L’inclusione parte dal linguaggio

Dall’Empaty Museum di Londra alle esperienze danesi

Attraverso le parole costruiamo la realtà intorno a noi e diamo anche forma al nostro mondo interiore; le parole ci rappresentano, dicono chi siamo, ci consentono di connetterci e di entrare in sintonia con gli altri.

Con tutti gli altri, anche coloro che si trovano a vivere in una condizione diversa da quella che vive la maggioranza. Le persone sono diverse e hanno esigenze differenti rispetto a quello che è considerato “normale”, ovvero quello che accomuna la maggioranza.

Alla domanda “Siamo tutti uguali?”, la risposta non può che essere affermativa, perché siamo tutte persone, ciascuna con i propri bisogni e i propri vissuti.

Siamo tutti diversi?

Ma se ci chiediamo “Siamo tutti diversi?”, la risposta è ancora “Sì’”, perché ognuno di noi è diverso dall’altro. Senza per questo che uno sia superiore o inferiore ad un altro.

La diversità è una cifra che accomuna l’umanità, è una ricchezza e non un disvalore. La vera uguaglianza può avvenire esclusivamente attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze e delle caratteristiche uniche di ciascun individuo.

Ogni minoranza ha il diritto di avere visibilità sociale e voce attraverso un linguaggio rispettoso delle diversità, equo e inclusivo: per questo è necessario l’impegno a bandire il linguaggio obsoleto e pieno di stereotipi, a smascherare tutte le parole che possono contenere un pregiudizio e a scardinare le credenze false.

Questa è un’urgenza e un dovere dell’etica civile, in un momento in cui viviamo immersi, più o meno consapevolmente, negli slogan di un lessico degradato nei contenuti e basso nel registro linguistico, che scivola non di rado nell’insulto e nel turpiloquio, in un clima comunicativo tossico per la qualità della vita democratica, caratterizzato da nuove torsioni del linguaggio prodotte dall’avanzata populista[1].

Di qui la necessità di presidiare e di aumentare il livello di attenzione e consapevolezza nell’uso del linguaggio, prendendo coscienza delle conseguenze che le parole hanno sulla visione della diversità e contribuendo così anche ad arrestare lo smottamento della qualità della vita democratica.

Un uso etico e non discriminatorio delle parole non può che farsi carico di tutte le sfumature della diversità: non solo l’identità di genere e l’orientamento sessuale, ma anche la religione, l’etnia, la diversa abilità, l’estrazione sociale, l’età anagrafica.

Linguaggio ampio per il rispetto delle diversità

Il linguaggio che riesce ad abbracciare ogni diversità può essere definito con più precisione “ampio”[2] e non “inclusivo”, come più frequentemente finora è stato qualificato: ampliare l’orizzonte linguistico, escludendo l’uso di alcune parole e introducendone altre, significa anche ampliare e ridefinire il proprio orizzonte culturale.

Come afferma la sociolinguista Vera Gheno, riprendendo gli studi di Fabrizio Acanfora[3], “inclusività” e “inclusione” non sono infatti le parole migliori da usare, in quanto alludono a un processo che mantiene dinamiche di potere sbilanciate e discriminatorie: chi include e chi viene incluso? Il vero limite concettuale è il fatto che rimanga una differenza tra “normale” e “diverso”.

Meglio senz’altro parlare di convivenza delle differenze, e non con le differenze, di convivenza delle varietà. Questo cambio di prospettiva invita innanzitutto a riconsiderare l’idea di normalità come dato statistico e non valoriale, scardinando la presunzione che esista un “consesso dei giusti”, capace di accogliere paternalisticamente i “diversi.”

Pensare la differenza come normalità, riformulare il concetto di inclusione, mettendo al centro la persona, e affrontare le criticità strutturali di un sistema basato sulla disuguaglianza sono le reali questioni su cui tutti siamo invitati a riflettere.

Si tratta, in altri termini, di usare con un po’ di impegno la lingua in maniera meno discriminatoria, di scegliere per l’appunto un linguaggio ampio, che sappia tener conto preventivamente di ogni caratteristica umana che possa portare a una discriminazione.

Abbiamo infiniti modi di dire la stessa cosa e dunque possiamo scegliere quale lessico usare. Cosa c’è di più bello, più sfidante, del cercare la combinazione di parole che possa funzionare in ogni circostanza nel migliore dei modi e che salvaguardi, soprattutto, il diritto al benessere psicofisico di tutti e di ciascuno?

Nelle scarpe degli altri: a scuola di empatia[4]

Una buona road map per ogni comunità educativa ha il dovere oggi di non trascurare il ruolo di sentinella sociale, palestra di apprendistato sociale e prosocialità, e di insegnare la condizione umana, assicurando e valorizzando la diversità. La scuola non deve rinunciare al suo ruolo di bussola e ancora etica e deve attivarsi con l’obiettivo di sviluppare l’etica della solidarietà e della comprensione in funzione di un vero umanesimo[5].

Empatia, arte e bellezza come cura: anche il World Happiness Report[6], rapporto annuale sulla felicità commissionato dalle Nazioni Unite e pubblicato dall’Earth Institute della Columbia University conferma che lo stile di vita e di relazione è determinante per il benessere dell’umanità. Sviluppare l’empatia significa in primo luogo predisporsi a lavorare su sé stessi. In quanto capirsi e accettarsi è il primo passo per capire meglio gli altri. E come per ogni cosa, prima si inizia, più facile sarà farla propria, conquistando autostima, curiosità e interesse profondo per chi ci sta vicino, capacità di ascolto e di osservazione, arte della conversazione per la costruzione di relazioni positive, ricorso alla capacità di comprensione per guidare le proprie azioni, superamento di ogni pregiudizio, parlando delle cose che contano davvero nella vita, come l’amore, la pace, la serenità, la famiglia, la morte, insomma i valori e i temi esistenziali più profondi. Alla ricerca dell’arte di vivere, sfuggendo sin da piccoli all’impasse relazionale, nella consapevolezza che l’identità si costruisce soltanto nella relazione con gli altri[7].

Non è azzardato, quindi, affermare che l’empatia permette una visione sociale capace di cambiare la prospettiva della visione del mondo e dei comportamenti delle persone.

Il “Fondo Tullio De Mauro” ha intrapreso un ciclo di incontri dedicato al potere delle parole, con l’obiettivo di costruire un dizionario che si prende cura delle parole per una significativa ri-definizione. Allo scrittore Nicola Brunialti è stata affidata la parola empatia[8]: si può ascoltare in rete il suo intervento.

Il modello dell’Empaty Museum di Londra

Il modello dell’Empaty Museum[9] di Londra, che ha aperto i battenti qualche anno or sono, ha catalizzato l’attenzione internazionale invitando a guardare il mondo con gli occhi degli altri: “Prima di giudicare qualcuno prova a camminare un miglio con le sue scarpe”. Questo museo è una sorta di empathyshoe shop, uno spazio dove letteralmente provare a camminare almeno per un miglio con i mocassini di un altro: oltre alle scarpe, si riceve un auricolare per ascoltare la storia di vita del proprietario di quelle scarpe, un migrante, un rifugiato, un senzatetto o una vittima di violenza. Centinaia di storie. L’Empaty Museum ha conquistato una sua popolarità negli ultimi anni, perché le persone sono alla ricerca di modi nuovi e creativi per costruire tolleranza e rispetto, superando le divisioni sociali del nostro tempo.

Il progetto si ispira al pensiero dello scrittore e filosofo australiano Roman Krnaric, secondo il quale soltanto pochi usano il proprio potenziale empatico, dote che può migliorare non solo la vita dei singoli, ma anche l’intera società. L’empatia, infatti, non è soltanto un dono naturale, una capacità insita nel DNA umano, come attestano le ricerche nel campo delle neuroscienze sociali, ma una competenza da allenare e apprendere[10].

Diffondere la cultura dell’empatia

Esperti e studiosi di diversa formazione, filosofi, psicoanalisti, storici dell’arte, sono sempre più convinti della necessità di diffondere la cultura dell’empatia, della tolleranza e del rispetto, contro un individualismo crescente e fuorviante. Un messaggio concreto di incoraggiamento dell’etica del dialogo, dell’incontro e dell’inclusione, in una società globale affetta da un deficit di empatia e un conseguente bisogno che ciascuno si alleni a mettersi nei panni e a guardare il mondo con gli occhi degli altri.

La convinzione è che non basta parlare di benessere e di empatia, ma che bisogna creare occasioni laboratoriali dove allenare e far crescere, a partire dai più piccoli, l’attenzione e il rispetto per gli altri, ascoltare i sentimenti altrui, comprenderli e condividerli, senza pregiudizi. Ritenere di non avere pregiudizi è infatti il più comune dei pregiudizi, come afferma lo scrittore e filosofo colombiano Nicolas Gomez Davila.

Per dirla con le parole del Manifesto di Edgar Morin per cambiare l’educazione, la scuola deve insegnare a vivere, ovvero deve fornire mezzi e strumenti per affrontare l’incertezza, l’illusione, l’errore e la parzialità del proprio punto di vista, per conoscere e favorire autonomia e libertà della mente e per riconoscere le qualità proprie e degli altri. La comunicazione deve essere orientata effettivamente alla comprensione reciproca e all’etica del dialogo[11].

L’esperienza danese

La pedagogia dell’empatia è un must della scuola danese, dove viene insegnata dai primi anni Novanta per un’ora alla settimana a bambini e ragazzi dai 6 ai 16 anni: la klassenstid è l’ora di classe, espressione che si può tradurre come ‘ora di empatia’, una materia come la matematica o la geografia, ma senza un programma stabilito. Uno spazio in cui ai giovani studenti è proposto di parlare dei propri problemi individuali e di gruppo, incoraggiandoli a esprimere emozioni e sentimenti, favorendo l’ascolto reciproco e cercando di far emergere un comune senso di solidarietà. Durante queste lezioni guidate da un insegnante coach si ricerca una particolare atmosfera, chiamata hygge, che si qualifica e distingue per alcune caratteristiche di benessere collettivo e che si può sperimentare quando si è in pace con sé stessi e con gli altri, disponibili a guardarsi negli occhi e a comprendersi, anche nella propria fragilità.

Esperienze analoghe sono sperimentate e documentate da tempo anche nella scuola italiana, dalle ore di educazione all’affettività a cura di insegnanti affiancati da psicopedagogisti, alle sessioni di coaching, a quelle di Filosofia per i Bambini[12] e Filosofia con i Bambini[13], all’agorà del progetto “Edumana”[14], al progetto “Mediando” per la mediazione dei conflitti[15], ai circle time di “ParoleO_stili”[16],per enumerarne alcune.

Sono buone pratiche di formazione da disseminare per perseguire l’obiettivo prioritario e urgente dell’educazione al rispetto dell’altro, per combattere pratiche e linguaggi negativi, superare fraintendimenti e riparare conflitti sia nella comunità reale che nelle community online, valorizzando gli aspetti creativi e positivi del dialogo. In estrema sintesi, per una buona socialità.


[1] G. Carofiglio, La nuova manomissione delle parole, Feltrinelli, 2021.

[2] Cfr. “POST”, Dal linguaggio inclusivo al linguaggio ampio.

[3] F. Acanfora, Eccentrico. L’autismo in un saggio autobiografico, effequ, 2018; In altre parole, dizionario minimo di diversità, effequ, 2021; Di pari passo. Il lavoro oltre l’idea di inclusione, Louis University Press, 2022.

[4] Cfr. “Education 2.0”.

[5] E. Morin, Sette lezioni sul pensiero globale, Raffaello Cortina, 2016.

[6] Rapporto mondiale sulla felicità 2024. Nelle sette età dell’uomo in “Come vi piace di Shakespeare”, le fasi successive della vita sono descritte come profondamente deprimenti. Ma la ricerca sulla felicità mostra un quadro più sfumato, che sta cambiando nel tempo. Nel Rapporto sono riportate le ultime scoperte sulla felicità dei giovani, degli anziani e di tutte le altre età.

[7] M. Augé, Cuori allo schermo. Vincere la solitudine dell’uomo digitale, Piemme, 2018.

[8] Il Potere delle Parole: Nicola Brunialti – Empatia. Il Potere delle Parole è l’appuntamento mensile di confronto, discussione e riflessione sul significato delle parole e sul loro potere che trae ispirazione dall’opera di Tullio de Mauro e che mira a comporre un Dizionario che cura le parole. Il 23 Febbraio 2020 il Fondo Tullio De Mauro ha ospitato Nicola Brunialti che si è preso cura della parola “Empatia”.

[9] Empathy Museum è una serie di progetti artistici partecipativi che mirano ad aiutarci a guardare il mondo attraverso gli occhi degli altri. Concentrandosi sulla narrazione e sul dialogo, il museo (itinerante) esplora come l’empatia possa non solo trasformare le relazioni personali, ma anche aiutare ad affrontare sfide globali come pregiudizi, conflitti e disuguaglianze.

[10] R. Krnaric, Empatia. Perché è importante e come metterla in pratica, Armando Editore, 2019.

[11] E. Morin, Insegnare a vivere. Raffaello Cortina Editore, 2015.

[12] Associazione CRIF. Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica.

[13] Filosofia con i bambini. Laboratorio di filosofia con i bambini della sciola d’infanzia, primaria e media e formazione degli adulti.

[14] ED.UMA.NA. Educare ad essere umani

[15] Mediando, Conflitto ascolto confronto.

[16] Parole O stili. Il diritto di contare.