La sfida di settembre 2020. Resilienza e innovazione

“Lo dice l’Europa”

Mi chiedo se non sia davvero – e finalmente – arrivato il momento di riuscire a ripensare la scuola e la didattica in una forma nuova, più adeguata ed efficace. Spazi, tempi e mezzi sono vecchi, non in sé, ma nel loro combinarsi in soluzioni pressoché identiche alle forme che abbiamo conosciuto dal ‘600 in poi, da quando La grande didattica[1] di Jan Amos Komenski ha immaginato spazi e tempi antimeridiani, aule con banchi e sedie per un numero consistente di alunni, un insegnante a fare lezione e una buona biblioteca. All’epoca funzionava e ha funzionato per secoli. E Komenski era pure molto avanti, quando volle introdurre l’ancora nascente tecnologia tipografica tra gli strumenti per la didattica, emblema del bisogno di una complessità di stimoli che riflette la complessità stessa del farsi dell’educazione.

Quello che l’Europa ci ha già indicato da tempo con la Raccomandazione del 2006[2] e la più recente revisione del 2018[3], non è vero perché «lo dice l’Europa», ma perché è sensato. Chiedere ai sistemi formativi dei Paesi membri di rivedere i propri curricoli, i propri impianti formativi per rispondere ai problemi del tutto nuovi di una contemporaneità sempre più eterogenea e impegnativa, è richiesta legittima e necessaria. La risposta, in particolare quella italiana, è stata timida, quasi impercettibile come a dover rispondere solo per dovere di adempimento di forma e non di sostanza. Ne è prova la certificazione delle competenze che dal 2010 siamo tenuti a rilasciare agli studenti che completano l’obbligo scolastico, ma della quale nessuno avverte realmente il bisogno, perché non ne avverte di fatto il senso.

Scuole chiuse? Tutti a scuola!

Il 5 marzo di quest’anno abbiamo cominciato a vivere dentro un interessante paradosso: proprio mentre le scuole del Paese venivano chiuse per decreto, abbiamo iniziato a frequentare una scuola. Siamo entrati dentro un’esperienza fatta per insegnare qualcosa, e dunque siamo entrati in una scuola. Una scuola dove si apprende per sottrazione più che per accumulazione (non è forse questo il modo per arrivare a quella che gli epistemologi chiamano la conoscenza vera?).

E così abbiamo avuto bisogno di perdere la centralità fisica della cattedra per comprendere meglio che occorre decentrare l’educazione verso l’autorealizzazione del soggetto che apprende. Un decentramento che, paradossalmente, riposiziona in una zona nuova ma per nulla marginale l’insegnante e quello che rappresenta dentro il processo formativo.

Abbiamo avuto bisogno di perdere i nostri alunni per avvertire la sgradevole sensazione dell’assenza di un rapporto talvolta difficile ma irrinunciabile.

Abbiamo dovuto rinunciare alle nostre ore di lezione ed essere costretti a utilizzare gli strumenti dell’e-learning per comprenderne davvero l’utilità talvolta strategica, seppure problematica.

Abbiamo dovuto chiudere le segreterie delle nostre scuole (e di molti uffici pubblici e privati) per capire davvero cosa significa digitalizzazione, dematerializzazione, telelavoro e che è possibile fare bene – talvolta meglio – ottimizzando il tempo, rispettandolo oserei dire, rimodulandolo su scale di valori aggiornate alle esigenza di umanità che, com’è noto, spesso configgono con quelle della routine della produzione e dell’efficienza tout court.

Pensando a Woods Hole

Il fatto è che il troppo storpia, è sempre stato così. È arrivato il momento di prendere coscienza di un perseverare a rischio di default e improduttivo, del bisogno di rinvigorire le dinamiche del rapporto educativo togliendo la coltre che sta soffocando il vecchio principio e fine dell’autonomia scolastica, l’inflazionato concetto del successo formativo di tutti e di ciascuno. Cosa potrebbe voler dire tutto questo per la scuola? Come lo si potrà tradurre in forme nuove, auspicabili, praticabili? Cosa si può e si deve fare?

La prima azione dovrebbe essere un atto di coraggio culturale e politico. Qualcuno ricorderà un’esperienza che è rimasta emblematica nella storia dell’educazione. Era il settembre del 1959 quando in una piccola cittadina nel Massachusetts a sud di Boston, l’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti riunì eminenti scienziati, psicologi, insegnanti, direttori scolastici con lo scopo di definire i migliori metodi e focalizzare i processi fondamentali implicati nell’apprendimento delle discipline scientifiche, al fine di avviare una profonda revisione dei programmi di insegnamento delle scuole. Bisognava, in buona sostanza, rispondere a quella che gli Stati Uniti considerarono un’emergenza, ossia rendere il loro Paese il più evoluto al mondo, soprattutto nell’ambito della conoscenza scientifica. Come? Migliorando il sistema educativo e chiamando gli addetti ai lavori a fare proposte. Niente di più ovvio e banale. D’altronde uno tsunami si era da poco abbattuto sull’orgoglio del Nuovo Continente e proveniva, manco a dirlo, dall’Unione Sovietica. Questa, nella corsa per la conquista dello spazio, aveva sorpreso il mondo intero, quando il 5 ottobre del 1957 lanciò il primo satellite in orbita intorno alla Terra. Fu uno smacco intollerabile per il gigante a stelle e strisce. Ne derivò un processo di riforma che andò ben oltre lo scopo originario della conferenza fino a indurre la scuola, in tutto il mondo, a riflettere sul significato dell’educazione[4]. La cittadina del Massachusetts si chiamava e si chiama Woods Hole e a presiedere la conferenza fu Jerome Bruner[5]. A lui dobbiamo buona parte della migliore psicopedagogia dalla metà del XX secolo a oggi.

Credo che gli effetti a breve e lungo termine di un evento come la pandemia del Covid-19 si possano ritenere un “caveat”degno di attenzione almeno quanto il pericolo di espansione scientifico-tecnologica di un paese avverso, ma lo è ovviamente di più. E dunque è forse arrivato il momento di chiamare a raccolta i rappresentanti dell’alta cultura, per dirla alla Popper, per formulare ipotesi e sviluppare strategie nuove, in grado di rispondere a problemi nuovi, in modo aperto ma assumendosi la responsabilità di scelte importanti assieme al rischio che una simile sfida comporta.

Settembre 2020

A settembre le scuole, speriamo, riapriranno, ed è ovvio che non potremo aspettare l’avvento di una nuova Woods Hole per risolvere i problemi che ci troveremo di fronte. L’auspicio che una riflessione seria e sistematica si avvii rimane, ma ci sarà da far partire un nuovo anno scolastico, possibilmente secondo criteri di agibilità, ragionevolezza ed essenzialità, perché di tutto abbiamo bisogno meno che di cose che fanno solo volume. Mi limito a suggerire cinque titoli che bisognerà riempire di azioni conseguenti, i primi quattro nell’immediato.

a) Rivedere spazi e tempi della scuola.

Le scuole dell’infanzia e le scuole primarie dovranno poter funzionare. I bambini hanno bisogni educativi complessi e fondamentali, che necessitano di cura costante e specifica. I genitori riprenderanno a lavorare probabilmente in maniera ordinaria e i loro figli non potranno essere affidati ad altri che non siano persone e ambienti in grado di prendersene cura adeguata. Ma gli spazi dovranno essere rivisti e resi meno affollati: meno alunni per aula, dunque più aule a disposizione. È una duplice esigenza praticamente insostenibile. Bisognerà sacrificare qualcosa, ad esempio ridurre i tempi di frequenza settimanali in percentuale variabile a seconda delle specificità delle comunità scolastiche. In ogni caso sarà necessario recuperare ambienti. Questo sarà possibile adottando forme di didattica integrata per le scuole secondarie che potrebbero rendere disponibili i loro spazi ai più piccoli.

b) Rivedere la didattica della scuola secondaria.

Perdere la centralità fisica della cattedra può voler dire che non solo lo spazio ma anche il tempo della “lezione” va rimodulato. La didattica a distanza, con tutte le limitazioni che la connotano, si sta dimostrando, in ogni caso, un modello interessante per lavorare sulle competenze degli studenti, quelle che abbiamo l’obbligo di certificare e che invece vengono ancora considerate ai margini del percorso formativo. È anche una delle modalità più interessanti per promuovere il senso di responsabilità degli studenti traducendo in pratica la metafora della classe capovolta. Negli anni ’80 e ’90 andava molto di moda parlare di “didattica breve”, oggi possiamo capirne meglio il senso e la coerenza rispetto ai nuovi bisogni formativi. Possiamo ridistribuire tempi e carichi di impegno in processi che investono sulle risorse personali degli studenti, coinvolti in compiti sfidanti per i quali saranno i primi a dover rilevare l’efficacia delle proprie scelte, azioni, argomentazioni. Questo è fare valutazione autentica. Ciò presuppone che i curricoli di studio vengano adeguati facendo scelte di riduzione contenutistica e mantenendo rigore epistemologico. Le Indicazioni nazionali dei vari gradi scolastici lo consentono.

c) L’investimento sulle tecnologie digitali

È inutile cercare vie alternative. Da quando alla fine degli anni ’90 abbiamo cominciato a investire nell’introduzione delle nuove tecnologie informatiche nella didattica e nella gestione amministrativa, il percorso è stato inarrestabile, ma lento. Oggi capiamo che quello che è già da anni più che disponibile (banda larga, cablaggi, piattaforme per la DAD, software, devices di ogni sorta…) deve esserlo realmente e al massimo delle performances esprimibili. Tutto questo ha un costo e ci si augura che il mercato arrivi a capire che con la scuola c’è poco da speculare, al contrario c’è solo da investire. Certo occorrono più soldi di quelli che di regola possiamo disporre, ma nel frattempo facciamo scelte oculate e sostenibili almeno nel medio periodo: le tecnologie invecchiano rapidamente e dunque meglio avere meno mezzi ma che garantiscano affidabilità e risultati nel tempo lungo.

d) PTOF, regolamenti e Patto di corresponsabilità

Qui davvero non c’è tempo da perdere. Un nuovo ambiente per l’apprendimento presuppone una nuova visione e nuove regole. Evitando approcci palingenetici, i PTOF dovranno essere adeguati, approfittandone per renderli più fruibili e, ancora una volta, più essenziali. I regolamenti interni delle scuole, dentro questa necessità, potranno essere rivitalizzati e quel Patto educativo di corresponsabilità che continuiamo a sottoscrivere può diventare più concretamente alleanza educativa, in particolare tra scuola e famiglia, provando a sanare una lacerazione che troppo spesso diventa strappo dalle conseguenze talvolta drammatiche.

e) Formazione e selezione dei docenti

L’ultimo titolo è questione eminentemente politica, ma non può essere taciuto. Anche perché coinvolge almeno altri due temi, quello delle condizioni contrattuali di lavoro del personale della scuola e quello della sostanziale riscrittura del suo Testo Unico, sulle quali non mi trattengo. Formazione e reclutamento degli insegnanti sono questioni che vanno affrontate a partire non solo dai percorsi universitari, ma da quell’orientamento che abbiamo l’obbligo di assicurare ai nostri studenti e che è il primo e importante investimento per garantire la qualità delle competenze che in ogni professione si andranno a sviluppare negli anni successivi. Sotto questo profilo è illusorio credere che l’aggiornamento in servizio possa rimediare all’assenza delle solide premesse di un rigoroso percorso di maturazione professionale. Serve un onesto accostarsi al problema, riconoscendo in prima istanza che bisogna ridiscutere il sistema di accesso al ruolo docente; occorre ad esempio riconoscere che le preselezioni non possono trasformarsi in selezioni; che il rapporto tra prove scritte e prove orali andrebbe rivisto alla luce di una effettiva riconsiderazione delle seconde a fronte delle prime. Tento il paradosso: più si va verso l’affermazione di strumenti di valutazione oggettivi, formalizzati e schematizzati e più diventano essenziali e indispensabili le occasioni in cui in gioco ci sia la persona, con tutto ciò che essa sa esprimere e rappresentare. Chi non sarebbe d’accordo con l’idea che la qualità del lavoro del docente è il risultato della sapiente miscela di sapere, saper fare e saper essere? Perché non dover verificare oltre al possesso di adeguate conoscenze anche la capacità tecnica, la competenza relazionale e di condivisione che deve instaurarsi tra docente e discente, docente e docente, docente e famiglie? Scommetto nessuno.

A scuola di autonomia

Settembre 2020 sarà l’ennesima prova per l’autonomia scolastica, almeno di quel che ne rimane. Avremo tutti bisogno di indicazioni chiare e unitarie da parte del nostro Ministero, ma che siano poche e senza ambiguità. Perché, nello stesso tempo, dovremo conservare la possibilità di scegliere in ragione delle peculiarità di ciascun istituto, evitando sovrapposizioni che disorientano e fanno sprecare risorse. Importante sarà il coordinamento interistituzionale sui territori per cui la politica potrebbe riappropriarsi di uno spazio virtuoso contribuendo a ricostruire un tessuto logoro e sfibrato.

Una sfida importante e una vera scuola di autonomia, questo, in ultima analisi, è l’orizzonte che si profila davanti ai nostri occhi e nel quale siamo già ampiamente coinvolti, insegnanti, dirigenti, personale scolastico, genitori e, ovviamente, alunni. Una prova che la scuola sta dimostrando di saper affrontare con lo sforzo davvero encomiabile di insegnanti e dirigenti scolastici che se da soli sono espressione di resistenza, insieme fanno la resilienza del sistema. Se “le parole sono importanti”, per citare Nanni Moretti, la parola “crisi” lo è davvero perché, com’è noto, significa “scelta” e chi sceglie decide per qualcosa rinunciando ad altro, decide da che parte stare.

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[1] Comenio, Grande Didattica, a cura di A. Biggio, La Nuova Italia, Firenze, 1993.

[2] Consiglio dell’Unione Europea, Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente, Bruxelles, 18 dicembre 2006.

[3] Consiglio dell’Unione Europea, Raccomandazione del Consiglio relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, Bruxelles, 23 maggio 2018

[4] J. Bruner, Il significato dell’educazione, Armando, Roma, 1973.

[5] Si veda: J. Bruner, Il processo educativo. Dopo Dewey, Armando, Roma, 1964.