«Quando continuo a leggere titoli tipo ‘Il pianista malato’, ci soffro: primo perché non sono un pianista; secondo, perché convivo con una malattia, non sono malato. Malato è chi scrive queste cose. Come quel signore che mi ha chiesto: qual è la relazione tra handicap e talento? Ho risposto che l’handicap è solo negli occhi di chi lo vede, il talento è talento, le persone sono persone, non sono migliori o peggiori perché sono sulla sedia a rotelle; contano l’esistenza, le emozioni, il vissuto. Quando i giornalisti si esprimono in questo modo, compiono un gesto autoritario, violento, non pensano alle conseguenze[1]».
Persona e personaggio
Così il musicista Ezio Bosso avvertiva l’esigenza di rivendicare la sua professionalità di direttore d’orchestra e la sua identità di uomo e lo faceva con lucidità e con frasi taglienti e nette, che arrivano diritte al dunque, senza eufemismi e giri di parole: «Vorrei semplicemente essere giudicato per l’intellettuale che sono con la bacchetta in mano, cioè un direttore d’orchestra. Mi chiamo Ezio e faccio musica. E sono un uomo fortunato. E questa è l’unica cosa che vorrei dover dire per parlare di me. Ricordate che sono una persona e non un personaggio. La parola personaggio la detesto. I personaggi sono nei fumetti. Io sono una persona e un musicista. (…). Per loro io sono e sempre rimarrò il “mongolino†al pianoforte che può fare audience se fa pena, se fa piangere. O quello che dice le frasi ad effetto buone a essere strumentalizzate per tutte le stagioni, anche per l’assoluto contrario di ciò che vogliono dire in realtà . Fa così la stampa, figuriamoci la tv. (…) Mi riempirebbero di soldi per fare il pianista disabile come vogliono loro. Non è quello in cui credo. E mi uccide più quello che vogliono farmi fare del male che ho dentro. Potevo prendermela comoda e fare il fenomeno. Dico più no che sì».
Accudire le parole per prendersi cura delle persone[2]
Questi scritti del maestro Ezio Bosso sono di una straordinaria efficacia e incisività per parlare del tema della convivenza con una disabilità . Se le parole non bastano a cambiare il mondo, a rompere barriere culturali e sociali e a renderlo più inclusivo, sono però assolutamente importanti e cruciali. La scelta delle parole non può certamente essere relegata soltanto a una mera questione terminologica, ma è da considerarsi anche, e soprattutto, atto di responsabilità e indicatore potente di sensibilità individuali e collettive. Con le parole si può ferire, offendere, stigmatizzare, discriminare, oppure si può, al contrario, contribuire a costruire e sviluppare una nuova sensibilità collettiva, a prendersi cura delle persone e dei loro diritti. L’uso di un linguaggio antidiscriminatorio, non pietistico, rispettoso e corretto è un’attenzione che vale in generale e che merita di essere ancor più vigile e accorta verso tutte le categorie cosiddette minoritarie, per identità di genere, orientamento sessuale e affettivo, disabilità , etnie, età , credo, e per tutti i gruppi che più sono esposti al rischio di discriminazione e marginalizzazione.
Non si può ignorare inoltre che c’è un gap tra il costante cambiamento della società , segnato da una evoluzione continua del dibattito scientifico e culturale, e la lingua, che impiega del tempo ad adeguarsi alle nuove sensibilità . Per questo è stata coniata l’espressione late speech, in riferimento al linguaggio attardato e alle conseguenze generate dal modo di comunicare di chi è rimasto indietro rispetto alla sensibilità linguistica, come afferma il prof. Giuseppe Antonelli, ordinario di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Pavia: «utilizzando parole attardate si finisce con ferire, escludere, discriminare. Bisogna accudire le parole per prendersi cura delle persone e dei loro diritti».
L’evoluzione semantica delle parole in uso
Per approfondire in particolare la storia della decadenza di alcune parole in uso per le diverse disabilità dal primo Dopoguerra a oggi, è interessante ripercorrere la ricca rassegna sociolinguistica[3] di Maria Antonietta Spanu, che indaga l’intento di trovare nel tempo formule non offensive, non stigmatizzanti e non medicalizzanti. Nei primi del Novecento alle parole in uso quali storpio, paralitico, mutilato, infermo, infelice si va sostituendo la parola invalido e a seguire, nel lessico della cultura fascista, il termine minorato, accantonato solo intorno agli anni Sessanta, quando comincia a prevalere l’uso di handicappato, dall’inglese handicap.
Anche la parola handicappato si carica ben presto nel linguaggio comune di una connotazione offensiva e dispregiativa e viene sostituita con portatore di handicap, a sua volta abbandonata per preferirle disabile, che non tarda a infastidire chi coglie in essa l’alterazione o la privazione che hanno a che fare con l’abilità . È quindi il turno di diversamente abile, con cui si vuole sottolineare la capacità di eccellere da parte di alcune persone disabili: ma ancora una volta a causa della possibile accezione negativa anche questa espressione finisce presto in panchina. Non scompare, però, e ancora la si ritrova su articoli di giornale, siti istituzionali e documenti delle pubbliche amministrazioni e di enti preposti alla presa in carico delle persone disabili.
Sull’uso della locuzione  diversamente abile, il professor Luigi D’Alonzo, ordinario di Pedagogia Speciale presso l’Università Cattolica di Milano, ribadisce in una lettera indirizzata alla Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia che «la dignità della persona si promuove anche attraverso il corretto utilizzo delle parole e contesta il perdurare in ambito scolastico dell’utilizzo della sigla DVA, a suo avviso molto lontana da quella cultura inclusiva di cui tutti dovremmo essere orgogliosi. L’uso di questo termine, oltre a non essere rispettoso della dignità delle persone, risulta improprio. Le persone con disabilità sono diverse e hanno abilità differenti come tutti; sono uomini e donne, ragazze e ragazzi, bambini e bambine che hanno dei deficit più o meno gravi più o più meno evidenti. L’allievo con disabilità , come recita la convenzione ONU, è persona con disabilità .
Scardinare i pregiudizi
Attualmente tutte le associazioni di categoria suggeriscono come preferibile l’espressione persone con disabilità , che viene usata per l’appunto dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell’Onu[4] e divenuta standard internazionale.
Non è perfetta, sostengono alcuni, ma almeno la disabilità non ingloba tutta la persona e ne è solo una caratteristica: «il rispetto delle regole nella comunicazione può contribuire a sradicare stereotipi e pregiudizi e a ridurre emozioni negative e distanzianti. Quindi può favorire l’inclusione e il benessere delle persone, se coniugata a adeguate politiche sociali».
Tre sono i principi essenziali per una comunicazione non discriminatoria, non pietistica e orientata a promuovere i diritti delle persone con disabilità , secondo il prof. Filippo Trevisan, esperto di linguaggio e comunicazione pubblica all’American University di Washington: la dignità , l’identità e la contestualizzazione appropriata del linguaggio. Ecco quindi le avvertenze per salvaguardare fino in fondo la dignità del soggetto e non puntare il riflettore sulla sua malattia: «non sostantivare l’aggettivo disabile, preferendo l’espressione persona con disabilità ; la sua condizione, se servisse indicarla, viene dopo; togliere, ove possibile, il “disâ€, che rimanda a un significato di negazione e privazione, perché ognuno è abile con la sua condizione, diversità e capacità . Offrire alle persone la possibilità di autodefinirsi e concentrarsi sulle loro abilità , affinché uomini e donne possano essere sempre visti come risorsa; non perdere mai di vista il fatto che è l’ambiente circostante, spesso privo di accessibilità , a accentuare la disabilità [5]».
Tappe verso l’inclusione: un percorso lungo oltre 50 anni
L’Italia può vantare un primato sul tema dell’inclusione. In oltre 50 anni si è svolto un percorso per tappe successive e con provvedimenti normativi di peso e spessore, che vale la pena di ripercorrere e riassumere brevemente. Nel panorama normativo italiano la fase dell’inserimento comincia negli anni Settanta, con il superamento delle classi speciali e degli istituti differenziali. La Legge 118 del 30 marzo 1971 sancisce con l’articolo 28 l’inserimento degli alunni con handicap nella scuola dell’obbligo e l’accesso alla scuola mediante il superamento delle barriere architettoniche che ne impediscono la frequenza, ad eccezione degli invalidi più gravi per forme di deficit intellettivo e menomazioni fisiche.
La ‘magna charta’ dell’integrazione
Questo primo passo verso l’inserimento viene completato nel 1975 con il cosiddetto “documento Falcucciâ€[6] della Commissione parlamentare sull’integrazione scolastica degli alunni handicappati (questo era il termine che si usava allora), ritenuto la magna charta dell’integrazione.
Il documento promuove il superamento di qualsiasi forma di emarginazione degli alunni con handicap attraverso un nuovo modo di concepire e di attuare la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino ed ogni adolescente per favorirne lo sviluppo personale, precisando peraltro che la frequenza di scuole comuni non implica il raggiungimento di mete culturali minime comuni. Orgogliosa, la senatrice Falcucci disse in un’intervista[7]: “Non ricordo nessuna battaglia campale. Certo era cominciata che gli handicappati in classe nessuno li voleva, c’erano molte resistenze. Il problema non era dentro il mondo della scuola, ma fuori: culturale, nelle famiglie. Però ci abbiamo lavorato molto, prima di fare la legge abbiamo preparato a lungo il terreno, quindi alla fine siamo riusciti a farla passare. Ci fu un clima positivo, anche nella fase attuativa, che poi ho vissuto direttamente, da ministroâ€.
La piena fase dell’integrazione
Questo documento viene recepito a livello legislativo dalla Legge 517 del 4 agosto 1977. Gli articoli 2 e 7 sono un vero punto di svolta decisivo per l’abolizione delle classi differenziali e delle scuole speciali e per l’introduzione della nuova figura dell’insegnante di sostegno per la scuola dell’obbligo. Con la Legge 104 del 5 febbraio 1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate si entra pienamente nella fase della integrazione, dall’asilo nido all’università , non esistono più eccezioni e a tutti viene riconosciuto il diritto a essere educati nelle classi comuni. Negli anni seguenti il concetto di persona handicappata si evolve da un presupposto biomedico verso una prospettiva biopsicosociale di classificazione individuale del funzionamento, che parte dalle potenzialità della persona e non riduce l’individuo alla sua mancanza.
Dall’integrazione all’inclusione
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità [8] del 2006 sancisce il diritto alla piena inclusione e raccomanda il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa. Negli anni Duemila si susseguono nel nostro Paese ulteriori interventi legislativi:
- la Legge 18 del 3 marzo 2009, che ratifica la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e istituisce l’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità ;
- le nuove Linee guida del MIUR (oggi MIM) del 4 agosto 2009, che ripercorrono le tappe degli interventi realizzati nella pratica operativa, allo scopo di fornire agli operatori scolastici una visione organica della materia che possa orientarne i comportamenti nella direzione di una più piena conformità ai principi dell’integrazione;
- la Legge 107 del 13 luglio 2015 e il Decreto legislativo 66 del 13 aprile 2017, che ridefiniscono molte delle procedure previste per gli alunni con disabilità , riformando non pochi aspetti della Legge n. 104/1992, a partire dal livello di inclusività del Piano triennale dell’offerta formativa delle scuole, ai percorsi per la personalizzazione e individualizzazione, alla rete territoriale per l’attuazione dei processi di inclusione, alle iniziative di formazione delle competenze professionali del personale. Diviene norma, inoltre, la compilazione del profilo di funzionamento, che va a sostituire la diagnosi funzionale.
L’inclusione è un processo, una strada che dobbiamo impegnarci a rinforzare, perché non resti uno slogan, una formula da usare nei discorsi politicamente corretti, una bandiera di cui appropriarsi, come ha ribadito anche Papa Francesco: Generare e sostenere comunità inclusive significa eliminare ogni discriminazione e soddisfare concretamente l’esigenza di ogni persona di sentirsi riconosciuta e di sentirsi parte. Non c’è inclusione se manca una conversione nelle pratiche della convivenza e delle relazioni.
[1] E. Bosso, Faccio musica. Scritti e pensieri sparsi, Piemme, 2021.
[2] Cfr. R. Bramante, Non disabili, ma persone. La cura delle parole, in “Education 2.0â€, 24 novembre 2021.
[3] M.A. Spanu, La disabilità e le parole cancellate, in “Percorsi di Analisi Transazionaleâ€, vol. VIII, n. 1, gennaio 2021.
[4] Documento: “La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità â€.
[5] F. Trevisan, Disability Rights Advocacy on line, Routledge, 2018.
[6] Cfr. L. Rondanini, Cinquant’anni fa… l’inizio dell’inclusione. Dalla relazione Falcucci alla cattedra inclusiva, in Scuola7-412, 6 gennaio 2025.
[7] Franca Falcucci: «Così aprimmo la scuola a tutti».
[8] Documento: “La convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità â€.