Ci sono segnali nella vita sociale che ci parlano di come sono cambiati i sentimenti e i comportamenti degli Italiani e che evidenziano anche i nuovi caratteri delle realtà familiari, dei rapporti tra genitori e figli, dei comportamenti nei confronti della scuola. Parliamo di fragilità, di incertezza, di insicurezza che contraddistinguono sia il mondo della famiglia sia il mondo della scuola. Le spie del cambiamento sono evidenti anche nelle stesse scelte degli insegnanti quando si trovano a valutare l’apprendimento e il comportamento degli studenti.
Genitori e scuole di fronte agli insuccessi
Episodi di insofferenza da parte di genitori di fronte ai giudizi valutativi sui figli sono all’ordine del giorno. I genitori non accettano facilmente espressioni critiche o valutazioni non positive, perché di tali giudizi si sentono essi stessi responsabili: vengono avvertiti come la testimonianza di una carenza familiare o come un rimprovero su come educano i propri figli. Non è facile per i genitori partire da un problema, espresso attraverso la valutazione, per riflettere sui propri atteggiamenti e per intervenire poi in maniera più adeguata nel processo di crescita.
Quando le famiglie non si rendono conto dei problemi di apprendimento dei propri figli possono reagire anche in maniera impropria e mettere la scuola in seria difficoltà. La scuola, da parte sua, a volte, resta impotente anche perché non tutti hanno maturato il significato di valutazione formativa che, a partire dal lontano 1977, la stessa normativa ha cercato di interpretare e diffondere (legge 517/1977).
Le reazioni di alcuni genitori, di fronte al giudizio della scuola, sono la spia di un costume educativo che di fatto è cambiato solo sulla carta e non nella mentalità di tutti.
Dalla famiglia tradizionale alla “famiglia affettiva”
La famiglia tradizionale era etica e normativa. Le relazioni tra genitori e figli erano regolate da comportamenti formali. Il padre era il garante dell’autorità. Il suo compito era quello di far rispettare le regole. Nella famiglia tradizionale per i bambini era normale sottomettersi ai valori degli adulti. La crescita seguiva percorsi già delineati che lasciavano poco spazio alle inclinazioni e ai desideri di ciascuno. Ci si poteva emancipare solo attraverso la trasgressione e la ribellione.
A partire dagli anni ’70, anche per effetto di una legislazione che ha cambiato il diritto di famiglia (Legge n. 151 del 19 maggio 1975), abbiamo visto sorgere un nuovo modello familiare: quello della “famiglia affettiva”, che ha abbandonato il concetto di “comunità etica” per farne una “comunità liberata” progressivamente dai vincoli autoritari e patriarcali. La famiglia “affettiva” è caratterizzata da una forte emotività e, conseguentemente anche da un indebolimento dei valori etici che fino agli anni ’70 venivano indicati come elementi essenziali nella formazione di una personalità forte. Pestalozzi direbbe che “l’amore cieco” ha preso il sopravvento sull’“amore pensoso”, frutto di un equilibrio fra il piacere e il dovere.
I rischi della “famiglia affettiva”
La società italiana degli anni ’70 vede dunque l’affermarsi di un modello in cui i genitori si sentono impegnati a costruire l’identità del figlio cercando di liberarlo da quelle “privazioni” che in passato erano alla base dell’educazione. La felicità delle nuove generazioni è innanzitutto la piena soddisfazione di bisogni materiali, di conseguenza i bisogni economici vengono collocati ai primi posti della scala dei valori. Quando questo modello, identificabile nella facile ricerca del benessere materiale, arriva alle estreme conseguenze, quando il modello concede senza discriminazioni tutto quello che in passato veniva censurato, finisce per produrre un affievolimento, se non uno scadimento, della stessa educazione familiare non favorendo il sano e corretto sviluppo della personalità.
Se l’attenzione è rivolta solo alla fragilità, escludendo tutti gli altri aspetti che contribuiscono alla formazione del carattere, i genitori arrivano a considerare il proprio figlio come colui “che non sbaglia mai” e avvertiranno ogni suo insuccesso come un loro insuccesso. Percependo, quindi, l’insuccesso del figlio come il fallimento del loro progetto educativo, possono arrivare anche a eclatanti episodi di contestazione nei confronti dei docenti, nel tentativo di trovare un altro “colpevole”.
Il modello disegnato dalla nostra Costituzione
I Padri costituenti avevano visto giusto quando hanno pensato alla scuola come ad un ambiente che deve coniugare le esigenze familiari e quelle della società. L’articolo 29 della Costituzione riguarda esplicitamente la prima formazione sociale del cittadino non in quanto singolo, ma come membro delle strutture sociali: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Mentre gli articoli 33 e 34 garantiscono a tutti l’istruzione: “La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (art. 33); “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34).
Il patto educativo
La famiglia è fondamentale, ma non è l’unico attore del progetto educativo delle nuove generazioni. Gli insegnanti sono l’espressione di un servizio, che non può essere guidato né da ragioni economiche, né da ragioni emotive. L’educazione dei giovani deve nascere da un “Patto”, che veda coinvolte le famiglie, portatrici delle istanze dei figli, e le scuole, espressione di un contesto sociale democratico nel quale le nuove generazioni si formano.
Quando tra famiglie e scuole, attraverso un confronto reale, si arriva ad un patto di corresponsabilità il processo educativo procede sui binari giusti; ma quando il patto costituisce solo un documento formale, le famiglie potrebbero nella realtà dei fatti discostarsi dalle scelte apparentemente condivise e far prevalere una visione privatistica ed egocentrica, che mette al primo posto le esigenze dei figli senza tener conto del contesto educativo. Questo spiega gli atteggiamenti di dissenso, a volte anche sconnessi, che spesso si leggono nelle pagine di giornali. Un progetto autenticamente educativo deve mettere sempre al centro la saggezza del dialogo.
Il dialogo si costruisce
È possibile superare il dissenso ed evitare incresciosi episodi di contestazione, che hanno ultimamente caratterizzato la vita della scuola? Forse sì, se entrambi gli attori del progetto educativo (scuola e famiglia) sono disposti a capire come si costruisce il dialogo. È una questione di formazione continua.
Fino agli anni’70, le scelte scolastiche non venivano messe in discussione da parte dei genitori. Ma, con la scuola della partecipazione, prefigurata dai Decreti Delegati, le famiglie hanno capito l’importanza di stare dentro i processi e hanno cercato di costruire un progressivo rapporto di fiducia con la scuola. Prima timidamente, e poi in modo sempre più deciso, hanno fatto sentire le loro voci, ma anche le prime forme di dissenso, che hanno messo in discussione il modello precedente che assegnava alle scuole il potere univoco delle scelte educative. Negli anni ’70, con la legge n. 517/1977 che modificava, tra l’altro, anche i sistemi di valutazione curvandoli sugli aspetti formativi, è iniziato quel processo di riflessione sulle modalità di fare scuola aprendo la strada al rapporto con le famiglie e con il contesto sociale.
Va detto, tuttavia, che i processi non sono sempre lineari e non portano sempre al miglioramento anche perché nel tempo devono fare i conti con le innumerevoli variabili che ridefiniscono progressivamente i modelli sociali. A volte, quindi, ritorna l’individualismo, ritorna ad essere preminente il dissenso e con questo ritornano a manifestarsi comportamenti inadeguati. Ma un rapporto collaborativo proficuo è un processo continuo che va coltivato costantemente. Una corretta educazione, in una società liquida e democratica, è sempre frutto di accordi che nascono proprio da posizioni diverse.
Lavorare insieme per frenare una possibile deriva educativa
La “famiglia affettiva” è oggi una realtà molto diffusa, almeno nel nostro Paese. Secondo gli esperti, a partire dagli anni ’90 abbiamo assistito, per ragioni di varia natura, al progressivo accentuarsi della fragilità e dell’insicurezza. Non senza ragioni, alcuni pedagogisti e psicologi, tra cui Daniele Novara, considerano la famiglia contemporanea come un’agenzia volta a trovare un lenimento alle paure, alle incertezze e alle debolezze. Novara mette, però, in evidenza che l’immagine di famiglia come “porto sicuro” e come “nicchia calda e protettiva” si è del tutto dissolta; allo stesso modo rileva che l’orientamento puerocentrico sta avendo una parziale revisione, anche per via del progressivo aumento del senso di inadeguatezza sempre più diffuso nelle istituzioni.
Il problema fondamentale della famiglia odierna, che Daniele Novara definisce “morbidamente affettuosa”, resta comunque la prevalenza della preoccupazione materiale su quella educativa; tale orientamento, secondo lo psicologo, deriva da un modello che reca in sé la convinzione che un bambino come quello attuale, che “ha tutto”, debba essere inevitabilmente “felice”. I nostri bambini, secondo Novara, non hanno tutto, hanno più del tutto (più giocattoli, più vestiti, più cibi); ed è in questo eccesso, che si nasconde il pericolo di una involuzione educativa, di cui non abbiamo certo bisogno.
I genitori non possono essere considerati, da parte della scuola, degli ostacoli nel processo educativo dei figli, devono tornare ad essere degli alleati preziosi, così come gli insegnanti non possono rinunciare a guidare le nuove generazioni attraverso gli strumenti culturali.