Educazione all’affettività

Un antidoto alla dilagante violenza

Il caso di Giulia Cecchettin, toccando in profondità i sentimenti di tutti, ha enfatizzato il problema del femminicidio allargandolo verso la questione dell’educazione affettiva. L’educazione civica, da poco rientrata nell’universo scolastico attraverso nuove indicazioni istituzionali, ha sempre avuto come fulcro centrale il processo di formazione responsabile delle nuove generazioni mettendo al centro dell’attenzione la cittadinanza fondata sul principio di solidarietà e di cooperazione. Ma non ha mai toccato in maniera adeguata il problema dell’educazione dei sentimenti.

Tutta colpa del patriarcato?

Oggi stiamo vivendo una fase particolarmente critica in cui sembrano evaporati i principi che hanno sostenuto la stabilità delle società dei nostri padri. Oggi tutto appare veloce e mutevole, ma certe aberrazioni sembrano essere ricondotte ad un rigurgito della società patriarcale: “Figlio sano del patriarcato”, così la sorella di Giulia Ceccettin ha definito Filippo Turetta, condannato all’ergastolo per l’efferato delitto. Ma è proprio così? È tutta colpa del patriarcato? Antonio Polito, editorialista del Corriere della sera, in un suo articolo ha voluto sottolineare che non bisogna interpretare i femminicidi sempre “come un rigurgito della società patriarcale e come il frutto di ignoranza e arretratezza. Altrimenti non ci spiegheremmo perché sono commessi da giovani come da anziani, da ricchi e da poveri, al Nord e al Sud, in Italia come in Europa”. Forse, occorre trovare un elemento fondativo della violenza che non riguardi tanto i valori della società patriarcale, quanto i disvalori di un mondo contemporaneo che ha celebrato la competizione come elemento fondativo della democrazia liberale di cui tutti noi siamo figli.

La proposta minimalista del programma “Educare alle relazioni”

Franco Frabboni, noto pedagogista scomparso recentemente, in uno scritto di qualche anno fa (Sapori di Pedagogia e di Didattica) faceva riferimento al libro “Cuore” come elemento fondante della sua formazione infantile e adolescenziale, e metteva in evidenza come l’incontro con il libro di De Amicis sia stato centrale per la sua crescita affettiva, per la sua educazione alle emozioni, per la sua capacità di riconoscere i valori, ma anche propedeutico alla scoperta della sessualità.

Confrontarsi con i sentimenti costituisce un processo importante e necessario nella vita di un giovane. È un processo inevitabile, soprattutto oggi che l’umanità sembra abbia perso la capacità di gestire le inevitabili frustrazioni della vita. È da questo presupposto che prende origine la direttiva del MIM del 24 novembre 2023, n. 83 che ha previsto una serie di azioni destinate alle scuole secondarie di secondo grado. Trattandosi però di sole 30 ore annue, da svolgersi in percorsi educativi extra-curriculari, la cui adesione delle scuole è volontaria e la cui partecipazione degli studenti è facoltativa previo consenso dei genitori, viene naturale avere alcune perplessità sulla reale efficacia della proposta ministeriale. Il mondo dei sentimenti, il cuore antico deamicisiano sembrano estranei ad un progetto che non garantisce continuità, sistematicità, trasversalità.

Eccesso di cura e padre “pelouche”

I tanti femminicidi sembrano consolidare un modello di famiglia incapace di rompere le catene di un passato, frutto più di ignoranza che di codardia. I diversi comportamenti genitoriali (sia delle vittime sia dei carnefici) hanno offerto “spunti” per una riflessione pedagogica sul senso stesso della famiglia, per troppo tempo ritenuta come l’unica responsabile di tanti tragici eventi, che connotano il nostro tempo inquieto.

Le parole del padre di Filippo Turetta testimoniano il disorientamento di un genitore che pensava di avere “… un figlio così perfetto, mai un problema, mai un litigio con amici e compagni di scuola”. Un sapiente intervento di Daniele Novara, pedagogista e psicoterapeuta, fa notare come troppo spesso gli uomini violenti “presentano un deficit di virilità”, riconducibile al nesso che sussiste tra un’educazione infantile che avrebbe precluso loro la possibilità di litigare e che abbia impedito, in tal modo, lo sviluppo della capacità di “imparare a stare nella contrarietà”, ad affrontare la “divergenza”, a tollerare un’opposizione alla propria volontà. Spiega, inoltre, quanto possa essere determinante “l’eccesso di cura e di ruolo materno” nell’attuale società del benessere. Tale eccesso sembra essere “trasversale” a tutte le famiglie. A parere del prof. Novara, il discorso sull’educazione dei maschi, deve cominciare dal mettere al centro il ruolo dei “padri”, un ruolo che, negli ultimi cinquant’anni, ha conosciuto una pericolosa deriva; si è passati dalla figura del “padre padrone” a quella del “padre peluche” dove, “se il primo era mortificante, il secondo invece è diventato castrante”. Il ruolo del padre, secondo Daniele Novara, è quello di tracciare limiti, onde incentivare nel figlio l’autonomia, stimolare l’esplorazione della vita e far accogliere gradualmente la “fatica”. La virilità non sarebbe solo una “questione genetica”, ma l’espressione dell’accettazione del limite: una questione di “sponde”, dunque.

Allo stesso modo il Prof. Novara è convinto che costituisca un fatto grave l’eclisse dell’educazione sessuale, che costringe i ragazzi della nuova generazione ad imparare la sessualità attraverso siti porno. I quali, a giudizio del noto psicoterapeuta, finirebbero invece con l’alimentare la mancanza di quel “rispetto” verso il corpo femminile e giustificare l’affermarsi di una sempre più evidente “cultura misogina”: possibile concausa dell’espandersi della violenza nei confronti delle donne. Da qui il prof. Novara conclude che “un maschio cresciuto nel rispetto altrui, difficilmente sarà violento con una donna e sarà un maschio migliore”[1].

Le parole che fanno crescere

Le parole pronunciate da Gino Cecchettin, padre di Giulia, sul feretro della figlia, ci aiutano però a sperare che da una società contemporanea, così confusa, possano nascere nuove consapevolezze.

“Da adesso in avanti, qualcosa deve cambiare sul serio. A cominciare dagli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. (…) Insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte”. Il padre di Giulia ammoniva poi che la sedicente “lotta al patriarcato” non doveva trasformarsi in una contrapposizione tra maschi e femmine.  Il patriarcato corrisponde alla “logica del possesso”, ed è questa logica che dobbiamo scardinare dai nostri vissuti. “Oggi i giovani devono imparare ad accogliere la libertà altrui e ad accettare le sconfitte, anche nelle relazioni”.

I genitori attuali, cresciuti all’interno di un modello familiare severo o anche autoritario, hanno reagito generando comportamenti permissivi, trasformando profondamente la relazione genitoriale gerarchica in un rapporto quasi paritario in cui si sentono “amici” dei propri figli. In tal modo Il concetto di “autorità del padre” smarrisce la sua identità senza trasformarsi in quella “autorevolezza”, che in educazione è fondamentale. In tal modo il rapporto educativo diventa debole e non aiuta il processo di maturazione delle nuove generazioni.

L’auspicio di Giulio Cecchettin è che la sua tragedia familiare possa costituire una nuova presa di coscienza collettiva per i genitori delle nuove generazioni, che possa essere in grado di cambiare le cose, rompendo il cerchio della violenza a cui ormai tutti siamo fatalmente e inconsciamente assuefatti: “Io non so pregare, ma so sperare”.

Nelle parole del padre di Giulia non sono mancate altre indicazioni, rivolte rispettivamente alla “politica”, alla “scuola” e ai “media”, ritenuti implicitamente corresponsabili dei tragici fatti accaduti. A tutti l’uomo ha chiesto di scendere in campo, perché “la morte di Giulia segni davvero una svolta”. E questa svolta tocca oggi ai maschi, ai quali incombe il dovere di “sfidare la violenza” per ricreare le condizioni necessarie allo sviluppo di una “sana comunità”.

La scuola al centro?

L’ampio dibattito che si è aperto sul tema del femminicidio, sulle pari opportunità e sugli stereotipi di genere, secondo l’opinione di molti è un problema culturale, e quindi di ampio respiro, la cui risoluzione richiederebbe un serrato confronto tra punti di vista, anche tra loro divergenti. Tutti sono comunque concordi che l’unica cosa da fare, in questo “momento storico”, sia quello di “ripartire dalla scuola”. Sul piano teorico, la scuola rappresenta la via maestra per influire anche sull’educazione oltre ad essere responsabile dell’istruzione dei giovani. Bisogna tuttavia fare i conti con dati di realtà.  Sappiamo bene quali siano i problemi della scuola italiana e sappiamo quanto sia importate il ruolo dei docenti verso cui da decenni, però, manca un reale investimento, sia sul piano della valorizzazione professionale sia su quello della formazione.

Per questo motivo indicare la scuola come unica soluzione per affrontare le “disuguaglianze di genere”, che stanno alla base della violenza attuale, significa aggredire il problema solo in parte. Nello stesso tempo, però, mentre si riconosce l’esigenza di una adeguata ed efficace “formazione degli adulti” (insegnanti, genitori, professionisti, pubblici decisori, classe dirigente), si ravvisa anche la necessità di una adeguata dotazione di risorse mirate affinché in ogni scuola e in ogni territorio, ci siano figure di esperti, di psicologi e pedagogisti che diventino parte integrante dei processi educativi.

Da progetti “spot” a progetti strutturali

Il progetto ministeriale di “Educazione Affettiva” che al momento è lasciato alla buona volontà e alla sensibilità dei docenti e dei dirigenti, dovrebbe diventare un progetto di “educazione ordinaria” e rappresentare un elemento fondativo del curricolo scolastico. Dovrebbe essere differenziato, per interventi e finalità, secondo le diverse fasce di età, mediante l’utilizzazione di opportuni strumenti e metodologie. Il punto focale potrebbe consistere in azioni pedagogiche come:

  • prendere coscienza dell’abuso dei media;
  • educare le nuove generazioni al controllo delle emozioni;
  • contrastare le troppo dilaganti forme di competizione;
  • contrastare l’insorgenza di tutte le forme di “bullismo”;
  • adottare metodi cooperativi, adatti a stimolare la solidarietà tra gli alunni;
  • esaltare nei progetti didattici i valori della conoscenza attraverso i vari campi del sapere
  • responsabilizzare all’uso dei metodi metacognitivi;
  • aiutare gli alunni a scoprire le forme della creatività umana e della bellezza.

Comunque, tutte le azioni che si realizzano in un contesto educativo dovrebbero avere lo scopo di avviare “l’educazione al rispetto”; dovrebbero costituire un buon viatico al contrasto di tutte le forme di violenza e una concreta antitesi all’imperante desiderio di possesso. Si può incominciare affrontando alcuni temi come riconoscere il punto di vista dell’altro (empatia); esaltare la libertà e autonomia per costruire sane relazioni; contrastare le “relazioni tossiche”. Sono azioni che, se pensate in maniera sistematica e strutturale, potrebbero produrre quel “cambiamento culturale” per convivere in una società democratica, come quella descritta dalla nostra Costituzione.


[1] Daniele Novara, Alle radici del rispetto, Avvenire del 21 novembre 2023.