Come si lavora a scuola sulla lettura?[1]
Di che colore è il cappuccio di Cappuccetto Rosso?
Rosso.
Bravo, ti metto 10 in comprensione del testo!
Così, provocatoriamente, segnalavo agli insegnanti di lettere la inadeguatezza delle loro attività didattiche relative alle abilità di lettura e di comprensione del testo.
Quando tanti anni fa (eravamo nel 2003) cominciarono ad esser diffusi i risultati delle prime indagini di OCSE Pisa, nel corso delle mie esperienze di formatrice sottolineavo frequentemente la gravità dei problemi che emergevano e le responsabilità della scuola. La risposta più frequente degli insegnanti di lettere alle mie segnalazioni era che i risultati OCSE erano falsi, e certamente erano falsi “perché –sostenevano – noi lavoriamo tanto sulla lettura!”. Non c’era verso di farli riflettere sulla inconsistenza della loro argomentazione, né sul fatto che “lavorare molto sulla lettura” non significa niente, perché si può lavorare moltissimo su una cosa ma lavorarci male e quindi non avere i risultati desiderati. Non c’era verso di farli riflettere sul fatto che la competenza di lettura richiesta da OCSE Pisa era tutt’altra cosa rispetto alla lettura praticata nella quotidianità scolastica, generalmente autoreferenziale e lontana anni-luce dai bisogni di partecipazione alla vita sociale; né di far comprendere la necessità, anch’essa segnalata dai documenti OCSE, di non fermarsi all’apprendimento della lettura (acquisizione e pratica di tecniche), ma di lavorare intensamente sulla lettura per l’apprendimento (pratica di comprensione e utilizzo di testi diversi per apprendimenti autonomi e per vari scopi).
La comprensione del testo…quale comprensione? Quali testi?
Non c’era verso di far comprendere che la tipologia dei testi generalmente proposti alla lettura nelle aule scolastiche e la tipologia delle attività generalmente richieste sui testi non promuovevano, negli studenti, i processi di interpretazione, valutazione, rielaborazione critica, richiesti dalla comunità internazionale. Né di far comprendere che l’avvento delle nuove tecnologie non era un nemico da combattere né un indicatore di modernità da abbracciare incondizionatamente, ma che lo si doveva comunque controllare, conoscendolo e utilizzandolo, non ignorandolo, o demonizzandolo, o enfatizzandolo.
Non c’era verso di far comprendere che gli studi di psicologia e di linguistica (anche se non tutte le Università ne erano portatrici!) fornivano informazioni e dati sempre più ricchi sui processi implicati nella lettura e sulla necessità di stimolarli intenzionalmente, in un mondo che forniva materiali sempre più complessi da leggere, decodificare, interpretare, demistificare.
…distinguere un fatto da un’opinione
Leggo sui quotidiani molti commenti sui dati forniti da OCSE sulle difficoltà dei nostri studenti nella comprensione in lettura. Concordo con chi ravvisa il rischio di interpretazioni frettolose e sommarie. Ma ho come la sgradevole sensazione che le reazioni degli insegnanti non siano troppo dissimili da quelle che ascoltavo 15 anni fa: i test (Ocse e Invalsi) non sono fatti bene, sono adatti ad altri Paesi e ad altre scuole, non sono in linea con i nostri programmi, le nuove tecnologie sono colpevoli e non ci possiamo fare niente, noi insegnanti lavoriamo tanto sulla lettura.
Capisco che gli insegnanti italiani sono così tanto bersagliati dall’opinione pubblica che assumono sempre e comunque una posizione difensiva per autotuelarsi. Ma questo non aiuta la definizione del problema e la sua possibile soluzione. Forse i miei capelli sono diventati troppo bianchi, ma non riesco a capire come distinguere un fatto da un’opinione o riconoscere l’attendibilità di una informazione possano essere abilità adatte ad un Paese e non ad un altro, ad una scuola e non ad un’altra. In fondo è quello che ci chiedono le Indicazioni nazionali: i test certamente possono essere inadeguati, ma a volte possono essere inadeguate anche le attività didattiche proposte dalle scuole.
Di che colore è il cappuccio di Cappuccetto rosso?
Non possiamo autoassolverci
Io non ho i dati su cui fondare un’analisi dei risultati OCSE, quindi ritengo possibile che quanto diffuso dalla stampa contenga margini di verità e margini di inaffidabilità.
Tutti ormai sappiamo che i livelli culturali dei quindicenni (e non solo dei quindicenni) sono legati agli stimoli culturali del contesto, alle condizioni socio-economiche delle famiglie, alle politiche territoriali, alla qualità del cosiddetto sistema formativo integrato, alla quantità e qualità del consumo delle nuove tecnologie, alla quantità e qualità delle pratiche e degli spazi di lettura extrascolastici.
Ma non andiamo da nessuna parte se ci trinceriamo dietro ai “ma noi lavoriamo tanto”, o “ma noi siamo nativi digitali”, o “colpa dei corsi di aggiornamento promossi dalla buona scuola!”. Renzi aveva i calzoncini corti quando l’OCSE ci dava risultati preoccupanti e ci diceva di stare attenti.
Qualche domanda alla scuola di base (ed ai genitori)
Comunque qualche domanda dovrebbe esser rivolta anche ai docenti della media e della elementare, perché le incompetenze (nella lettura come in altri campi) non nascono nella secondaria di II grado: lì si rinforzano, ma sono già nate altrove. Con quali abilità di lettura la elementare e la media licenziano i loro studenti? E perché? Elementare e media sono la “scuola di base”: quali basi costruiscono per la lettura che verrà?
E forse qualche domanda dovrebbe esser rivolta anche ai genitori, quelli che chattano giorno e notte per parlar male della scuola e per pretendere dagli insegnanti il voto alto e la metodologia che piace a loro: cosa pensano della incompetenza dei figli, questi genitori comprensivi e permissivi e laudativi, che all’insegnante tirano uno schiaffone e al figlio regalano lo smartphone di ultima generazione?
La spia di un malessere diffuso
E infine non farebbe male porre qualche domanda anche ai sistemi universitari e ai sistemi di reclutamento: con quale competenza giungono in cattedra i docenti di italiano? Quale padronanza della linguistica testuale, dei processi sottesi alle abilità linguistiche, della didattica da praticare per il loro sviluppo? Nei Paesi del Nord Europa fare l’insegnante è un lavoro prestigioso, ma richiede studio forte e continuo, competenze elevate, valutazione periodica. In Italia chi insegna che cosa, e valutato da chi, e sulla base di quali competenze?
I risultati OCSE sono spia di un malessere diffuso: oggi parliamo di lettura, domani forse di scienze, dopodomani dei nuovi esami, e poi forse di educazione civica. Ma gli sguardi molecolari non sono più sufficienti a capire l’insieme.
[1] Articolo apparso sul “Quotidiano di Lecce”.