostro Paese (Milano, Padova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Catania,) coinvolgendo circa 1.150 componenti dei Nuclei.
Obiettivo principale dei seminari è stato quello di uniformare le modalità di valutazione dei dirigenti scolastici su tutto il territorio nazionale, avendo un quadro di riferimento comune basato sulla necessità di “dare voce” al dirigente da valutare, indicando come imprescindibile l’interlocuzione, in presenza o su Skype, in modo da dargli/darle la possibilità di comunicare direttamente con coloro che istruiscono la sua valutazione e propongono una valutazione di prima istanza.
Si è trattato di un’operazione formativa non semplice e non scontata, perché è più frequente considerare la funzione di “controllo dell’operato” del dirigente scolastico rispetto a quella di dialogo professionale. Ogni nucleo ha dedicato il tempo a raccogliere dati documentali sulle diverse azioni svolte dal dirigente scolastico, avendo di mira la possibilità di comprendere a pieno la condizione in cui opera, i limiti e i vantaggi che il contesto offre, e di pervenire così a indicazioni per il miglioramento della sua competenza professionale, che siano riconosciute come sensate e fruibili dal destinatario.
Un aspetto, infine, non secondario di questo processo di istruttoria della valutazione, che si conclude con un provvedimento del Direttore regionale, è la presa d’atto da parte di quest’ultimo delle aree bisognose di ulteriore formazione per i dirigenti scolastici. In questo ambito si sono rivelati preziosi i feedback professionali suggeriti dai Nuclei. L’insieme dei feedback professionali costituisce un insostituibile patrimonio informativo per il Direttore regionale, che proprio mediante la valutazione dei dirigenti scolastici della sua regione può riconoscere su quali temi sono necessari ulteriori interventi formativi. In tal modo la valutazione riveste in pieno quella funzione informativa ineludibile per poter avviare i processi di miglioramento, che ne caratterizzano il valore fondamentale. Insomma, ancora una volta, una buona valutazione dovrebbe innescare un ciclo che permette di non accontentarsi dello stato di fatto, e di operare miglioramenti mirati.
Quanto al modo in cui i dirigenti scolastici hanno preso la loro valutazione, scontati i conflitti sindacali, abbiamo dati che ci restituiscono aspetti interessanti. Tutto il processo è stato accompagnato infatti da questionari proposti all’inizio, durante e alla fine della valutazione, onde poter disporre di dati per “valutare la stessa valutazione”. Sappiamo così che i dirigenti hanno apprezzato il rapporto con i team di valutazione, per i quali esprimono un notevole grado di apprezzamento, mentre nutrono maggiori perplessità sull’andamento dell’intero processo e sulla sua utilità. Considerati i continui stop and go, dovuti all’avvicendarsi di diverse fasi politiche, non sorprende questo esito, ma va evidenziato che la norma di avvio della valutazione, la direttiva dell’agosto del 2016, e gli stessi strumenti che stiamo utilizzando e migliorando di anno in anno, dovrebbero scoraggiare sia gli atteggiamenti “adempitivi” che la banalizzazione di questo importante processo. La fase attuale, in cui si dovrà assumere la decisione politica di erogare la retribuzione in base all’esito della valutazione o procrastinare ancora l’attuale assetto senza ricaduta economica, contribuirà alla percezione dell’intero processo da parte dei dirigenti scolastici.