La Cittadinanza, un diritto da garantire, sta all’origine del riconoscimento di ogni persona. Il termine indica, infatti, il rapporto tra un individuo e lo Stato al quale l’ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici.
Ogni essere umano deve essere riconosciuto come membro di una Comunità Nazionale. È un principio che vale ancor più in una democrazia dove tutti sono ritenuti “uguali”. Naturalmente l’essere cittadini comporta il riferimento ad una norma che può avere origini diverse. In Italia, per esempio, il concetto moderno di cittadinanza nasce con la Costituzione ed è attualmente disciplinata dalla legge 5 febbraio 1992, n. 91. Per questa ragione s’impone una serie di distinzioni e di precisazioni che ritualmente ritornano alla ribalta: anche nel corso dell’estate scorsa la questione è ritornata ad infiammare il dibattito politico.
Il dibattito estivo sulla cittadinanza
Il protagonista del dibattito estivo è stato il ministro Tajani di Forza Italia prendendo posizioni diverse da quelle della maggioranza di Governo di cui fa parte. Ha ritenuto, cioè, superata la scelta nazionale dello “Ius sanguinis” che, fin dai tempi dell’Unità d’Italia invece la Destra liberale aveva sempre perseguito, portando avanti la prospettiva dello “Ius scholae”: la Cittadinanza può essere conseguita anche attraverso la frequenza scolastica almeno fino a 16 anni, attraverso la capacità di un soggetto di acquisire la cultura del Paese in cui vive.
Contestualmente, andando oltre questa prospettiva, si è inserita la voce della segretaria del Partito Democratico, Schlein, sostenendo che la Cittadinanza deve essere conseguita con lo “Ius soli”, come avviene negli Stati Uniti: è la nascita in un certo territorio a fare la differenza, secondo la prospettiva storica di vari Paesi.
Questa posizione è più avanzata rispetto a quella liberale del ministro Tajani, ma è anche la più contrastata dalla politica. Resta il fatto che sia la posizione della “Ius scholae” sia quella dello “Ius soli” denunciano la crisi del più tradizionale concetto dello “Ius sanguinis” che solo i politici più restii al cambiamento continuano a perseguire: ne è un esempio il generale Vannacci, esponente della Lega, quando afferma, a proposito dello “Ius soli”, che “se uno nasce in una scuderia non è detto che sia un cavallo”.
L’iter della cittadinanza dal Regno d’Italia ad oggi
Se la proposta di Tajani diventasse legge, nel nostro Paese i ragazzi che avrebbero diritto alla cittadinanza potrebbero essere circa 300.000, per divenire, nei quattro anni successivi, oltre 550.000. Questa crescita preoccupa non poco tutti coloro che hanno paura ad estendere i diritti costituzionali.
Se vogliamo fare il punto sull’evoluzione del concetto di Cittadinanza in Italia possiamo dire che dal 1861 al 1945 erano riconosciuti come cittadini italiani per “diritto di sangue” coloro che, pur essendo residenti all’Estero potevano dimostrare di avere un antenato proveniente dalle terre di grande emigrazione, come ad esempio Piemonte, dal Veneto, dalla Sicilia o da altre terre italiane di grande emigrazione. Unica condizione era che l’antenato italiano fosse morto dopo il 17 marzo 1861, cioè dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Questo punto di vista è stato corretto da una legge introdotta nel 1912, la prima legge che regolava la materia della Cittadinanza, con l’obiettivo di garantire ai figli degli emigrati il mantenimento delle loro radici. Ciò che connotava questa modifica era il fatto che colui che riusciva a provare le proprie origini diventava cittadino italiano, anche senza mai venire in Italia, senza il dovere di conoscere la lingua e la cultura italiana. Gli Italiani che hanno lasciato l’Italia a partire dall’800 sono circa 30 milioni, mentre si stima che siano 60 milioni i loro discendenti, una parte dei quali (49%) ancora oggi chiede la cittadinanza italiana per “Iure sanguinis”. Questo ha comportato la diffusione del fenomeno della doppia cittadinanza: è questo che costituisce un effettivo problema e non gli immigrati che stentano ad ottenerne una.
Poi, nel 1992 è intervenuto il comma 1, articolo 1, della legge 91/1992 ai sensi del quale acquistano di diritto alla nascita la cittadinanza italiana coloro i cui genitori (anche soltanto il padre o la madre) siano cittadini italiani, anche se con alcune eccezioni[1].
“Culto del sangue” e “Ius scholae”: da un articolo di Enzo Mauro
Un interessante articolo di Ezio Mauro, pubblicato sul giornale la Repubblica il 9 settembre 2024, ha messo il dito sul problema facendo una distinzione fra il “Culto del Sangue” e lo “Ius scholae”. Se il primo si fonda direttamente sulla ereditarietà, il secondo invece più modernamente fa riferimento ai diritti acquisiti attraverso la frequenza scolastica. Oggi infatti la discussione vorrebbe superare la questione delle origini biologiche, vale a dire l’idea biopolitica della nazione a cui i partiti di Destra fanno riferimento. L’articolista mette in evidenza che la Destra sovranista non pone a fondamento del diritto di Cittadinanza l’acquisizione di diritti costituzionali che provengono anche dalle libertà che la storia ha consegnato a tutti, ma l’identità biologica da conservare e proteggere. In sostanza nel nostro Paese si vorrebbe tornare a classificare gli esseri umani differenziandoli nelle loro categorie e gerarchizzandoli. Negli ultimi tempi, infatti, anche attraverso il dibattito sulla Cittadinanza sta emergendo una inversione di tendenza: la trasformazione del concetto di Paese e di Stato nel concetto ideologico di Nazione di cui l’attuale Governo si è fatto interprete: custodire, cioè, il mito delle origini fondato su valori come terra, sangue, pelle. Ma la verità del Paese reale è fuori da questo mito.
La proposta dello “Ius scholae”
Se noi vogliamo uscire dalle pastoie in cui si muove attualmente il dibattito intorno alla Cittadinanza dobbiamo considerare lo “Ius scholae” come una risposta plausibile al problema. Per diventare cittadini italiani è fondamentale possedere una solida conoscenza della lingua, della storia e della geografia del Paese, ma soprattutto la conoscenza della nostra Costituzione e dei principi alla base della convivenza civile: “Dopo dieci anni di scuola dell’obbligo, svolti con impegno e profitto, si può aspirare, quindi, a diventare cittadini italiani”. La concessione della Cittadinanza Italiana potrebbe avere luogo per gli stranieri, quindi, al compimento dei 16 anni invece degli attuali 18 anni. Questo carattere mobile della Cittadinanza avrebbe già trovato la propria accoglienza in altri Paesi dell’Unione Europea, a partire dalla Francia, dal Regno Unito e dalla Germania, Paesi dove bastano 5 anni di residenza per ottenere la Cittadinanza. In Italia, invece, non sono bastati 32 anni per sbarazzarci di una delle leggi più retrive d’Europa (legge 91/1992), nata già vecchia, che impone tutt’ora ai nati in Italia da genitori stranieri di trascorrere 18 anni nel nostro Paese prima di poter presentare domanda di Cittadinanza.
Perciò la proposta dello “Ius scholae”, sollecitata anche da alcune vittorie olimpiche di ragazzi e ragazze con la maglia azzurra ma con la pelle di diverso colore, non rappresenta una specie di calembour per l’estate. Rappresenta invece, un passo in avanti, una vera innovazione per l’Italia, quanto invece in altri Paese costituisce già una soluzione adottata da tempo.
Dallo stato dell’arte all’idea di un Referendum
Il dibattito estivo è stato molto utile, dunque, per far riemergere un importante problema, anche se ha creato pure una certa confusione. Da qui l’opposizione ha ipotizzato un Referendum nel tentativo di trovare una soluzione condivisa. Le posizioni sulla Cittadinanza, in un Paese come il nostro, si sono ulteriormente moltiplicate. Alle classiche distinzioni di una Cittadinanza legata al diritto di sangue, al diritto di essere nati in un certo luogo e al diritto di un’acquisizione legata agli anni di studio, si è aggiunta una ulteriore specificazione sul numero degli anni di scuola ritenuti necessari per tale riconoscimento.
Attualmente, lo straniero, come abbiamo detto ricordando la legge 91/1992, può richiedere la cittadinanza italiana dopo dieci anni di residenza legale in Italia, ridotti a cinque anni per coloro cui è stato riconosciuto lo status di apolide o di rifugiato e a quattro anni per i cittadini di Paesi della Comunità Europea. Il riconoscimento del diritto di cittadinanza significa anche diritto alla salute, al lavoro, ad una abitazione in virtù di una norma universale che garantisce l’uguaglianza fra tutti i cittadini.
La scuola al centro
Il dibattito politico ha, dunque, riconosciuto che centinaia di migliaia di ragazzi cresciuti in Italia attendono troppo tempo per ricevere questo “patentino”. In altri Paesi, invece, ogni anno un gran numero di residenti ottiene la cittadinanza senza dover sottostare alle restrizioni che, invece, abbiamo in Italia. In alcuni Paesi, addirittura, non occorre neanche conoscere la lingua di riferimento.
Resta il fatto che persistono due polarità: da una parte c’è chi insiste sulla restrizione del numero di nuovi cittadini italiani, dall’altra c’è chi invece è disponibile ad aumentarlo progressivamente. La proposta di legge unitaria è quella della centralità della scuola nel determinare tale diritto: si diventa cittadini studiando l’Italiano e la nostra cultura, stando insieme ad altri studenti italiani, imparando a dire “noi”: sono queste le condizioni su cui possono confluire posizioni che attualmente sono anche distanti. Su questi temi, allo stato attuale, al di là di quelli che sono gli elementi più complessi del dibattito, si stanno misurando i vari esponenti delle diverse compagini politiche.
[1] L’ordinamento italiano con la legge 91 del 5 febbraio 1992 riconosce anche il criterio alternativo dello jus soli, pur prevedendolo soltanto in via residuale e per casi limitati a: coloro che nascono nel territorio italiano e i cui genitori siano da considerarsi o ignoti (dal punto di vista giuridico) o apolidi (cioè privi di qualsiasi cittadinanza) (art. 1, co. 1, lett. b); coloro che nascono nel territorio italiano e che non possono acquistare la cittadinanza dei genitori in quanto la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all’estero possa acquisire la loro cittadinanza (art. 1, co. 1, lett. b); i figli di ignoti che vengono trovati (a seguito di abbandono) nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato, da parte di qualunque soggetto interessato, il possesso di un’altra cittadinanza (art. 1, co. 2).