Piacere e fatica di leggere

Tra surfisti e palombari

L’apertura del Salone del Libro a Torino sollecita riflessioni sull’antico rapporto tra lettura e scuola, oggetto di innumerevoli contributi, nel tempo, che si situano al confine tra tecnica e politica. L’esperienza della lettura infatti, nelle aule scolastiche, non solo è normata nelle indicazioni curricolari degli ordinamenti – nel primo ciclo in prospettiva verticale – ma si presta a considerazioni di più ampio respiro, che rimandano alla funzione “democratizzante” della scuola.

La dimensione riflessiva della lettura

Non vi è dubbio che la lettura è uno degli atti più presenti nella vita extrascolastica degli studenti. Le lamentele diffuse sulla scarsa attitudine dei nostri giovani alla lettura fanno corto circuito col paradosso di una postura quasi incessantemente dedita al leggere (e allo scrivere) in ambiente digitale. Mai come in quest’epoca, è stato talvolta rilevato, leggere e scrivere fanno parte del quotidiano di tutti [1].

Purtuttavia è in ambiente scolastico che la lettura assume una dimensione riflessiva. È a scuola che docenti e discenti fanno della lettura un’occasione privilegiata per conseguire scopi che trascendono la mera occasionalità della lettura da dispositivo elettronico. Si tratta di scopi legati all’alfabetizzazione funzionale, che rappresenta una delle competenze chiave indicate dall’Unione Europea, quali traguardi ineludibili per la cittadinanza attiva [2]. L’assunzione di queste finalità implica alcune conseguenze a livello di ambienti di apprendimento. 

Dalla comprensione al piacere, ma come?

Una prima conseguenza ha a che fare con le metodologie di approccio alla comprensione dei testi, tema delicatissimo perché incrocia scuole di pensiero a volte alquanto contrastanti pur all’interno delle medesime comunità professionali. Per alcuni docenti, infatti, comprendere ciò che si legge discende dalla conoscenza grammaticale. È noto il luogo comune che “non comprendono ciò che leggono perché non si fa più grammatica”. Per altri, invece, come chi qui scrive, piuttosto che far discendere la comprensione dei testi dalla grammatica occorrerebbe rovesciare i termini della questione istituendo un rapporto circolare tra comprensione testuale e riflessione metalinguistica.

Una seconda conseguenza riguarda il cosiddetto “piacere della lettura”, molte volte invocato dagli stessi documenti ministeriali [3], ma troppe volte ostacolato dagli stessi atteggiamenti dei docenti che dovrebbero promuoverlo, soprattutto quando si tende a curvare ogni esperienza di lettura sulla valutazione, con gli effetti di motivazione estrinseca (e quindi di motivazione tattica piuttosto che conviviale o ludica) che certamente non cospirano a favore del pur evocato piacere di leggere.

Le posture interpretative

A minare il piacere di leggere si aggiungono gli apparati vivisezionanti dei libri di testo, spesso somministrati acriticamente dai docenti, che favoriscono negli studenti approcci adattivi, quando invece è esperienza comune che il piacere di leggere si annida nel protagonismo ermeneutico e creativo dei discenti, che hanno voglia di immedesimarsi in quel che leggono senza aver paura di veder valutate – men che meno attraverso risposte a quiz – le loro posture interpretative. E quest’ultima osservazione chiama in causa l’intrinseca democraticità e inclusività dell’atto di lettura, che per sua natura non può non risultare performante nella misura in cui il contenuto del leggere sia capace di intercettare esperienza ed esistenza dei ragazzi [4].

La fatica del leggere

Quanto fin qui discusso non nega che leggere sia intrinsecamente faticoso e certamente “innaturale”. Inutile fare sconti. Molto spesso occorre richiamare bambini e ragazzi all’attenzione quando si sta chini su un testo scritto in classe. L’occhio fa fatica a seguire la trama del testo, soprattutto se la lettura non è intervallata da commenti, riflessioni, confronti, dibattiti ed incursioni su altri codici di carattere iconico o sonoro. La fatica del leggere – intendendo qui soprattutto la dimensione analitica del leggere – è anche, nel nostro tempo, il portato del background digitale caratterizzante il vissuto quotidiano dei ragazzi, che amano l’integrazione dei linguaggi proprio perché consente loro di alleggerire il carico cognitivo insito nella monomedialità del testo scritto [5].

Il destino del cartaceo

La digitalizzazione della testualità, fin qui ripetutamente chiamata in causa quale convitato di pietra di un discorso sul rapporto tra scuola e lettura, non può essere dunque elusa. Come tutti i processi culturali in corso d’opera, è molto difficile comprendere quale potrà essere il destino della testualità scritta cartacea, quella su cui è avvenuta gran parte della formazione degli attuali docenti e su cui tutt’oggi si esercita l’intelligenza di gran parte dei ragazzi.

Concludendo il suo libro “La quarta rivoluzione”, un esperto di testualità digitale come Gino Roncaglia più di dieci anni fa lanciava un ponte verso il futuro: “Nei prossimi decenni, molte delle funzioni tradizionalmente affidate al libro su carta passeranno probabilmente a libri elettronici letti utilizzando dispositivi che avranno più o meno la forma e le dimensioni di un libro, ma che permetteranno di fare anche molte altre cose, così come la funzione di telefono è ormai solo una fra le molte offerte dai moderni smartphone. Ma la capacità di rendere questi dispositivi – e i testi che vi leggeremo – anche eredi legittimi della cultura del libro, la capacità di conservare nell’era del digitale le forme di testualità complessa – narrativa e argomentativa – alle quali il libro ci ha abituato, dipenderanno in ultima analisi da noi. […] Il modo in cui concretamente popoleremo di testi e di contenuti lo spazio di possibilità aperto dai nuovi dispositivi, dipenderanno in gran parte da scelte non solo tecnologiche ma innanzitutto sociali e culturali. Per fare le scelte giuste sarà importante, su pagine di carta o di bit, continuare a leggere” [6].

Il mezzo condiziona il messaggio

Quanto scrive Roncaglia non è affatto da sottovalutare. È verissimo che il mezzo, se non vogliamo dire che è il messaggio come affermava McLuhan, certamente condiziona il messaggio e col messaggio anche il fruitore dello stesso. È già avvenuto nella storia. Senza scomodare le perplessità di Socrate (mediato dal Fedro platonico) nei confronti della scrittura, che indebolirebbe la memoria, basti pensare all’introduzione della stampa, che incise profondamente nell’esperienza di lettura. Pertanto anche nel caso della testualità digitale la postura del fruitore non può non essere condizionata, nel bene e nel male, dal supporto elettronico che sta sotto i suoi occhi (pc, ebook, tablet o smartphone che sia). Le conseguenze della postura uomo-schermo sono state indagate a fondo dallo scrittore Alessandro Baricco, che nel suo “The game” ha rilanciato e approfondito quanto aveva espresso nel precedente “I barbari” con la metafora dei surfisti e dei palombari della conoscenza [7].

Leggere è abitare tanti mondi

Leggere oggi in ambiente ipermediale può essere per un adolescente un’esperienza surfista, lontana anni luce dalla postura con lanterna di un Giacomo Leopardi, palombaro per definizione della conoscenza. Ma alla scuola non tocca vagheggiare nostalgicamente assetti uomo-lanterna-carta che pure hanno strutturato la cultura e forgiato generazioni di studenti e di docenti. Alla scuola tocca tenere viva la consapevolezza che nel nostro tempo la testualità scritta assume svariate forme e che ciascuna di queste forme qualcosa dà e qualcosa toglie.

Il Salone del Libro è testimonianza chiara che i libri, quale che sia il loro formato, ci sono e sono ben vivi e vegeti. Ma la vitalità dei libri necessita della vitalità dei lettori, e questa non può che cominciare sui banchi di scuola attraverso un’esperienza di lettura ricca di significato. I diritti del lettore di Daniel Pennac [8] non possono avere inizio al termine degli studi scolastici, ma devono trovare spazio fin dalla scuola dell’infanzia, quando è opportuno far percepire ai più piccoli – senza però dismettere tutto questo con i più grandi – che leggere è abitare tanti mondi con la libertà di tornare quando si vuole nel proprio.


[1] Interessante un report reperibile in rete che rende conto di una ricerca condotta dall’Istituto di ricerca Ipsos sul tema del rapporto tra gli studenti e la lettura.

[2] È la prima delle otto competenze chiave europee, individuate nel 2006 e innovate nel 2018, definita Competenza alfabetica funzionale.

[3] Ad esempio dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo del primo ciclo, DM 254/2012, dove si fa esplicito riferimento al “piacere di leggere”.

[4] Pagine molto interessanti sul tema della “deriva iperformalista che ha prevalso nell’insegnamento” si leggono nel capitolo 10 del bel saggio di Michèle Petit, Elogio della lettura, Salani, Milano 2010 (ed. orig. 2002).

[5] Per osservazioni preziose e scientificamente fondate sul tema del carico cognitivo, ivi incluse questioni sulla gestione efficace dell’attenzione dei discenti, suggerisco la lettura del volume di Antonio Calvani, Teorie dell’istruzione e carico cognitivo, Erickson, Trento 2009.

[6] Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Laterza, Roma-Bari 2010.

[7] Alessandro Baricco, The game, Einaudi, Torino 2019; Id. I barbari, Biblioteca di Repubblica 2006, successivamente edito da Feltrinelli.

[8] Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 1993, pp. 116-139.