La legge 517 del 1977, che ha avviato l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi ordinarie della scuola pubblica, rappresenta un caposaldo del nostro sistema scolastico: una vera e propria riforma di struttura, importante quanto l’istituzione della scuola media unica nel 1962 e della scuola materna statale nel 1968. Da quel lontano 1977 (quasi mezzo secolo fa), la vita dei ragazzi con deficit è radicalmente cambiata. Sicuramente, in meglio!
Infatti, le scuole e le classi speciali, presenti solo nelle città, anche dove funzionavano bene, costituivano un luogo di segregazione (in qualche caso di prigionia) dai contesti frequentati da tutti gli altri bambini.
Come ho avuto modo di scrivere su Scuola 7 del 28 agosto 2017, nella ricorrenza dei quarant’anni della legge 517/1977, si trattò di una scelta autenticamente rivoluzionaria, molto coraggiosa e decisamente controcorrente rispetto non solo alla situazione italiana, ma anche alla cultura pedagogica mondiale, che di fatto sosteneva (e sostiene) le scuole speciali per i “bambini con handicap” e quelle normali per tutti gli altri.
Questa legge fu dunque un buonissimo provvedimento, ma …
Il vulnus iniziale: l’insegnante specializzato
Alla legge 517/1977 va riconosciuto il merito di aver promosso una vera e propria rivoluzione che ha interessato tutti gli ambiti della vita civile e istituzionale (famiglia, scuola, enti locali, aziende sanitarie, …). L’Italia, in questi decenni, ha costruito un sistema inclusivo che rappresenta un punto di riferimento in Europa e nel mondo.
La legge 517 però nasconde anche un punto debole. In essa, infatti, si afferma un modello che fa essenzialmente capo ad una professionalità singola: l’insegnante specializzato. Nell’articolo 2 si afferma la centralità del diritto allo studio per tutti e si ipotizza la programmazione di attività scolastiche integrative per agevolare la promozione della piena formazione degli alunni. Tali attività devono essere “organizzate per gruppi di alunni della stessa classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni”. Si dice inoltre che “Nell’ambito di tali attività, la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati ai sensi dell’articolo 9 del decreto del Presidente della Repubblica 31 ottobre 1975, n. 970”.
Va ricordato che il DPR 970/1975 aveva esteso la normativa dei Decreti delegati anche alle scuole “aventi particolari finalità”, cioè a quelle speciali. Tendenzialmente, quindi, l’insegnante di sostegno proveniva dalle scuole speciali, ed era in possesso del titolo di specializzazione, conseguibile presso la Scuola Magistrale Ortofrenica di Firenze.
Una delle prime circolari relative alla programmazione educativa, la n. 169 del luglio 1978, consentiva, “in via provvisoria”, l’utilizzo anche di docenti non forniti del prescritto titolo. L’incidentale “in via provvisoria”, oggi, fa decisamente sorridere!
Si corre ai ripari, ma senza successo
A due anni di distanza dall’approvazione della legge 517/1977, il Ministero della P.I. emana la circolare del 28 luglio 1979, n. 199, in cui si affermava che la locuzione ‘insegnanti di sostegno’ è ormai così invalsa nell’uso comune che la si può accettare ufficialmente. Quello che invece bisogna evitare è che i suoi compiti siano interpretati in modo riduttivo e cioè in sottordine all’insegnante di classe.
Emerge, dunque, un primo grave problema, la marginalità dell’insegnante di sostegno rispetto agli altri docenti della classe. E siamo solo agli inizi del processo di inclusione!
In un passaggio successivo della circolare, si precisa ulteriormente la criticità denunciata, sottolineando che l’integrazione deve essere assunta da tutta la comunità scolastica e non solo dalle classi direttamente coinvolte. A tal proposito, si afferma che una condizione basilare per una efficace integrazione è data dall’esistenza di insegnanti di classe o di sostegno (o meglio: congiuntamente di classe e di sostegno) capaci di rispondere ai bisogni educativi degli alunni con interventi calibrati sulle condizioni personali di ciascuno.
Più esplicita risulterà la circolare ministeriale 3 settembre 1985, n. 250, nella quale si sottolineava che la responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazione di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti è, al medesimo titolo, dell’insegnante di sostegno, dell’insegnante o degli insegnanti di classe o di sezione e della comunità scolastica nel suo insieme.
Come si evince da quanto sopra riportato, ci si accorse fin dai primissimi anni che, nel rapporto insegnanti di classe e insegnanti di sostegno, qualcosa non funzionava. Il meccanismo della delega, con conseguente rischio di un inserimento fittizio degli alunni con disabilità, costituì, dai primordi dell’inclusione, un vulnus, che avrebbe accompagnato, nel corso dei decenni, il nostro modello di inclusione.
Ma quello che risulta particolarmente grave è che non si fece nulla per invertire questa tendenza.
Una legge importante, ma incompiuta
Alla luce di quanto detto, possiamo affermare che la legge 517/1977, così importante e decisiva per la qualità della vita dei bambini in condizione di fragilità risultò, di fatto, in larga misura, incompiuta.
Tutti i successivi provvedimenti del Ministero hanno insistito sull’importanza di realizzare un modello di sostegno diffuso, non ancorato al solo docente specializzato. Tali parole però si sono trasformate spesso in esortazioni che non hanno sortito effetti concreti.
Che cosa si sarebbe potuto fare? Ad esempio, ciò che fu realizzato nel quinquennio successivo all’entrata in vigore dei Programmi della scuola elementare del 1985: un piano quinquennale di formazione di tutti i docenti, a cominciare dagli insegnanti della scuola elementare! Un’azione formativa a livello nazionale avrebbe contribuito a creare una cultura inclusiva diffusa e a potenziare le competenze dei docenti, molti dei quali si trovarono a fronteggiare situazioni per le quali non possedevano alcuna preparazione.
Purtroppo, anche oggi, non esiste una sistematica formazione in servizio finalizzata all’acquisizione di competenze metodologiche, didattiche e tecniche dei docenti. Continuiamo a “fare la conta” degli insegnanti di sostegno (oltre 200.000!), puntando sulla quantità e meno sulla qualità del personale impiegato. Sul piano delle decisioni politiche in materia di istruzione è però possibile ipotizzare scelte che potrebbero effettivamente determinare i presupposti di una più efficace inclusione.
Rivedere i criteri della formazione delle classi?
Tra le varie proposte finalizzate ad invertire una certa deriva che caratterizza il nostro modello inclusivo, proviamo ad avanzarne due, entrambe fattibili in tempi brevi.
La prima. Alla luce del preoccupante decremento degli studenti che sta coinvolgendo attualmente la scuola italiana, andrebbero ripensati i criteri di formazione delle classi, fermi ai parametri del DPR n. 81/2009. In base a quanto stabilito in quel Decreto, nella scuola dell’infanzia le sezioni possono raggiungere il numero massimo di 29 bambini, mentre nella scuola primaria il tetto non superabile è di 27 iscritti. Nella scuola secondaria di primo grado, in caso di un’unica prima, il numero degli iscritti può essere elevato fino a 30 alunni. Lo stesso criterio vale anche per la scuola secondaria di secondo grado.
Il DPR 81/2009 è stato emanato circa quindici anni fa, quando la popolazione scolastica era arrivata al culmine di un discreto aumento in tutti i gradi dell’istruzione.
Oggi, lo scenario è radicalmente cambiato. Il surplus di insegnanti che la decrescita demografica comporta rappresenta però un “bacino” che consente di ripensare l’utilizzo dei docenti stessi. In particolare, uno dei fattori che incide negativamente su una gestione realmente inclusiva delle classi, è rappresentato dal numero eccessivamente elevato degli studenti per classe.
Una marcata diminuzione del tetto massimo, attualmente in vigore, costituirebbe un significativo supporto a politiche educative finalizzate a contrastare il fenomeno della dispersione scolastica e a promuovere strategie didattiche realmente personalizzanti.
Un passo concreto verso una scuola inclusiva a tutti gli effetti è quello di modificare i parametri relativi alla formazione delle classi prime e seconde della scuola primaria, secondaria di I e di II grado. Un’ipotesi, in tal senso, potrebbe essere la seguente:
- tetto massimo di 15 alunni in presenza di studenti con disabilità o con DSA;
- tetto massimo di 20 allievi negli altri casi.
Aumentare la permanenza dell’insegnante specializzato sul sostegno?
C’è anche una seconda possibilità per migliorare l’inclusione. Attualmente l’insegnante specializzato, dopo aver svolto cinque anni sul sostegno, può transitare nel “ruolo” del docente curricolare. Questo comporta una cronica carenza di figure specializzate e il ricorso massiccio a insegnanti, assunti a tempo determinato, privi dell’apposito titolo. Tale situazione contribuisce a rendere sempre più “volatile” il sostegno e a determinare fenomeni di discontinuità, in molti casi decisamente paradossali.
Rendere decennale, anziché quinquennale, la permanenza su posto di sostegno dei docenti specializzati consentirebbe di stabilizzare il personale ed assicurare una maggiore continuità degli insegnanti, requisito indispensabile per migliorare decisamente l’inclusione degli alunni con disabilità ed evitare la dissipazione di risorse, principale causa dei ragazzi che vanno incontro all’insuccesso formativo.
In un periodo di rarefazione di energie umane, ogni studente “perso” è una risorsa che viene meno. E un Paese in declino demografico, come il nostro, non può permettersi un simile spreco!