Non è infrequente vedere addossata al lassismo scolastico la responsabilità delle più efferate condotte sociali. Se così non fosse, la politica scolastica non predisporrebbe periodicamente il giro di vite delle sanzioni valutative. Se sul versante degli apprendimenti permane una certa nostalgia della scuola che boccia, sul versante dei comportamenti l’attenzione si concentra sul voto in condotta, per usare il linguaggio più comune anche nelle sale professori.
L’attuale Schema di disegno di legge[1] in discussione sulla valutazione del comportamento, messo in cantiere all’indomani delle violenze di genere che hanno scosso l’opinione pubblica, è un’ulteriore occasione per constatare la saldatura tra cultura valutativa della politica e senso comune, una saldatura che con tutta evidenza produce se non guasti, almeno illusorietà di soluzioni proprio perché esclude da sé la ricerca educativa, che invece sarebbe necessaria tutte le volte che occorre affrontare problemi educativi. Avviene per la scuola come se ai tempi dell’emergenza pandemica il governo avesse legiferato tenendo conto soltanto degli umori popolari.
Norma fra fini e mezzi
Per conseguire gli obiettivi, la norma si muove tra fini e mezzi. I fini sono i seguenti (dal comma 3 dell’art. 3):
- ripristinare la cultura del rispetto;
- affermare l’autorevolezza dei docenti;
- rimettere al centro il principio della responsabilità;
- restituire piena serenità al contesto lavorativo degli insegnanti e del personale scolastico, nonché al percorso formativo degli studenti.
Con tutta evidenza queste quattro finalità sono ritenute in pericolo. Lo scenario è professionale e valoriale al contempo, perché chiama in causa questioni di auctoritas dei docenti e questioni afferenti all’etica del rispetto e della responsabilità. Tutto ciò ha il suo necessario approdo ad una serenità che manca e che attende di essere “restituita”. Nessuno potrebbe negare che lo scenario contiene elementi di plausibilità, suffragata anche da fatti di cronaca interni ed esterni alle scuole.
Sul versante dei mezzi, l’intervento ha il suo focus su un dispositivo antico, la valutazione del comportamento. Tale valutazione viene riformata nella scuola secondaria di primo grado, col ritorno al voto, e irrigidita, anche con aspetti grotteschi che adesso vedremo, nel secondo ciclo.
Comportamento e rendimento
Il Ministero parla di “maggior peso” (punto b2 comma 4 dell’art. 3) da conferire a questa valutazione, lasciando inferire che la valutazione del comportamento attualmente praticata non sia in grado di dispiegare i suoi effetti deterrenti sugli studenti. Il convincimento sotteso è quello che il voto numerico assegnato al comportamento costituisca un efficace banco di prova della serietà educativa della scuola. Il punto b3 dello stesso comma prima citato mostra chiaramente l’enfasi pedagogica che si vuol dare a questo voto numerico: l’allievo che avrà ottenuto il voto sei in condotta – voto che in atto garantisce la promozione – vede la sua promozione sospesa e subordinata alla corretta presentazione ed esecuzione di un elaborato su temi di cittadinanza. È una misura che appare velleitaria e, come tale, non facilmente comprensibile al fine degli obiettivi da raggiungere.
Chi ha esperienza di insegnamento sa bene che la condotta di uno studente prescinde raramente dal suo rendimento scolastico. In altri termini, l’allievo che avrebbe una cattiva valutazione nel comportamento nella stragrande maggioranza dei casi risulta carente anche nelle discipline. Difficile immaginare un allievo “bravo” dai comportamenti intollerabili o comunque non gestibili attraverso la relazione educativa e, direi, l’approccio culturale. Un alunno del genere rappresenta una sfida per i suoi insegnanti, che non possono cavarsela esclusivamente con un basso voto in condotta.
Punizione e ravvedimento
La seconda considerazione riguarda proprio la relazione educativa, seriamente estromessa da ogni approccio meramente sanzionatorio. Si sa bene che, nel momento in cui entra in scena la punizione, ogni possibilità di dialogo cessa, e con essa anche la possibilità di un ravvedimento che sia frutto del convincimento interiore piuttosto che della paura.
Una politica attenta alle relazioni e all’affettività, come si vede anche dalla recente Direttiva sull’educazione alle relazioni[2], non può abdicare proprio quando il gioco si fa duro e la relazionalità tra docenti e alunni si fa più intensa e “rischiosa”. La comfort zone del voto di condotta non è un avviso o un segnale per nessuno se non per gli stessi docenti che hanno alzato bandiera bianca. Se rinuncio al conflitto educativo e affronto il problema con l’arma del registro e della pagella, ho gioco facile. Non ripristino nessuna autorevolezza. Innesco la paura. Chi è disarmato ha paura di chi è armato.
Misura e apprendimenti
Ultima considerazione. Un numero può solo misurare, e in fatto di educazione non è la misura che può rendere conto del vivente, così come non può rendere conto degli apprendimenti effettivi. Ogni linguaggio deve obbedire alla sua funzione. Dunque se ci si pronuncia sul comportamento non si misura ma si descrive, e prima ancora di descrivere si prova a condividere col diretto interessato questa descrizione. Senza autocoscienza del discente nessun fatto educativo dispiega la benché minima efficacia.
Curricolo, senso civico ed etica
Il giro di vite sulla valutazione del comportamento rientra nel mosaico di cui fanno già parte le misure sull’orientamento, sull’educazione alle relazioni e sull’educazione civica. Si tratta di un invito alle scuole ad intensificare lo sguardo educativo, come se l’educazione a scuola non fosse un effetto collaterale dell’istruzione significativa ed emancipante. Sembrerebbe che quel che accade dentro il curricolo non sia ritenuto sufficiente a sviluppare senso civico ed etica della responsabilità. Sembrerebbe che la scuola del curricolo sia ritenuta separata dalla vita dei ragazzi e che quindi occorra introdurre elementi vitali, sostegni, percorsi aggiuntivi. Sembrerebbe che il comportamento avvenga al di fuori del contesto di apprendimento e che quest’ultimo addirittura non abbia la potenza di condizionarlo.
Se si potessero registrare tutte le discussioni che avvengono in sede di scrutinio sul voto di condotta e si potesse farne un volume, si comprenderebbe la nebulosa pedagogica che il mondo della scuola cerca di neutralizzare attraverso griglie analitiche più utili a spiegare il voto che a generarlo. Non ci sono regolamenti e griglie che tengano dinanzi all’impossibilità di sintetizzare in forma numerica la complessità di un comportamento deviante, finanche violento, senza chiamare in causa tutte le altre colonnine della pagella ed i rispettivi autori, cioè i docenti, inclusa la motivazione e il grado di professionalità degli stessi.
La complessità è nemica del senso comune
Ma la complessità è nemica del senso comune, per il quale alla monelleria non può che corrispondere la punizione e all’ignoranza la bocciatura. Dobbiamo riconoscere che almeno dal 2006, con le prime restrizioni velleitarie sulla condotta legate al bullismo, passando dai discorsi sui grembiulini nel 2008, per approdare al compitino estivo in cui si espiano le colpe scrivendo bei pensieri sulla cittadinanza, la colonna sonora che ci proviene dai piani alti della scuola resta quella della separazione tra educazione e istruzione, con la riduzione della prima a retorica paternalistica e punitiva e della seconda a trasmissione di contenuti.
[1] Schema di disegno di legge di istituzione della filiera Formativa tecnologico-professionale e di revisione comportamento delle studentesse e degli studenti.
[2] Direttiva sull’educazione alle relazioni, n. 83 del 24 novembre 2023.