Un servizio per le famiglie o un diritto per i bambini?
La scuola dell’infanzia ha gradualmente acquisito credibilità come primo segmento educativo anche nelle regioni meridionali, tanto da essere fortemente richiesta come servizio per i bambini dai tre ai sei anni. I genitori tuttavia ne fanno un uso molto personale: tendono a interferire nella gestione e a condizionare fortemente l’impronta organizzativa. Il permanere della dizione scuola materna (in molti casi “asilo”) nella vulgata è espressione di un cordone ombelicale non ancora reciso e che si vuole mantenere ben saldo. La non obbligatorietà del servizio, per quanto copra la quasi totalità dei potenziali destinatari, alimenta la presunzione della detenzione delle redini da parte di chi ha la responsabilità primaria dei bambini. L’espressione spicciola molto comune “la scuola materna esiste fino a quando io genitore decido di portare mio figlio” la dice lunga sull’impronta della scuola come servizio per le famiglie, non come servizio per gli alunni. Come tale è funzionale alle esigenze dei genitori e al ventaglio dei profili professionali, sociali, antropologici, culturali di riferimento.
Il precocismo dietro l’angolo
Lungo è stato il cammino che ha permesso di delineare la specificità dell’identità del segmento 3-6, che ha connotazioni pedagogiche specifiche che necessitano di adeguati approcci relazionali e metodologici. Non è ancora semplice trasmettere l’essenza di un percorso valido in sé, oltre che propedeutico al successivo step obbligatorio, e di fatto l’attenzione delle famiglie si desta verso il compimento dei 5 anni, quando inizia la smania dei quaderni a righe e a quadretti, quando si intravede come più prossima la capacità di saper leggere, scrivere e far di conto, e ci si preoccupa della necessità di far acquisire quella strumentalità di base che è percepita come rassicurante prioritariamente per gli stessi genitori.
Forse anche per questa impropria funzione di “pre-scuola” è stato abbondantemente raggiunto il traguardo della generalizzata diffusione della scuola dell’infanzia per i bambini dai tre ai sei anni, con percentuali che superano il 95% anche per i più piccoli, ma il divario tra nord e sud nella conduzione del servizio è notevole, perché diverso è il bisogno cui si fornisce risposta.
Sorvoliamo sugli errori del precocismo sia disciplinare-cognitivo che del giudizio-valutativo, che sviliscono l’atmosfera emozionale della dimensione ludica e del piacere dell’apprendimento per scoperta, per porre l’accento sull’attivismo dei genitori nel corso dell’anno che precede l’ingresso alla scuola primaria.
La scuola dell’attenzione e dell’intenzione
Non sempre e neppure tra gli addetti ai lavori è chiara la finalità della scuola dell’infanzia, ove non si tratta di organizzare e “insegnare” precocemente contenuti di conoscenza o linguaggi/abilità, perché i campi di esperienza vanno piuttosto visti come contesti culturali e pratici che “amplificano” l’esperienza dei bambini grazie al loro incontro con immagini, parole, sottolineature e “rilanci” promossi dall’intervento dell’insegnante [1].
Probabilmente è proprio la mancanza di consapevolezza piena del valore inestimabile della scuola “dell’attenzione e dell’intenzione” a determinare tendenzialmente una relazione “ad elastico” tra scuola dell’infanzia e famiglia, che non è favorevole alla costruzione di un’efficace alleanza educativa.
Non sono rari i casi di percorsi virtuosi e di progetti educativi credibili attivi in tante scuole del Meridione, in cui nonostante la carenza di strutture edilizie a misura di bambino prevale la dinamicità di ambienti esperienziali di apprendimento, che rendono attrattiva e affascinante la permanenza dei piccoli in luoghi diversi dalle mura domestiche. Ciò accade nelle scuole in cui insegnanti e dirigente scolastico sono in grado di costruire un progetto educativo a misura di contesto con la co- partecipazione dei genitori, ma soprattutto sono in grado di delineare scelte e valori essenziali condivisi, mediati da comunicazione/informazione ragionata.
Una giornata educativa ricca di significati
Dalla presentazione di scelte educative ragionate accompagnate dalla disponibilità all’ascolto e al confronto, alla prospettiva di una scuola che prende in carico in modo complementare e specialistico i bambini, per offrire loro quelle opportunità di crescita consapevole che solo la scuola può dare, il passaggio è breve e naturale: sono gli stessi genitori e prendere consapevolezza dei limiti che ogni contesto familiare presenta, perché mancante della competenza specifica che rimane prerogativa dei professionisti della scuola. Sono gli stessi genitori a sostenere l’importanza del lavoro a quattro mani, e quindi della compresenza di due docenti in fase di avvio e accoglienza, per poi tradursi in supporto organizzativo e staffetta nella fase di condivisione del pranzo, quando il tempo scuola si protrae nelle ore pomeridiane. Sono gli stessi genitori a capire l’importanza di un tempo più lungo, comprensivo del momento del pasto inteso non solo come occasione per acquisire un modello alimentare corretto, ma anche come piacevole opportunità di condivisione e di crescita collettiva. Genitori protagonisti e testimoni di processi educativi positivi.
Il valore aggiunto del doppio organico
Il risultato indiretto di un servizio educativo per l’infanzia credibile è percepibile non soltanto in seno alla stessa comunità scolastica, ma in termini di impatto sociale: si rafforza il legame scuola-famiglia, si stemperano le diffidenze mediatiche che alimentano il bisogno di dispositivi di controllo e lasciano il posto ad una maggiore responsabilizzazione dei ruoli; e se guardiamo ai posti di lavoro che raddoppiano, la presenza di due docenti per sezione non soltanto rafforza la garanzia della piena vigilanza, ma diventa anche un correttivo alla precarietà di impiego e alla decrescita sociale, spesso causa di decremento demografico anche nelle regioni del sud, dove paradossalmente ci sono più bambini ma meno opportunità di lavoro per le donne.
Non basta dire “tempo pieno”
È chiaro che non basta annunciare l’obbligo del tempo pieno a scuola (che nella scuola della infanzia corrisponde al tempo normale 8.00 – 16.00), come rimedio ai tagli occupazionali, per cambiare la mentalità dei destinatari e rendere operativo il servizio. Occorre creare le condizioni perché il tempo-normale (“pieno”) sia percepito come la risposta ad un bisogno, oltre che come un’opportunità per gli stessi bambini.
Questo significa garantire la qualità dei servizi offerti alle famiglie in un quadro di integrazione tra politiche pubbliche e private del settore, ma soprattutto diffondere una cultura educativa di qualità presso le famiglie e le istituzioni locali, attraverso adeguate strategie di comunicazione e attraverso la costruzione e la rappresentazione di una policy unitaria sulle politiche sostenibili per l’offerta di contesti educativi di qualità.
La scuola dell’infanzia come investimento culturale
Nella consapevolezza che i servizi all’infanzia rappresentino una delle politiche cruciali per lo sviluppo del capitale umano, e più in generale per la crescita di un paese, è necessario promuovere un confronto sui temi della qualità dei servizi, della loro accessibilità, dell’orientamento alle famiglie, dell’inclusione come leva dello sviluppo sociale ed economico. È altrettanto necessario, se non primordiale, mettere in campo scelte politiche coraggiose che guardino alla scuola con l’interesse di investimenti fondamentali per la ripresa civile e sociale, per invertire la rotta della depressione sociale e dell’impoverimento relazionale.
Pare tristemente ancora diffusa l’idea culturale che le politiche educative siano un lusso in momenti di ristrettezze, mentre dalla lettura incrociata di dati e ricerche emerge che l’investimento in servizi per l’educazione e l’istruzione collettiva rappresenta un fattore di successo per lo sviluppo della persona, della sua famiglia e della comunità, a supporto della importanza della dimensione educativa e dello sviluppo cognitivo relazionale nei primi anni di vita del bambino.
La prima palestra della cittadinanza attiva
La sfida si gioca sia a livello di macro-politica, in termini di investimenti strutturali a lungo termine, che a livello di singola istituzione scolastica, con un progetto-scuola che sia concreta espressione del contesto di riferimento e dia risposte a bisogni primari. Significa superare la logica dell’apparire commerciale, per riappropriarsi dell’espressione vera dell’autonomia scolastica: la scuola che supera l’autoreferenzialità enfatizzata da PTOF-progettificio, per porre attenzione al motore che tutto muove: core-curriculum, a partire dai più piccoli. Se è vero, come è vero, che i temi dei diritti e dei doveri, del funzionamento della vita sociale, della cittadinanza e delle istituzioni trovano una prima “palestra” per essere guardati e affrontati concretamente nelle sezioni della scuola dell’infanzia, che si pone come spazio di incontro e di dialogo, di approfondimento culturale e di reciproca formazione tra genitori e insegnanti (Indicazioni nazionali e nuovi scenari), è necessario allora partire dai più piccoli.
Un giusto equilibrio all’interno del sistema integrato zero-sei
Occorre incoraggiare il cammino della scuola dell’infanzia, che nei suoi primi cinquant’anni ha dato dimostrazione di piena maturità, e dipanare quei dubbi che rischiano di indirizzare al ribasso la qualità del servizio, per spingerla invece verso il grande salto: la realizzazione piena del sistema integrato zero-sei. Non si tratta di alimentare la contrapposizione tra i fautori di un servizio a sé stante, sganciato dalla scuola dell’obbligo e come tale da estromettere completamente dal sistema di istruzione e dalla scuola pubblica, e i sostenitori di un servizio complementare e aggiuntivo a carico delle istituzioni scolastiche. Parlare di sistema integrato zero-sei non significa scorporare la scuola dell’infanzia (3-6) dal consolidato percorso di istruzione che si sostanzia nella realizzazione del curricolo verticale delineato dalla Indicazioni nazionali, per ipotizzare un nuovo contenitore appannaggio esclusivamente del privato.
Le diverse professionalità in gioco
La mancata definizione dei profili professionali, e soprattutto il mancato riconoscimento istituzionale di chi ha costruito sul campo un’esperienza nella miriade di azioni educative destinate alla primissima infanzia, hanno generato diffidenza e confusione, proprio mentre si profila e si auspica un’istituzionalizzazione dei servizi, con l’attuazione piena del d.lgs. 65/2017.
È una questione mal posta, che genera conflitto tra insegnati di scuola dell’infanzia da un lato ed educatrici dall’altra, che non ha motivo di esistere per la specificità dell’azione educativa nelle due fasi di crescita (0-3 e 3-6), che richiede profili professionali differenti che hanno invece necessità di dialogo e raccordo.
Si tratta piuttosto di trovare il giusto equilibrio tra due segmenti 0-3 e 3-6, che hanno identità diverse e necessitano della complementarietà non solo di professionalità, ma anche di risorse diverse, tenendo conto della specificità dei contesti.
Le risorse pubbliche per il sud
Nelle regioni meridionali, dove la forza economica del privato è debole e anche la richiesta di servizio privato è minima, perché sono carenti le possibilità di sostenere le spese, il servizio pubblico costituisce il principale punto di riferimento educativo, supportato in parte dal paritario.
Una politica scolastica e di investimenti nel settore educativo, come volano sociale, non può non tener conto delle specificità territoriali, se si ha davvero a cuore il superamento del divario.
Nelle regioni del sud, dove alti sono i tassi di disoccupazione per lo più femminile, e dove i servizi pubblici per la primissima infanzia sono assenti, non ha senso parlare di rimborso alle famiglie per spese sostenute in strutture private o paritarie; di certo non ha senso far pendere la bilancia della distribuzione dei sussidi dalla parte dei genitori che si avvalgono del servizio privato (ad esempio, le linee guida assessoriali della regione Sicilia, di attuazione del d.lgs. 65/2017, stabiliscono un rapporto 70/30 tra privato e pubblico, salvo poi ricevere domande pari a zero come rimborso alle famiglie dalla maggior parte dei comuni, ove le strutture private sono assenti o non confacenti ai parametri ministeriali): i bambini da zero a tre anni non sono presenti nelle strutture private perché costose e inadeguate, né censiti da strutture pubbliche perché inesistenti, salvo rare eccezioni che sono lo specchio di un bisogno emergente da attenzionare.
Fare perno sulla rete delle scuole dell’infanzia pubbliche
Perché dunque non partire dalle “isole felici” come prioritari interventi da finanziare, disseminare ed esportare?
Risulterebbe infatti più efficace la scelta di destinare finanziamenti e sussidi diretti in conto esercizio alle scuole dell’infanzia, per favorire, potenziare e migliorare i servizi esistenti, per rinnovare gli ambienti e creare spazi ludici complementari, per dotarsi di professionalità aggiuntive specialistiche, ma anche per favorire l’anticipo.
Incoraggiare l’anticipo della frequenza della scuola dell’infanzia con sostegno alle sezioni primavera, ad esempio, all’interno degli stessi edifici scolastici, potrebbe invertire la rotta e innescare un circolo virtuoso di rilancio, oltre che creare un ponte naturale di raccordo tra un servizio ancora da strutturare e definire (0-3) e una realtà consolidata (3-6), che può solo trarre giovamento dall’esperienza di chi ha lavorato per favorirne l’accesso.
Priorità per le sezioni primavera
Le sezioni primavera sono una cartina al tornasole per comprendere che i servizi di qualità incontrano il favore delle famiglie e superano le resistenze culturali. In particolare le sezioni inserite all’interno del servizio pubblico permettono ai bambini di approcciarsi al sociale, e alle famiglie di guardare ai diritti dei bambini e al bisogno di scoperta e di conoscenza del mondo che li circonda.
Attivare sezioni primavera in ogni plesso di scuola dell’infanzia permetterebbe di ridefinire un profilo educativo di prima infanzia in carico a figure professionali specialistiche (educatrici e assistenti), che negli anni hanno maturato sul campo la specificità di un ruolo che attende giusto riconoscimento, e che sarebbe funzionale allo sviluppo occupazionale.
Estendere le sezioni primavera, incoraggiandone la concreta diffusione capillare, e definire il profilo professionale degli operatori (educatori, assistenti), anche attraverso concorsi riservati per la definizione di graduatorie specifiche, funzionali ad un reclutamento lineare stabile, potrà servire a porre le fondamenta solide di un percorso integrato 0-6 che, se ben strutturato, potrà dare linfa alla ricrescita economica del nostro Paese e ossigeno alle famiglie, in essere e in embrione, in un contesto socio-politico che ha destinato poco o nulla al welfare. Non basta aggiungere qualcosa in busta paga per favorire la crescita demografica: occorre creare servizi funzionali alla sostenibilità delle famiglie a lungo termine.
Valorizzare le professionalità degli educatori
L’auspicio è che i tavoli tecnici di concertazione, che si attiveranno a livello regionale, facciano tesoro delle esperienze consolidate; che si dia ampio spazio ed ascolto a chi negli anni ha costruito una professionalità sul campo, patrimonio prezioso di disseminazione; che si costituiscano organici specifici da far confluire in una regolamentazione normativa che dia dignità retributiva agli operatori; che trovi legittimazione il servizio delle sezioni primavera inserite all’interno delle istituzioni scolastiche statali, anche attraverso il riconoscimento della complessità organizzativa e gestionale; che gli Enti locali sappiano cogliere l’occasione delle preziose risorse stanziate in attuazione del decreto zero-sei, per promuovere, di concerto con le esperienze educative radicate, una progettualità condivisa funzionale alla realizzazione dei poli educativi.
Soluzioni originali e creative per lo zero-sei
Siamo ancora all’inizio, ma c’è già un patrimonio di esperienze che non va disperso.
La concertazione richiede pluralità di interventi professionali e il contributo di chi negli anni ha avuto modo di delineare sul campo le esigenze educative e formative dei più piccoli, per armonizzare ulteriormente il percorso. Sarebbe riduttivo, se non deleterio, immaginare il percorso zero-sei come “l’allargamento ad elastico” del percorso ormai consolidato 3-6. Ed anche l’idea di un “mattoncino” che faccia da sgabello alla scuola dell’infanzia riduce la valenza di un percorso che ha al suo interno tante variabili quanti sono gli anni e i mesi compresi tra lo zero e il tre, e che necessita di interlocutori e figure professionali differenti.
Investimenti strutturali e non estemporanei
Destinare parte consistente dei fondi previsti per la realizzazione del sistema integrato a sostegno di servizi da attivare all’interno di realtà consolidate, assegnando intanto le somme già stanziate per il triennio 2017-2019 in attesa di impegni sistematici, per renderle funzionali al reclutamento di professionisti e alla messa in opera di ambienti di apprendimento creativi in locali idonei, permetterebbe di estendere il servizio in modo sistemico e strutturale, a supporto della stessa scuola dell’infanzia, che avrebbe al suo interno un bacino naturale propedeutico da osservare.
Un’assegnazione di contributi mirati, dunque, per attivare e potenziare servizi duraturi, per creare indotto, per sollecitare interventi edilizi e architettonici, piuttosto che un voucher estemporaneo, per porre argine alla deriva del “sussidio” funzionale all’oggi commerciale e al consenso del momento, per porre attenzione a investimenti professionali duraturi e significativi da monitorare, che siano in grado di rilanciare anche occupazione oltre che la qualità dei servizi.
Uso razionale e ragionevole dei fondi pubblici
In un momento di forte crisi occupazionale e assenza di politiche per le famiglie, ancor più forte nelle regioni del Meridione, dove limitati e già datati sono stati gli investimenti per i servizi scolastici, appare del tutto fuori luogo dirottare risorse pubbliche verso compensi ad personam che non modificano lo status quo.
La maggior parte dei comuni infatti si trova in difficoltà di rendicontazione, con il rischio di una vanificazione, se non azzeramento, delle somme assegnate in attuazione del d.lgs. 65/2017, per assenza di richiedenti rimborso e/o di strutture private a norma. Le stesse somme potrebbero invece essere facilmente impiegate sollecitando e supportando le scuole pubbliche ad accogliere bambini dai 24 ai 36 mesi, quanto meno nelle strutture in cui è possibile ricavare spazi idonei, in attesa di una regolamentazione strutturata e strutturale del sistema integrato zero-sei.
Una distribuzione più equa e razionale, demandata alla specificità delle realtà locali e alla propositività concreta, renderebbe merito a chi ha a cuore il mondo dell’infanzia ed è ben disposto a profondere energie per la definizione di un percorso strutturale sostenibile a valenza sociale.
Il ruolo del privato sociale
In questa fase di incertezza e assestamento un ruolo sussidiario è svolto dal volontariato sociale e/o da enti definiti no-profit, sostenuti da fondazioni di origine bancaria, che hanno messo in campo azioni progettuali corpose con cospicui finanziamenti. Si tratta certamente di belle realtà, nate per contrastare la povertà minorile, anch’esse preziose, soprattutto quando la rete che sta a monte dell’ideazione è tessuta in un’ottica di complementarietà con la scuola pubblica, a garanzia della sostenibilità a lungo termine di azioni che spesso, invece, rischiano di essere dispendiose, destinate a pochi e per breve tempo.
Oltre gli stereotipi contro il sud
Se è vero che i servizi per l’infanzia costituiscono una condizione ottimale per contrastare le diseguaglianze sociali, e che la frequenza precoce può addirittura ridurre il gap tra bambini di livello socio-economico basso e medio, diventa necessario porre dei correttivi alla distribuzione delle risorse, affinché i servizi per l’infanzia siano reale occasione di coesione sociale a lungo termine. Occorre ridurre il divario tra le regioni del nord, che poggiano su un sostrato economico più favorevole ma anche più esigente, e le regioni del sud, lontane da standard educativi specifici per la primissima infanzia, ma che nulla hanno da invidiare in termini di propositività e professionalità avvezze a fare di necessità virtù.
[1] Indicazioni nazionali e nuovi scenari, documento a cura del Comitato Scientifico Nazionale per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione.