Per le bambine e i bambini con disabilità e le loro famiglie, il 1975 è una data che segna un netto spartiacque tra un prima e un dopo. Nella primavera di quell’anno, infatti, fu diffuso un documento, frutto di un apposito gruppo di lavoro nominato nel 1974 dal Ministro della PI, Franco Maria Malfatti, presieduto dalla senatrice democristiana Franca Falcucci.
La Relazione Falcucci ha segnato “l’inizio della fine” dell’esclusione delle persone “portatrici di handicap” e inaugurato una stagione completamente inedita a livello mondiale, quella dell’inserimento e dell’integrazione nelle classi ordinarie dei bambini con disabilità.
Da allora sono trascorsi cinquant’anni e l’Italia ha fatto un lungo cammino. Rileggere oggi quel documento ci aiuta a riannodare i fili di una memoria estremamente utile per capire meglio il presente e pensare ad un futuro più attento ai cambiamenti che occorre attivare per le persone che vivono in condizioni di fragilità.
La Relazione Falcucci
La Relazione Falcucci può essere considerata la Magna Charta dell’integrazione scolastica del nostro Paese. II messaggio fondamentale in essa contenuto, ben espresso nella Premessa, è racchiuso nell’affermazione, secondo la quale “i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi infatti esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate dagli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costume sociale”.
Questo principio educativo può essere considerato il manifesto di un “nuovo modo di essere della scuola” che, non a caso, è il titolo del primo paragrafo della Relazione.
In altre parole, tale assunto si traduce specularmente nel messaggio che l’integrazione scolastica, che stava muovendo i primi timidi passi, introduceva innovazioni significative a favore di tutti gli alunni, non solo dei bambini in difficoltà.
Una nuova concezione dell’apprendimento
Il rapporto tra inclusione scolastica ed estensione del concetto di apprendimento è centrale nella Relazione del 1975, nella quale, a tal proposito, si dice: “Fondamentale è l’affermazione di un più articolato concetto di apprendimento, che valorizzi tutte le forme espressive attraverso le quali l’alunno realizza e sviluppa tutte le sue potenzialità”.
Tale assunto si sostanzia in un arricchimento complessivo delle strategie educativo-didattiche che devono coincidere con “l’ingresso di nuovi linguaggi” e con la valorizzazione di varie forme di intelligenza. In questo modo, ad ogni alunno verrà assicurata l’opportunità di sviluppare “le proprie potenzialità, sino ad ora lasciate prevalentemente in ombra”.
I vantaggi reciproci della coeducazione fra gli alunni con disabilità e gli altri compagni comportano un impegno preciso: l’integrazione deve avvenire nella ricerca della qualità complessiva nell’organizzazione del gruppo classe. La presenza dell’alunno in situazione di handicap, si sottolinea nella Relazione, “deve essere una occasione ulteriore per la qualificazione degli obiettivi formativi per tutta la classe”.
Un nuovo modello di scuola
Per quanto concerne il modello ordinamentale di una scuola inclusiva, il Documento suggeriva di privilegiare una organizzazione scolastica a “tempo pieno”. Le argomentazioni di fondo di tale scelta conservano intatta la loro attualità. Infatti, rispetto ad un orario schiacciato solo in un periodo antimeridiano, il tempo pieno offre le condizioni di una permanenza a scuola più distesa, assicurando maggiori opportunità e occasioni di attività, esperienze e apprendimenti.
Nel 1975 in Italia la scuola full time stava muovendo i primi passi (la legge istitutiva del tempo pieno è del 24 settembre 1971, n. 820) e gli estensori di quella Relazione videro in questo modello una preziosa risorsa proprio per gli alunni che risultavano più a rischio di fragilità e vulnerabilità culturale, sociale ed educativa.
Don Lorenzo Milani lo aveva capito fin dagli anni Cinquanta quando a Barbiana diede vita alla sua scuola, che durava dalla mattina alla sera per 365 giorni all’anno. In Lettera a una professoressa (1967) i ragazzi del Priore propongono tre riforme:
- Non bocciare.
- A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno.
- Agli svogliati basta dargli uno scopo.
Molto interessante l’espressione “a quelli che sembrano cretini”. I ragazzi di Barbiana usano il verbo sembrare e non essere, perché tutti, anche quelli apparentemente più sprovveduti, se accompagnati in modo adeguato in un percorso di studio, possono dimostrare il loro valore.
Il tempo della convivialità
Allora come oggi, il tempo pieno crea le condizioni di una prossimità che difficilmente può realizzarsi in una scuola nella quale, in un lasso di tempo cronometrato, gli insegnanti entrano ed escono dall’aula al suono della campanella. Don Milani, nel sostenere le ragioni del superamento della scuola tradizionale, affermava: “La parola tempo pieno vi fa paura… Finora avete fatto scuola con l’ossessione della campanella, con l’incubo del programma da finire prima di giugno. Non avete potuto allargare la visuale, rispondere alle curiosità dei ragazzi, portare i discorsi fino in fondo”.
I tempi delle routine nel tempo pieno sono fondamentali e molteplici i vantaggi che ne derivano: ad esempio conversazioni spontanee, gioco libero, riposo, importanza dell’igiene personale. Si pensi alla ricchezza del momento del pranzo comune!
“Stare insieme e star bene insieme” sono traguardi formativi che ogni scuola deve perseguire. Nel tempo pieno, durante la consumazione del pasto comunitario, con la regìa di insegnanti attenti all’importanza della cura educativa, tutto ciò avviene. Inoltre, gli alunni hanno la possibilità di conoscere altre figure di grande valenza educativa, quali i collaboratori, il personale di cucina, la cuoca. Il momento del pranzo viene così a coincidere con un tempo ri-creativo, di sviluppo delle cosiddette competenze non-cognitive, sociali, relazionali, fondamentali per sentirsi in armonia con sé stessi e con gli altri. In particolare, il tempo pieno, se garantito ai minori più svantaggiati, può contribuire a ridurre le disuguaglianze e la stessa dispersione scolastica.
Il “vizio” originale
Una scuola realmente inclusiva deve assicurare l’unità degli interventi educativo-didattici da parte di insegnanti della classe. È questo il filo rosso della Relazione Falcucci, in cui, già cinquant’anni fa, si sottolineava l’importanza di “separare il meno possibile le iniziative di recupero o di sostegno dalla normale attività scolastica, in modo da non legare i vantaggi dell’intervento individualizzato agli svantaggi della separazione dal gruppo più stimolante degli alunni normali“.
Parole che risuonano molto attuali anche oggi. Si tratta di un passaggio cruciale che la legge 517/1977 ha in parte tradito. Infatti, l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi normali, come indicato nell’articolo 2, è stato legato alla presenza degli insegnanti specializzati. Di fatto, si è così creata l’accoppiata “insegnante di sostegno-alunno con disabilità” che ancora oggi risulta particolarmente difficile superare.
Per la verità, l’art. 2 della legge è molto più articolato; in esso infatti, si prevede la possibilità di aprire le classi, realizzare attività integrative, formare gruppi… Però, nelle prassi quotidiane è prevalsa la logica della “copertura oraria”, che rimane tuttora il mantra dell’inclusione.
Il rischio di una integrazione “a metà”, in presenza di un insegnante “guardiano”, viene frequentemente sottolineato nella Relazione del 1975. Si evidenziavano, in particolare, le problematicità della coeducazione tra bambini con disabilità e alunni “normodotati” e in diversi passaggi del Documento si chiede ai docenti “di tradurre, in termini di azione scolastica valida per tutti, l’esigenza di far operare gli alunni in difficoltà con gli altri…”.
Che cosa è mancato e cosa manca ancora
Anche se non voluto, si è affermato sin dall’inizio un “sistema inclusivo duale”, che è dipeso, in larga misura, dalla mancata formazione obbligatoria di tutti i docenti, curricolari e di sostegno. Considerato il numero esiguo di bambini inseriti, si sarebbero potuti coinvolgere, per la durata di un quinquennio, i docenti delle classi prime della scuola dell’obbligo, in modo da formare, in un tempo relativamente breve, l’intera platea degli organici dei due gradi scolastici.
L’operazione della formazione obbligatoria, invece, fu realizzata, solo per maestre e maestri della scuola elementare, nel quinquennio 1986-1991, nell’applicazione dei Programmi didattici del 1985.
La corresponsabilità educativa degli insegnanti di una classe, intesa come “gruppo integrato di risorse”, ieri come oggi, non avviene per magia. Occorrono consapevolezza educativa, capacità organizzative, elevate competenze didattiche (anche tecniche), che siano in grado di alimentare una costante tensione verso quella cura educativa senza la quale si rischia di inserire formalmente gli alunni con disabilità, ma di escluderli realmente dalla vita di tutti gli altri. Ancora oggi paghiamo a caro prezzo il deficit di preparazione dei docenti, che ci trasciniamo da quasi mezzo secolo.
La cattedra inclusiva
Negli ultimi anni la richiesta di docenti di sostegno è cresciuta in modo esponenziale. Secondo i dati diffusi dal MIM nel settembre scorso, nell’anno scolastico 2024-2025 sono oltre 205.000 i posti di sostegno, a fronte di circa 330-335.000 alunni con disabilità. La causa principale è l’aumento della “medicalizzazione” della disabilità con conseguente incremento delle certificazioni. A ciò si aggiunga il fenomeno del massivo trasferimento su posto comune degli insegnanti specializzati, dopo i cinque anni obbligatori di permanenza nel sostegno. Misura incomprensibile, alla luce proprio della costante crescita degli studenti con disabilità.
La recente proposta di legge “Introduzione della cattedra inclusiva nelle scuole di ogni ordine e grado” intende valorizzare la centralità di una formazione sistematica degli insegnanti in vista del superamento della delega all’insegnante di sostegno della progettazione e realizzazione degli interventi previsti nel PEI. Il progetto è stato redatto da un gruppo di esperti dell’inclusione (Dario Ianes, Raffaele Iosa, Evelina Chiocca, Massimo Nutini …) e presentato al convegno Erickson a Rimini nel novembre del 2023.
Nel testo si afferma che “a decorrere dal sesto anno scolastico successivo all’entrata in vigore della legge, nelle scuole di ogni ordine e grado tutti i docenti incaricati sui posti comuni effettuano una parte del loro orario con incarico su posto di sostegno, mentre tutti i docenti con incarico su posto di sostegno effettuano, anche nell’ambito dell’ampliamento dell’offerta formativa dell’istituto, una parte del loro orario su posto comune”[1].
La proposta va nella direzione auspicata dalla Relazione Falcucci: “inclusione nella normalità”, in una normalità che deve diventare speciale, nel senso della ricerca di strategie differenziate di fare scuola, della valorizzazione dei diversi stili di insegnamento e di una ricca organizzazione didattica della vita di classe[2].
[1] D. Ianes, H. Demo, Specialità e normalità? Affrontare il dilemma per una scuola equa e inclusiva per tuttə.
[2] D. Ianes, La speciale normalità. Strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i bisogni educativi, Erickson,Trento, 2006.