BES qui sta per: Benessere Equo e Sostenibile
Non si tratta dell’acronimo scolastico che fa riferimento ai bisogni educativi speciali, ma del rapporto Istat, giunto alla 7ª edizione, che presenta informazioni e analisi sull’evoluzione degli indicatori di Benessere equo e sostenibile (BES).
Il Rapporto offre una lettura del benessere nelle sue diverse dimensioni, ponendo particolare attenzione agli aspetti territoriali. Gli indicatori del BES (in tutto 130) sono articolati in 12 domini e tra questi, di particolare interesse per questo intervento, il 2° dominio relativo a Istruzione e formazione[1].
Dal rapporto Istat emerge subito che le province autonome di Bolzano e Trento si confermano quelle con i livelli più alti di benessere, mentre i livelli più bassi si registrano in Calabria e in Sicilia.
E se le parole sono pietre, come diceva Levi, i numeri sono macigni dai quali affiora, ancora una volta, un’Italia a due velocità, con zone di benessere e sacche diffuse di “malessere” in varie parti del “bel paese là dove ’l sí suona”.
Il ruolo “protettivo” del titolo di studio
Il reddito familiare disponibile equivalente incide sui livelli di benessere, sebbene in misura minore rispetto ad altre caratteristiche come il titolo di studio, le condizioni di salute, l’occupazione e le condizioni abitative. Ad esempio, la propensione a essere molto soddisfatti della vita è circa il triplo tra i laureati rispetto a coloro che posseggono al massimo la licenza secondaria inferiore, mentre all’aumentare del reddito familiare la propensione a essere molto soddisfatti cresce in misura minore.
Gli indicatori del dominio salute mostrano una relazione significativa con il livello di istruzione raggiunto dalle persone.
L’indicatore della speranza di vita alla nascita varia significativamente a sfavore delle persone con i livelli d’istruzione inferiori. L’aspettativa di vita media alla nascita è pari a 82,3 anni per gli uomini con livello di istruzione alto e scende a 79,2 anni per i meno istruiti (-3,1 anni). Per le donne il divario è più basso: da 86 a 84,5 anni (-1,5 anni).
Anche per i fattori di rischio per la salute si conferma il ruolo protettivo del titolo di studio, con una maggiore attenzione ai comportamenti più salutari tra i più istruiti. Fa eccezione il consumo non adeguato di alcol, su cui il titolo di studio non sembra avere effetti.
Istruzione e formazione: indicatori positivi
Nell’ultimo anno, gli indicatori del dominio Istruzione e formazione mostrano una generalizzata tendenza al miglioramento, tuttavia i livelli raggiunti in Italia sono inferiori a quelli della media europea.
Tutti gli indicatori relativi al livello di istruzione raggiunto dalla popolazione hanno un andamento positivo: le persone di 25-64 anni che hanno conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore sono il 61,7% (+0,8 rispetto al 2017); i giovani tra 30 e 34 anni che hanno ottenuto la laurea o un altro titolo di studio terziario sono il 27,8% (+0,9 rispetto al 2017).
Anche la percentuale di persone che partecipano alla formazione continua cresce, seppure con minore intensità (8,1%, +0,2 rispetto al 2017).
Ancora troppo basso il numero di bambini che frequentano i servizi dell’infanzia
L’accesso ai servizi della prima infanzia (0-3 anni) e alla scuola dell’infanzia (3-5 anni) ha effetti positivi e di lungo termine sulle abilità cognitive e comportamentali del bambino. Le primissime esperienze dei bambini gettano le basi per ogni forma di apprendimento successivo. La legislazione italiana, più che il sentire comune, riconosce al servizio fornito dall’asilo nido anche finalità formative, essendo rivolto a favorire l’espressione delle potenzialità cognitive, affettive e relazionali del bambino, e non lo riduce a una funzione di mero sostegno alle famiglie nella cura dei più piccoli.
L’Italia, però, presenta livelli molto bassi di inclusione dei bambini tra 0 e 2 anni nei servizi per l’infanzia. Soltanto il 13% dei bambini tra 0 e 2 anni hanno usufruito dei servizi per l’infanzia pubblici (comunali). Se si comprendono anche i bambini di 3 anni e le strutture private, la quota arriva al 28,6%, un livello comunque inferiore all’obiettivo europeo di almeno un bambino su tre.
L’indicatore di inserimento nel sistema scolastico ed educativo dei piccoli di 4 e 5 anni fornisce, invece, una indicazione positiva: sono inseriti nella scuola dell’infanzia circa il 95% di bambini (eventualmente anche nel primo anno di scuola primaria, perché possono accedervi anche coloro che hanno compiuto cinque anni 5).
Calano i NEET ma aumentano l’abbandono precoce e la dispersione scolastica
Nel 2018 si riduce la quota di giovani tra 15 e 29 anni che non lavorano e non studiano (NEET) che scende al 23,4% (-0,7 punti percentuali rispetto al 2017), mentre aumenta la quota di persone con esperienze di partecipazione culturale (27,9%, +0,8 punti percentuali sull’anno precedente) e di formazione continua (8,1%, +0,2 punti percentuali rispetto al 2017).
Permane invece la criticità dell’abbandono scolastico precoce in aumento rispetto al 2016, con significative differenze regionali e per genere: nel 2018, il 14,5% dei giovani tra 18 e 24 anni non ha conseguito il diploma di scuola superiore di secondo grado e non frequenta corsi di studio o formazione (13,8% nel 2016).
Nel corso dell’anno scolastico 2018/2019, la quota di ragazzi che frequentano il secondo anno delle scuole secondarie di secondo grado e non raggiungono la sufficienza (low performer) nelle competenze è del 30,4% per l’italiano e del 37,8% per la matematica.
Negli ultimi due anni, la percentuale di giovani usciti precocemente dal percorso di formazione è aumentata di 1,6 punti percentuali al Nord (dal 10,6% al 12,2%), con incrementi di 4,1 punti in Veneto (dal 6,9% all’11%) e di 3,4 punti in Piemonte (dal 10,2% al 13,6%).
Nel Mezzogiorno, la quota di abbandoni supera il 20% in Calabria (20,3% nel 2018 contro il 15,7% nel 2016) e in Sardegna (23% contro il 18,1%). Anche Sicilia (22,1%), Campania (18,5%), Puglia (17,5%) e Valle d’Aosta (15,2%) presentano una situazione più grave di quella della media nazionale.
Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione nelle regioni italiane. Anno 2018. Valori percentuali
L’analisi per regione mostra una situazione fortemente differenziata
Nel complesso, la maggior parte degli indicatori delle regioni del Mezzogiorno esprime performance peggiori di quelli delle regioni del Centro-Nord. Unica eccezione il Lazio, che raggiunge il livello più basso di partecipazione al sistema scolastico per i bambini di 4-5 anni.
Le variazioni territoriali delle quote di laureati tra i giovani di 30-34 anni e di persone con almeno il diploma di scuola secondaria superiore nella popolazione di 25-64 anni sono consistenti: al Centro-Nord e in Abruzzo, Molise e Basilicata si contano più di 60 diplomati ogni 100 persone, e nelle altre regioni del Mezzogiorno poco più di 50 ogni 100; in Piemonte, Lombardia, provincia autonoma di Trento, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Lazio ha un titolo terziario un giovane ogni tre, mentre nelle altre regioni circa uno ogni quattro.
Le quote di persone che partecipano alla formazione continua e ad attività culturali, due variabili molto correlate con il titolo di studio, raggiungono livelli elevati nelle regioni settentrionali e centrali, la cui popolazione è comparativamente più istruita che nel Mezzogiorno.
Un livello di istruzione più elevato, invece, costituisce un elemento di protezione rispetto alla povertà, al disagio o alla deprivazione.
Tutti gli indicatori di povertà e deprivazione sono peggiori per le persone con titolo di studio più basso. Rispetto al dato medio italiano il solo raggiungimento di un diploma di scuola secondaria superiore è anch’esso protettivo, mentre i livelli di povertà e deprivazione sono ancora più bassi fra coloro che possiedono un titolo di studio superiore al diploma.
Indicatori per regione e ripartizione geografica
(a) Per 100 bambini di 4-5 anni;
(b) Per 100 persone di 25-64 anni;
(c) Per 100 persone di 30-34 anni;
(d) Tasso specifico di coorte;
(e) Per 100 persone di 18-24 anni;
Il confronto internazionale ci penalizza
Come avviene sistematicamente, anche nel 2018 i principali indicatori dell’istruzione e della formazione in Italia mostrano un quadro complessivamente peggiore rispetto alla media europea.
Particolarmente preoccupante il confronto internazionale per l’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione dei giovani di 18-24 anni: l’Italia è al quartultimo posto (14,5%), decisamente distante dal valore medio europeo (10,6%). Si sono registrati valori più elevati solo in Spagna (17,7%), a Malta (17,4%) e in Romania (16,4%).
Nella media dei paesi dell’UE, le persone di 30-34 anni che hanno completato un’istruzione terziaria (università e altri percorsi equivalenti) sono state il 40,7%. L’Italia occupa il penultimo posto, con il 27,8%. La segue solo la Romania, il cui valore è di poco inferiore (24,6%).
Anche la percentuale di persone di 25-64 anni che hanno conseguito almeno il diploma è significativamente più bassa di quella media europea (-16,4 punti rispetto al 78,1% dei paesi dell’Ue28 presi nel loro insieme). Registrano percentuali più basse solo Spagna (60,1%), Malta (54%) e Portogallo (49,8%).
Lo svantaggio dell’Italia rispetto alla media dell’Unione europea per la formazione continua è invece meno accentuato: il nostro Paese occupa il 18° posto, con l’8,1% di individui che partecipano a programmi di formazione continua, contro l’11,1% della media europea.
Occorre prendere atto, quindi, che le stesse blasonate strategie europee non hanno sortito gli effetti e gli obiettivi sperati in tutti i Paesi dell’Unione, con grosse differenze non solo tra gli stati membri ma anche all’interno dei singoli territori, se tante e grosse aree presentano valori lontani dai benchmark fissati per il 2020.
[1] I 12 domini del rapporto ISTAT BES sono: Salute; Istruzione e formazione; Lavoro e conciliazione dei tempi di vita; Benessere economico; Relazioni sociali; Politica e istituzioni; Sicurezza; Benessere soggettivo; Paesaggio e patrimonio culturale; Ambiente; Innovazione, ricerca e creatività; Qualità dei servizi.