Quale leadership per una scuola di comunità

La sfida di far crescere tutti

Parafrasando Cicerone: “Tempora tristia rerum publicarum mundi”, e lo è ancor più per le scuole perché esprimono la parte della società più ampia, costituita non solo da studenti e docenti, ma da genitori e nonni, e da tanti portatori di interessi.

È quella parte della società su cui le tendenze dei “tempora tristia” andranno a ripercuotersi in maniera veloce e prepotente. I dirigenti sono i primi bersagli delle attuali spinte sovraniste, perché devono rispondere ad indicazioni che esprimono valori anche diversi rispetto al passato e sono sottoposti a valutazione che, seppure ancora da sperimentare, lascia intravedere alcune aree di criticità. Inoltre gli adempimenti continui e stressanti inducono, a volte pure i migliori, a trascurare il senso profondo e nobile di cosa significhi esercitare una efficace leadership educativa.

La normativa e la cura delle “persone”

In teoria, le normative che già esistono garantiscono da sempre l’attenzione alle persone e a quella comunità, che l’articolo 32 de Contratto 2019-2021 chiama “educante e democratica”. Sono belle e tutte condivisibili le parole che utilizza: “La scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, improntata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni. In essa ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio, in armonia con i princìpi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia (ONU il 20 novembre 1989), e con i princìpi generali dell’ordinamento italiano”.

Così pure, il profilo dirigenziale, descritto nel comma 78 della Legge 107/2015, va nella stessa direzione quando, per esempio, nel menzionare le aree di cui il dirigente scolastico è responsabile, mette al primo posto la gestione e la valorizzazione delle risorse umane.

Pur tuttavia, la realtà, a volte, collide con le finalità che sorreggono le norme fondamentali del nostro sistema di istruzione e formazione, ma anche con la migliore letteratura su cui il dirigente ha fondato la sua preparazione professionale.

La comunità tra leadership o management

Nella ‘vulgata popolare’ essere manager significa badare agli obiettivi aziendali, organizzando tempo, risorse e persone, mentre essere leader significa motivare le persone facendo in modo che si sentano protagonisti. Entrambi i profili sono rinvenibili in tutta la normativa di riferimento. I verbi, per esempio, che vengono utilizzati nel comma 78 prima citato, rappresentano una sintesi delle azioni del DS sia come leader, laddove si fa riferimento alla necessità di organizzare, coordinare e valorizzare, sia come manager quando si ricorda l’importanza di dirigere e gestire, come pure di garantire e assicurare.

In genere, tutti i dirigenti svolgono le proprie funzioni e, di norma, sono tutti attenti alle proprie responsabilità. Malgrado ciò sono tante le scuole in cui i docenti vivono male la propria professione, dove ognuno pensa alla propria classe, dove manca un clima collaborativo o dove la collegialità è divisa tra chi decide e chi esegue.

Certo, un buon dirigente, specialmente all’inizio della carriera, deve saper cercare le persone giuste ed assegnare compiti adeguati. Si dice, infatti, che il buon manager, ma ancor più un buon leader, è quello che sa scegliere e valorizzare i migliori talenti. E se i migliori talenti (insegnanti e collaboratori) sono gratificati in maniera appropriata, se si sentono responsabili, se le loro idee vengono rese funzionali in un contesto operativo e collaborativo, il successo e la soddisfazione dello staff è garantito. Il rischio, però, a cui molto spesso si va incontro, e che invece bisognerebbe evitare, è quello di trasformare un ottimo staff in un discutibile “cerchio magico”.

Staff e collegialità

Se lo staff diventa il “cerchio magico” del dirigente scolastico, la scuola rischia di diventare una istituzione altamente gerarchizzata, in antitesi con il concetto di «comunità professionale». La conseguenza è che ognuno cercherà di rifugiarsi nel proprio mondo e la scuola diventerà una “comunità dove non si comunica”. Il problema principale del DS non è tanto quello del rapporto con lo staff, ma con tutti gli altri docenti che non vi fanno parte: ci sono questioni di riconoscimento delle competenze, ma anche di empatie, di stima e di rispetto, di capacità comunicative. Come gestire la relazione tra l’esercizio delle funzioni dello staff (che sono necessarie) e l’esercizio delle funzioni del collegio dei docenti (che sono fondamentali)?

Oggi si parla molto di middle management: è giusto che coloro che collaborano con il dirigente nella gestione e organizzazione abbiano il dovuto riconoscimento. Un problema serio è che non ci siano sufficienti risorse per compensare tutto il lavoro aggiuntivo svolto.

Quello che fa crescere, però, la comunità professionale è la middle leadership, cioè docenti riconosciuti da tutti per la loro competenza che sappiano aiutare i colleghi nelle varie attività che sorreggono la vita di una comunità: costruzione del curriculum, ricerca disciplinare, attività inclusive, soluzione di problemi complessi… Possiamo utilizzare nomi diversi per identificare tali professionalità: sono comunque tutte persone che, oltre ad essere leader in una determinata area, aiutano a costruire i presupposti affinché il dirigente possa esercitare una leadership educativa, efficace e diffusa.

Presupposti di base per una leadership di comunità

“Il leader è colui che crea un ambiente positivo, dentro il quale il dipendente (collaboratore) ha piacere a lavorare, ma soprattutto, è spinto da un forte senso di appartenenza che lo porterà ad impegnarsi sempre per il bene dell’azienda (scuola)”.

Sono parole molto sagge che ogni persona potrebbe aver detto, ma è interessante che questo concetto sia stato teorizzato, alla fine degli anni Settanta, da un grande economista che si è occupato di organizzazione: Henry Mintzberg. Il suo pensiero rientra in quel filone noto come «teorie contingenti», tuttora ampiamente utilizzate in molte organizzazioni, ivi comprese le scuole. Ma qui, è utile far riferimento non tanto al suo modello organizzativo, ma al principio che è alla base e che può costituire i presupposti per una leadership di comunità: “Ogni attività umana richiede due operazioni fondamentali e al tempo stesso opposte: la suddivisione del lavoro e il coordinamento”. L’affermazione, apparentemente ovvia, reca in sé due aspetti del pensiero organizzativo per nulla facili da realizzare e da cui dipende, in larga misura, la qualità dell’istituzione che si dirige.

Suddivisione del lavoro e coordinamento

La suddivisione del lavoro chiama in causa sicuramente le responsabilità del dirigente scolastico, ma allo stesso modo anche le responsabilità dei destinatari degli incarichi. Il dirigente deve essere in grado di riconoscere le competenze e di intuire le potenzialità di ciascuno, deve valorizzare le prime e fare emergere le seconde. Ma non basta, deve fare in modo che tutti coloro che fanno parte dell’istituzione siano consapevoli e riconoscano che alcuni colleghi possono essere di aiuto al miglioramento della scuola. Dall’altro lato, però, i docenti che accettano l’incarico devono essere non solo consapevoli delle loro potenzialità, ma devono mettersi in gioco, impegnandosi a rispettare le regole e ad accettare di essere valutati e pure criticati.

Nella scuola reale è più frequente reiterare le scelte piuttosto che modificarle, anche quando le cose non funzionano bene, timorosi che “la cura” possa diventare più dannosa della “malattia”: un docente a cui viene tolto un incarico si sente sicuramente sfiduciato, mentre un leader deve valorizzare le persone, e non rischiare di mortificarle. Non sempre, poi, i bravi docenti sono disposti a mettersi in gioco, a volte si auto-propongono insegnanti che possono non avere le competenze necessarie.

Ancora più difficile è la capacità di coordinamento. Si tratta di riuscire a regolare e gestire elementi diversi di una istituzione che, per antonomasia, è a legami deboli, creando collegamenti fra parti differenti affinché tutti operino tra loro in modo integrato e raggiungano obiettivi precisi e comuni. Un buon coordinamento parte anche dalla comunicazione. Ma, a scuola, seppure considerata importante sul piano teorico, spesso non funziona in maniera perfetta: qualche volta è trascurata, spesso è data per scontata, a volte è troppo formale (affidata solo alle note istituzionali), altre volte è troppo informale (affidata troppo all’oralità), in alcuni casi è solo tecnologica (affidata ai sistemi digitali). Tutti sanno invece che quando la comunicazione funziona bene:

  • le strategie e gli obiettivi sono a tutti più chiari;
  • i procedimenti che hanno determinato le scelte diventano trasparenti e controllabili;
  • tutti possono verificare se le scelte hanno prodotto effetti;
  • le azioni di miglioramento diventano più sistematiche e più efficaci;
  • i processi organizzativi sono sicuramente accelerati.

Conoscere la scuola che si dirige

Per capire meglio quali sono i “poteri” di un dirigente che migliorano la scuola a partire dalla valorizzazione delle risorse umane, può essere utile prendere a prestito il concetto di organizzazione e di cultura organizzativa così come è stato teorizzato da Edgar Schein negli anni Ottanta.

In termini molti generali, quando si parla di cultura organizzativa si intende l’insieme dei valori, delle regole, dei comportamenti, che caratterizzano un’organizzazione, contribuendo alla formazione di un ambiente sociale e psicologico ben definito. In ogni organizzazione ci sono norme scritte e norme non scritte, ci sono regole ma anche consuetudini più o meno radicate, ci sono comportamenti formali ed informali, aspettative ed esperienze che tengono insieme le persone e che definiscono gli scopi e la filosofia stessa dell’organizzazione.

Il primo presupposto da cui un dirigente deve partire è quello dell’osservazione e dell’ascolto. Ma quali sono gli oggetti privilegiati su cui centrare prioritariamente l’attenzione?

È facile osservare quello che è a tutti evidente e che Schein chiama “artefatti”. È meno facile, ma rientra comunque tra le competenze di base di ogni dirigente, gestire l’organizzazione dell’offerta formativa, cioè tutti gli elementi che Schein chiama “valori dichiarati” che, teoricamente, dovrebbero essere condivisi dall’intera comunità professionale, ma sappiamo che non è sempre così. Molto più difficile è confrontarsi con le regole non scritte, con le consuetudini, con i sentimenti profondi e nascosti che serpeggiano tra le persone che fanno parte dell’istituzione, con gli elementi istintivi che spesso determinano i grandi successi, ma anche i grandi fallimenti. In altre parole con quegli aspetti che stanno sotto la linea di galleggiamento dell’iceberg e che Schein chiama gli “assunti taciti condivisi”.

Imparare ad essere empatici

Se si osserva, se si ascolta, se si ha interesse vero a capire gli altri a partire dai loro problemi, diventa naturale utilizzare una comunicazione empatica.

Una buona comunicazione empatica è quella che informa bene, che sa creare complicità e partecipazione, che sa diffondere i valori della comunità. Bisogna badare, in primo luogo, ad evitare malintesi e ambiguità perché sono quelli che generano problemi e situazioni a volte difficili da sanare. Bisogna curare il linguaggio, non solo evitando parole che possono essere percepite come ostili, ma mostrando all’altra persona che la stiamo ascoltando veramente e che comprendiamo quello che dice. È importante rivolgersi ad ognuno in maniera personalizzata, facendolo sentire “unico” ed importante per l’istituzione, mettendo in evidenza le possibili potenzialità, non rimarcando mai l’errore, anzi cercando di trasformarlo in opportunità.

La leadership che funziona e che fa crescere la comunità è quella che non solo sa comunicare i valori con le parole giuste, ma che sa altresì mostrare nei fatti come fare per raggiungerli.

Una definizione di leadership che fa crescere la comunità

“Il cuore e l’anima della cultura scolastica sono ciò in cui le persone credono. Abbiamo bisogno di una leadership abbastanza tenace da esigere molto da tutti, e di una leadership abbastanza tenera da incoraggiare il cuore”. È una definizione di Thomas Sergiovanni, studioso statunitense, famoso per le sue teorie sulla leadership educativa, autore di numerosi libri, molti dei quali tradotti in Italiano. Per Sergiovanni è la comunità il fattore più importante per rendere le scuole di alta qualità. Ma alla base ci devono essere ideali e scopi condivisi. Per questo si ha bisogno di una leadership appropriata.

“Siamo tutti consapevoli che l’insieme dei docenti di una istituzione scolastica non è sinonimo di comunità professionale, ma lo diventa ogni qual volta si condividono obiettivi, attività, procedure e responsabilità. Quando cioè ci si sente parte attiva nella costruzione dell’identità della scuola o quando ci si impegna ad affrontare e superare un problema”. Sono parole che usava ripetere Giancarlo Cerini e che ritroviamo anche nel suo libro postumo[1]. Continuava dicendo che “essere comunità significa avere senso di appartenenza, identità condivisa, sentirsi responsabili di una casa comune. Per questo serve l’arte di ascoltare e di comunicare, la capacità di prendersi cura delle relazioni, l’apprendimento reciproco. Occorre uno stile di leadership aperto e distribuito che sappia mettere in opera strumenti organizzativi coerenti con una visione democratica”. Per farlo un dirigente “deve curare il sistema delle decisioni, la progettazione partecipata dei diversi aspetti della vita scolastica: quelli curricolari, quelli valutativi, le informazioni, la comunicazione, i sistemi interni di documentazione e di monitoraggio”.

Le scuole come comunità professionali

Thomas Sergiovanni per definire cosa deve essere una istituzione scolastica utilizza alcune tipologie di comunità. Le scuole sono comunità professionali in quanto: comunità di apprendimento, comunità di ricerca, comunità collegiali, comunità inclusive, comunità di cura.

Comunità di apprendimento

Sono luoghi in cui gli studenti e altri membri della comunità scolastica si dedicano a riflettere e a crescere sul piano umano, in cui l’apprendimento è un processo, ma anche uno stile di vita. Sono luoghi che favoriscono aspetti interattivi e collaborativi nel processo di costruzione della conoscenza, che rafforzano le abilità di “imparare ad imparare” usando diversi strumenti e fonti (media, pari, esperti), che incoraggiano la conoscenza e competenza distribuita attraverso strategie attive in cui ogni membro è apprendista ed insegnante allo stesso tempo. Le azioni chiave che connotano le comunità di apprendimento sono: coinvolgere, condividere, confrontare, sviluppare[2].

Comunità di ricerca

Sono i luoghi in cui i dirigenti scolastici e gli insegnanti si dedicano allo studio in uno spirito di indagine collettiva mentre riflettono sulla loro pratica e mentre cercano le soluzioni dei problemi che incontrano. Una comunità scolastica ha senso solo se sa affrontare il significato profondo dell’e-ducere; se è incardinata nella più vasta comunità espressa dal territorio, se sa vivere relazioni funzionali e costruttive con la concreta comunità sociale, culturale, economica, politica e religiosa. La comunità di ricerca esalta il valore produttivo del porre domande, non tanto per arrivare a soluzioni definitive, piuttosto per vivere insieme la ricchezza delle pratiche di condivisione del pensiero, capaci di gettare luce nuova su concetti o problemi che spesso nella quotidianità sono vissuti come luoghi comuni.

Comunità collegiali

Sono i luoghi in cui i membri si relazionano per un beneficio reciproco e per perseguire fini comuni, stabilendo un senso di interdipendenza e di obbligo scambievole. È la scuola nella quale si discute, si mettono a confronto i vari punti di vista, si assumono decisioni nel rispetto delle diverse posizioni. È la scuola della condivisione, della creazione di contesti in cui tutti sono chiamati alla responsabilità e alla rendicontazione, dove nessuno si sente gregario, ma tutti si sentono protagonisti seppure con compiti e missioni diversificate. Il leader è chiamato ad impegnarsi a costruire sistemi di significati educativi condivisi fra soggetti differenti[3].

Comunità inclusive

Sono i luoghi in cui le differenze di natura economica, religiosa, culturale convivono e godono di reciproco rispetto. Una scuola inclusiva è frutto della sensibilità e dell’impegno di tutti coloro che vi operano a partire dal dirigente scolastico. Una delle responsabilità del dirigente è quella di creare le migliori condizioni di lavoro per rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo di ogni persona. L’attenzione al processo educativo di ciascuno diventa la cifra distintiva dell’inclusione.

Comunità di cura

Sono i luoghi in cui i membri si dedicano gli uni agli altri, a prescindere dai ruoli formali che ricoprono, e in cui le caratteristiche che definiscono le loro relazioni sono di carattere morale. È lo spazio ideale in cui si tutelano tutti i bisogni e tutti i diritti. Sergiovanni ritiene che, a partire da ideali condivisi, dall’etica del bene comune, la scuola come comunità di cura è quella che favorisce ancor più la creazione di ambienti di apprendimento efficaci per acquisire le competenze trasversali, cioè dei pilastri per l’educazione contemporanea, già individuati nel 1996 da Jaques Delors (imparare ad imparare, imparare a fare, ad essere e a vivere insieme con gli altri)[4].

Quale comunità per le generazioni future

Due decenni fa si parlava di «Epoca delle passioni tristi». Una locuzione, diventata molto popolare grazie a due psicanalisti (Miguel Benasayag e Gérard Schmit[5]); ha permesso ad alcune generazioni di riflettere sul disagio esistenziale che pervadeva la società dell’epoca, sul senso di precarietà, di incertezza, soprattutto sull’individualismo già allora molto dominante.

Dopo oltre venti anni ci troviamo a vivere nell’«Epoca dei sovranismi» in un contesto dominato dalla xenofobia, dall’intolleranza, dall’autoritarismo, dal populismo, senza menzionare le povertà, le disuguaglianze sempre più profonde e, soprattutto, le guerre dilaganti.

Che tipo di percorso ha fatto la storia mentre la scuola (colpevolmente ignara) era impegnata a trasmettere valori e buoni sentimenti? Mentre gli studiosi di tutto il mondo realizzavano ricerche, studi e modelli per una società più equa, solidale e democratica? E il mondo andava in altra direzione…

Quale comunità saremo ora in grado di costruire che possa contrastare questa deriva e difendere il futuro delle giovani generazioni? Non sarà una impresa facile, quella che ci attende, ma gli educatori hanno l’obbligo di essere ottimisti.


[1] Cerini G. Atlante delle riforme (im)possibili, Tecnodid, 2021,

[2] Sergiovanni Th. (2002) Dirigere la scuola comunità che apprende, LAS, Roma.

[3] Sergiovanni Th. (2000), Costruire comunità nelle scuole, Las, Roma.

[4] Delors J. et al. (1996), Learning the Treasure Within, UNESCO.

[5] Benasayag M., Schmit G. (2003), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli.