Abbattere i divari territoriali, a partire dai più piccoli

Una strada ancora tutta in salita

Il D.M. n. 19 del febbraio 2024 ha destinato 790 milioni di euro complessivi per garantire la riduzione dei divari territoriali negli apprendimenti e per contrastare la dispersione scolastica. Le risorse dovrebbero consentire la realizzazione di interventi di tutoraggio e di percorsi formativi per gli studenti a rischio di abbandono scolastico e per gli stessi giovani che hanno, purtroppo, già abbandonato la scuola[1].

Azioni preventive a partire dallo 0-3

Il target, nell’enunciazione, è ispirato al principio del life long learning, nella concretezza attuativa restringe, però, il campo agli studenti della secondaria di primo e secondo grado, in particolare a quelli che mostrano segni di cedimento e di demotivazione nell’apprendimento o che peggio ancora sono a rischio dispersione. È questa una criticità non da poco se si pensa che dimenticando gli studenti più piccoli si rinuncia ad azioni preventive che, come sappiamo, possono costituire la misura più efficace per limitare la dispersione.

Va considerato anche che con la linea di investimento 4C1-investimento 1.1 del PNRR è stato assunto l’impegno di aumentare l’offerta educativa nella fascia 0-6 su tutto il territorio nazionale, attraverso la costruzione di nuovi asili nido e nuove scuole dell’infanzia o la messa in sicurezza di quelli esistenti, in modo da migliorare la qualità del servizio, facilitare le famiglie, soprattutto, il lavoro femminile, incrementare il tasso di natalità.

Per colmare il divario oggi esistente sia per la fascia 0-3 sia per la fascia 3-6 anni è necessario innanzitutto riconoscere a bambine e bambini il diritto all’educazione fin dalla nascita e garantire contestualmente un percorso educativo unitario e adeguato alle caratteristiche e ai bisogni formativi di quella fascia d’età, anche grazie a spazi e ambienti di apprendimento innovativi.

Le risorse da sole non bastano

Tutto l’impianto volto alla lotta alla dispersione poggia su significative risorse destinate agli Enti locali per la costruzione di strutture ed edifici innovativi sia per accogliere i più piccoli, sia per recuperare gli studenti, già grandi, a rischio dispersione.

Entrambe le misure presentano tuttavia molte incertezze: per la fascia di età 0-3 si rischia di costruire cattedrali nel deserto senza pensare ad investimenti specifici sia per la formazione e la stabilizzazione di specifici profili professionali, sia per favorire l’ingresso dei bimbi provenienti soprattutto da famiglie meno abbienti; per la scuola secondaria si rischia di intervenire troppo tardi per affrontare il problema delle devianze educative.

Senza considerare che soltanto i Comuni virtuosi hanno messo in cantiere strutture innovative e attrattive, marcando un divario ancor più netto dagli Enti locali refrattari, digiuni di cultura dell’infanzia, humus ideale per il dilagare della povertà educativa.

Povertà educativa: problema attuale, radici lontane

Sebbene il concetto di povertà educativa sia relativamente recente, il lavoro pionieristico di un educatore come Don Lorenzo Milani ci dimostra che le radici di questo problema affondano nel passato. Le sue preziose intuizioni e strategie pedagogiche continuano a offrire un contributo significativo nella lotta contro la povertà educativa, fornendo ispirazione e spunti per affrontare questa sfida ancora oggi attuale. Con il suo approccio critico, è stato sicuramente promotore di un metodo radicale focalizzato sull’uguaglianza del campo educativo. Il suo obiettivo era “far scoprire ai giovani le gioie intrinseche della cultura e del pensiero”, cercando di offrire un’educazione significativa anche in un ambiente svantaggiato[2].

Un decennio fa (2014), Save the Children nel rapporto “La lampada di Aladino”[3] ha analizzato lo status della povertà minorile non solo in termini di reddito, ma anche di sviluppo culturale, sociale ed emotivo, in particolare come privazione delle possibilità educative a scuola, in famiglia e nella “comunità educante”. Tale rapporto ha fornito una prima ricognizione del fenomeno in Italia con l’aiuto di un apposito Indice di Povertà Educativa (IPE)[4] che pone ai primi posti nella scala delle aree da monitorare i seguenti indicatori:

  • bambini tra 0 e 2 anni senza accesso ai servizi pubblici educativi per la prima infanzia;
  • classi della scuola primaria senza tempo pieno;
  • classi della scuola secondaria di primo grado senza tempo pieno;
  • alunni che non usufruiscono del servizio mensa.

Vivere in una famiglia povera e in contesti privi di opportunità di sviluppo, per molti bambini significa portare fin dai primi anni il peso di una grave discriminazione rispetto ai coetanei. Come un circolo vizioso, la povertà educativa alimenta quella economica e viceversa; si trasmette da generazione a generazione ma non è, e non deve essere, un destino ineluttabile. Un’offerta educativa olistica, integrata e di qualità, deve invece mirare a sostenere i minori dai primi passi all’adolescenza allo scopo di attivare percorsi di resilienza tra quei bambini e adolescenti “più a rischio” di esclusione.

Un obiettivo-manifesto

Conoscere e riconoscere l’infanzia: un faro possibile per tutto il Paese?” è il titolo del Convegno promosso dalla Regione Toscana a Firenze nei giorni 28-30 Novembre 2024. “Alimentare la consapevolezza ancora fragile del fatto che le politiche per l’infanzia devono rivolgersi a tutte le bambine e a tutti i bambini dalla nascita”[5] è l’obiettivo posto dalla Regione Toscana nel manifesto reso noto a conclusione dei lavori che ha coinvolto una significativa e qualificata rappresentanza del mondo della scuola e della Università.

Se guardiamo al secolo scorso e alla legge istitutiva della scuola materna statale (legge 444 del 18 marzo 1968) sono passati più di 50 anni. Nelle intenzioni dei decisori politici del tempo, con la legge istitutiva, l’allora scuola materna sarebbe dovuta diventaresolo dello Stato e rivolta a tutta la popolazione infantile. Quindi si immaginava una generalizzazione dell’accesso da parte di tutti i bambini dai 3 ai 5. Non è stato così. In effetti nei primi decenni che hanno seguito la legge c’è stato un incremento continuo. Negli anni Ottanta l’espansione della spesa pubblica ha fatto aumentare il numero delle sezioni fino a 3.000 ogni anno scolastico.  Ora c’è un decremento verticale proprio per la diminuzione dell’utenza stessa. Ma si guarda comunque positivamente al consolidamento della scuola dell’infanzia con un progressivo miglioramento degli standard di funzionamento, come per esempio la riduzione del numero di alunni per sezione e la presenza del doppio docente.

Un servizio a domanda individuale o ad interesse pubblico?

Molto più incerta e frastagliata è la dimensione dei servizi destinati ai bambini da 0 a 3 anni di vita: l’attuazione della legge 1044 del 1971 (Piano quinquennale per l’istituzione di asili nido comunali con il concorso dello Stato), dopo oltre mezzo secolo della sua istituzione, ha ritardi tali da fare registrare, in alcuni territori del Sud e delle Isole, una percentuale inferiore al 10% quale copertura di servizi per bambini da 0 a 2 anni, mentre le percentuali nell’area Cento-Nord dell’Italia sono molto più alte.

Il decentramento amministrativo verso le Regioni e i Comuni della competenza dei servizi educativi per la prima infanzia fa emergere ancor di più la forte diversità delle sensibilità e delle competenze presenti nelle diverse aree del Paese. La conseguenza è la diffusione disomogenea di contesti stimolanti e strutturati di crescita per i più piccoli. La carenza di risorse e di attenzione in alcune aree geografiche alimenta altresì quella visione distorta di considerare i servizi per la prima infanzia “a domanda individuale” con previsione di rette a carico delle famiglie piuttosto che come servizio di interesse pubblico: inevitabile l’aggravio dei divari territoriali e culturali.

Le sezioni primavera “statali”: punti luce?

L’insieme dei servizi educativi 0-3 anni vede la titolarità esclusiva delle Regioni, pur con gli adattamenti da apportare a seguito del D.lgs. 65/2017 che esplicitamente affidano allo Stato compiti di “indirizzo, direzione, monitoraggio” del sistema integrato, pur in una visione di governance a diversi livelli.

In questo quadro, la sezione primavera – pur ricompresa anche dal D.lgs. 65/2017 tra le varie tipologie di servizi educativi per bambini al di sotto dei tre anni – assume una sua specifica configurazione, perché maggiormente proiettata verso la continuità con la scuola dell’infanzia. In tal senso, senza essere concorrenziale con il nido, la sezione primavera è a pieno titolo all’interno della cultura pedagogica dello 0-6 e ne rappresenta una possibile forma attuativa ad ampio raggio se, però, supportata da specifiche misure di sostegno economico oltre che formativo e gestionale.

Sezione primavera, “anticipatari” e azione di surroga

La gestione “statale” si legittima in questa prospettiva di continuità e di asse longitudinale 2-5 anni, ma occorre migliorare il piano di riparto pluriennale con una clausola di salvaguardia finanziaria per il sostegno di tutte le sezioni primavera, e aumentare il quadro attuale dei finanziamenti dedicati con un fondo specifico proprio per la stabilizzazione delle sezioni primavera statali.

Se si avviasse un monitoraggio delle sezioni primavera attualmente funzionanti, con i dati sulle loro caratteristiche e tipologie di gestione, emergerebbe sicuramente un panorama molto diversificato dell’impianto organizzativo. Anche se la specificità dei contesti culturali e sociali metterebbe in evidenza situazioni e modelli diversi, sicuramente farebbe però anche emergere una matrice comune: la sezione primavera costituisce un argine potente per frenare il fenomeno degli “anticipatari”.

È innegabile che, in molte aree del meridione, la sezione primavera surroga la carenza dei nidi e di offerte di accoglienza per i bimbi più piccoli di qualità. Ma non dobbiamo dimenticare che la mancanza di risorse economiche statali a supporto dei costi di gestione dei nidi, anche nelle regioni virtuose, che possono vantare una radicata cultura dell’infanzia, produce l’effetto di rendere l’accesso al nido discriminante per via dei costi considerevoli. Il danno è sempre per quella fascia di popolazione minorile che maggiormente avrebbe bisogno di trovare accoglienza precoce in contesti stimolanti.

I diritti dell’infanzia

Il D.lgs. 65/2017 è una legge dello Stato e stabilisce che il primo segmento del sistema nazionale di educazione e di istruzione è lo 0-6. Persiste tuttavia una differenza notevole tra l’idea consolidata che la frequenza alla scuola dell’infanzia sia un diritto all’educazione del bambino (come ben descritto nella premessa alle Indicazioni nazionali per il curricolo) e l’idea che tale diritto debba essere ricondotto esclusivamente al rango di servizio per le famiglie. La carenza di orientamenti condivisi e la persistente la storia sociale e istituzionale dei nidi in Italia rende difficile la prospettiva di una programmazione integrata.

È auspicabile tuttavia che alcune misure del PNRR siano maggiormente mirate al sistema integrato 0-6 ivi comprese le sezioni primavera. Potrebbero nascere, per esempio, tante sezioni primavera quanti sono gli istituti comprensivi del Paese. Sarebbe un piccolo passo avanti concreto per la diffusione omogenea della cultura dell’infanzia.


[1] La Misura del finanziamento rientra nel PNRR, Missione 4 (Istruzione e Ricerca), Componente 1 (Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido all’Università), Investimento 1.4 (Intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado e alla lotta alla dispersione scolastica).

[2] Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, 1967, p. 128.

[3] La lampada di Aladino. L’indice di Save the Children per misurare le povertà educative e illuminare il futuro dei bambini in Italia.

[4] IPE, Nuotare contro corrente, povertà educativa e resilienza in Italia, Save the Children 2018.

[5] Manifesto sulla infanzia della Regione Toscana – 2024.