È ormai abbastanza diffusa la voce di un ritorno al voto nella scuola primaria, dopo tre anni di sperimentazione del nuovo format valutativo varato dall’allora Ministro Azzolina. Le dichiarazioni novembrine della sottosegretaria Frassinetti (FdI) hanno riavviato il dibattito sulla valutazione che ritrova contrapposte le schiere dei sostenitori della valutazione formativa e quelle della “maggiore chiarezza” del voto. Si ritorna sostanzialmente al 2008, quando il Ministro Gelmini reintrodusse, dopo trent’anni, i voti argomentando la misura come una risposta al disorientamento delle famiglie.
La posizione delle associazioni dei docenti
Il 15 gennaio scorso un gruppo di associazioni dei docenti[1] ha pubblicato un documento interassociativo “Tornare ai voti? No, grazie.”, con annessa lettera alle famiglie[2], in cui si chiede esplicitamente al Ministero di non voler dismettere l’esperienza valutativa compiuta in questi tre anni dalle scuole primarie. Il documento lega la valutazione formativa al compito costituzionale di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e attribuisce invece al voto il limite di “fotografare la situazione in un dato momento senza cogliere le fasi del processo di insegnamento-apprendimento per intervenire sulla sua regolazione”. Si tratta di un argomento che ritorna nella lettera ai genitori, invitati calorosamente a riconsiderare il compito della scuola pubblica, che non può abdicare alla sua funzione democratica ed emancipatrice ed indulgere invece alla competizione e al raffronto tra risultati.
L’importanza di una comunicazione chiara
Un altro elemento fondamentale da rilevare in entrambi i documenti, e che richiama l’argomento ministeriale della presunta chiarezza comunicativa, è proprio quello del rapporto tra scuola e famiglie in ambito valutativo: “non sempre siamo riusciti a farvi capire cosa fosse cambiato”. Si tratta di un’affermazione forte, che fa riflettere sulla valenza sociale e politica della valutazione scolastica, attorno alla quale si gioca anche il consenso politico. L’opinione pubblica assiste da anni a questo continuo valzer di riforme, e non si deve credere che il senso comune abbia ben chiara la differenza tra i colori politici che promuovono i rispettivi cambiamenti normativi. Per l’opinione pubblica a cambiare le norme è genericamente “la politica” che ci ripensa periodicamente. Non è francamente un bel vedere.
Insomma, quel che bolle in pentola appare abbastanza chiaro. Questo Governo non vede di buon occhio la valutazione discorsiva e medita il ritorno del voto. Non rimane che tornare a ragionare su quel che è stato fatto in questi tre anni.
Dove eravamo rimasti? All’ordinanza ministeriale 172/2020
Ricordiamo che l’impianto normativo dell’OM 172/2020 reintroduceva i giudizi descrittivi e ricordiamo anche che a quella norma non ha fatto seguito l’auspicata formazione dei docenti, rimasta sostanzialmente al palo. Tuttavia è doveroso mettere in evidenza che quel dispositivo, tutt’ora in vigore, pur richiamando incessantemente la funzione formativa della valutazione, non è privo di ambiguità soprattutto quando pone gli obiettivi di apprendimento come riferimenti primari per la valutazione.
Gli obiettivi, per definizione, afferiscono ad una logica di risultato osservabile e misurabile, mentre la valutazione formativa chiama in causa l’intero processo formativo (ovvero l’intero iceberg di cui gli obiettivi sono la punta), che viene infatti evocato dai livelli e dalle dimensioni che soggiacciono agli stessi. C’è un evidente confusione tra logica di risultato e logica di processo, che non sembrano adeguatamente integrate. E se non sono integrate dal legislatore, si fa fatica a pensare che sia la cultura valutative dei docenti a farlo e, men che meno, che le famiglie possano comprendere il senso profondo della valutazione formativa.
I livelli nella valutazione formativa
In realtà i livelli, tratti dalla certificazione, hanno sempre riguardato le competenze, ovvero l’unico costrutto da utilizzare per integrare processi e risultati, ma le competenze finiscono per restare sullo sfondo perché il legislatore è forse troppo preoccupato di un eccesso di buonismo valutativo, col rischio di indurre le maestre ed i maestri a considerare impropriamente i livelli quali sostitutivi dei voti.
Alla fine, la nostalgia del voto finisce per rientrare dalla finestra quando le cosiddette “dimensioni” (autonomia, tipologia di situazione, risorse, continuità, ma i docenti potrebbero ampliarle) restano impliciti, quali meri indicatori di processo ed i livelli finiscono per diventare fasce di risultato (“base” uguale 6; “intermedio” uguale 7-8; “avanzato” uguale 9-10).
Questa situazione rischia di determinare confusione, preesistente alla stessa ordinanza, su quel che è necessario considerare perché un bambino possa essere valutato positivamente: l’atteggiamento verso lo studio? l’autonomia? la capacità di riflettere sugli errori e correggerli? l’interesse? la partecipazione? E se tutte queste dimensioni, pur attivate e visibili, dovessero coesistere con risultati ritenuti “insufficienti”? Come si gestisce il disallineamento tra processi e risultati, ovvero il trend positivo di allievi che per la loro fragilità culturale ed emotiva magari tardano a raggiungere certi obiettivi?
Il rapporto tra processi e risultati di apprendimento
Cosa dovrebbe comunicare invece il livello, in riferimento all’obiettivo? Dovrebbe comunicare il modo (autonomo, attivo, strategico, riflessivo, coinvolto, costante, ecc.) dell’apprendimento ovvero tentare di fare emergere l’iceberg.
La valutazione che integra l’iceberg risulta decisamente arricchita e quindi attendibile, e pertanto è il contenuto della comunicazione alla famiglia. A patto ovviamente che in fase di progettazione e di didattica si sia chiarito quale processo formativo è implicato nei termini utilizzati per esprimere la valutazione (“avanzato”, “intermedio”, ecc.).
Da queste brevi e necessariamente stringate considerazioni si cerca di fare emergere l’ambiguità semantica contenuta nella norma alla sua origine, rivelativa di una cultura valutativa che ancora fa fatica ad integrare processi di apprendimento e annessi risultati (e ciò si vede dalla soluzione a favore degli obiettivi della polarità obiettivi-competenze) e che soprattutto fa fatica ad emanciparsi dal paradigma illusorio e banale dell’oggettività che si otterrebbe dalla “numericità” del voto.
Quale modello culturale per la valutazione?
In realtà, quando si parla di cultura valutativa, si esce dal recinto della pedagogia e della didattica e si entra nel più grande scenario dei modelli culturali che circolano nella nostra realtà neoliberistica e competitiva. La logica del risultato e della prestazione, quale che sia il processo che la contestualizza, resta la logica dominante in un sistema sociale che ha accolto la competizione e il raffronto tra risultati anche all’interno dei contesti formativi, che invece dovrebbero avere un carattere più marcatamente evolutivo e per questo inclusivo.
Il ritorno al voto probabilmente torna a rendere de iure ciò che in questi anni è stato mantenuto de facto, e pertanto non susciterà particolare indignazione – come non la suscitò la misura Gelmini nel 2008 – soprattutto tra le famiglie dei bambini più bravi, che hanno a cuore il paradigma della distinzione e dell’esattezza. Il voto, nonostante il suo palese pressappochismo, sembra garantire l’esatta posizione di ciascuno che, appunto con esattezza numerica, può distinguersi dai compagni.
La formazione sulla nuova valutazione avrebbe dovuto raggiungere un solo obiettivo: quello di trasformare nel profondo la cultura valutativa dei docenti dimostrando con chiarezza che nella scuola di base, per quanto paradossale appaia, anche il processo è un risultato. Ed il processo è un film, mentre il risultato è una foto.
Nell’attesa che si arrivi, un giorno, ad una valutazione “educante”
Non è sorprendente che periodicamente qualche Governo possa manifestare insofferenza per logiche valutative più inclini alla descrizione e alla narrazione, perché queste sono parole che aprono allo spazio e al tempo, due dimensioni in cui l’agire umano appare nella sua complessità. Il voto numerico, invece, per sua natura, chiude spazi e tempi con la sua pretesa semplificativa di fare sintesi di luci e ombre, punti di forza e di debolezza, vincoli e possibilità. In realtà questa sintesi è soltanto una chimera, perché ogni bambino è un impasto indissolubile di questi opposti e soltanto una valutazione descrittiva e discorsiva può rendere giustizia dell’intreccio tra la dimensione cognitiva e quella emotiva dell’apprendere.
Il recente interesse ministeriale per l’educazione alle relazioni e all’affettività, condensato in una recente Direttiva[3], sembra andare in controtendenza rispetto all’ansia misurativa che anima il ritorno al voto. Una scuola attenta alle relazioni e alla dimensione affettiva degli ambienti di apprendimento non può che sposare una valutazione educante[4] che guarda a tutto il contesto da cui si determinano le prestazioni e che elabora una progettualità didattica in cui il valutare e l’insegnare siano aspetti di un unico processo. Come dire che si insegna valutando e si valuta insegnando, e non è proprio il voto numerico ad obbedire a questa logica circolare e ricorsiva. Ma la saldatura tra opinione pubblica e politica scolastica in tema di valutazione sembra essere più forte di qualsiasi istanza formativa e inclusiva.
[1] ADI – AIMC – ANDIS- CEMEA – CGD – CIDI – FLCCGIL – LEGAMBIENTE SCUOLA E FORMAZIONE – MCE – PROTEO FARE SAPERE – UCIIM.
[2] Lettera alle famiglie “Tornare ai voti? No, grazie”.
[3] “Educazione alle relazioni”.
[4] Per parafrasare il titolo del recente e illuminato saggio di Cristiano Corsini, La valutazione che educa, Francoangeli 2023.