“Socializzazione, apprendimento, funzione conoscitiva e poi ancora cognitivo, emotivo, non sono elementi da contrapporre: c’è uno specifico scolastico che li fa dialogare in un equilibrio continuamente ricostruito; uno specifico dello stare a scuola non totalizzante ma significativo, in cui il dilemma educazione-istruzione non si risolve nell’apprendimento come atto di socializzazione, nell’apprendimento situato in precisi ambiti di relazioni sociali, emotive e di stimoli culturali”[1].
Senso comune della separatezza
Più di vent’anni fa, Domenico Chiesa, insegnante, esperto di scuola, già consulente ministeriale, già presidente nazionale del CIDI, ragionava sulla tendenza del senso comune alla separatezza. Quel che egli scrive può tranquillamente adattarsi all’attuale modo di trattare la scuola sia a livello ministeriale che a livello del dibattito pubblico. La separatezza è il modo più semplice per non risolvere i problemi. Ma fa effetto.
Vito Mancuso può dire in tv che la scuola istruisce ma non educa, mentre Paola Cortellesi propone l’aggiunta ai curricoli dell’educazione sentimentale, col seguito inevitabile di direttiva ministeriale che mette in campo ulteriori attività extracurricolari sull’educazione all’affettività.
A far giustizia di quest’attitudine semplicistica – e pertanto inefficace – alla separatezza dovrebbe provvedere un approccio complesso a questo genere di problemi, che, come recita lo stesso etimo, è capace non di “integrare”, che sarebbe ancora un fare rientrare dalla finestra la separatezza, ma di riconoscere nella presenza della cultura in classe la risorsa principe per affrontare tout court quella che chiamerei la questione umana.
Dove si annida il pensiero
Le discipline infatti rappresentano veri e propri scrigni al cui interno si annidano pensiero, discussione, emozione, esperienza, problematizzazione, insomma l’intero spettro delle possibilità di cui gli esseri umani dispongono per riflettere su quanto accade nella vita di ogni giorno e per mettere alla prova se stessi e la propria visione del mondo.
Dobbiamo riconoscere che anche la parola orientamento segue la stessa sorte dell’educazione affettiva. Cioè la sorte dell’aggiuntivo e del burocratico legato al famoso “numero di ore”. Si tratta di due facce della stessa medaglia. La medaglia del disgiunto che per essere ben venduto all’opinione pubblica deve restare tale. E si sa che un sapere disgiunto non può avere spessore formativo, perché è impossibile separare il cognitivo dall’affettivo, il culturale dall’esperienziale. Davvero la scuola è il luogo in cui si intellettualizza l’esperienza.
Sensibilità umana vs sensibilità culturale
Occorrerebbe un vero proprio e sforzo pluridisciplinare per dimostrare quanto un uso formativo e culturale delle discipline scolastiche basterebbe e avanzerebbe per produrre effetti virtuosi negli studenti in ordine all’autorientamento e a tutte quelle “educazioni” che sono destinate al fallimento proprio per il loro carattere aggiuntivo rispetto al panorama culturale che i curricoli ordinari già sono in grado di offrire. Se solo si rileggessero le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo e la filosofia pedagogica che le ispira si troverebbe ampio spazio per lo sviluppo di quella sensibilità umana auspicata dalle recenti “sparate” dei vip e dell’attivismo legislativo ministeriale. Ove per “sensibilità umana” si intenda, quale doveroso sinonimo, “sensibilità culturale”, dacché per homo sapiens non si dà scissione possibile tra natura e cultura.
Ogni disciplina contribuisce alla crescita umana
Ciò premesso, l’interrogativo che ci si porrà è se tutte le discipline siano in grado di generare da sé stesse processi di crescita umana (in essa inglobando quanto separatamente viene enunciato, crescita emotiva, sentimentale, sessuale ecc.). Le esperienze pluridecennali di lavoro formativo a contatto con docenti di ogni ordine e grado e di ogni area geografica portano a rispondere in modo affermativo. Sì, ogni disciplina, condivisa con i discenti in virtù di un’adeguata mediazione didattica, è in grado di contribuire alla crescita umana.
Un campo di ricerca enorme sarebbe quello capace di coinvolgere i docenti sul proprio terreno disciplinare, che in fondo è quello a cui sono più affezionati, quando non restano risucchiati da carte, moduli e registri elettronici da compilare.
Laboratori di ricerca e nuclei concettuali
Laboratori di ricerca disciplinare potrebbero essere attivati proprio con lo scopo di trovare insieme quei nuclei concettuali e quei dispositivi di mediazione culturale capaci di sostenere il percorso di crescita umana degli allievi. Se l’ora di questa o quella disciplina fosse sempre spazio di approfondimento intellettuale e di confronto emotivo tra ragazzi e docenti, forse si sanerebbe anche quella logora dicotomia tra conoscenze e competenze che ha avvelenato almeno tre decenni di ragionamento sulla scuola. Non si opporrebbero più sapere e saper fare o conoscenza dichiarativa e conoscenza pratica perché l’ora di questa o quella disciplina sarebbe sempre un laboratorio di pensiero e di pratiche.
Cultura dell’insegnamento
Non si vedono, però, all’orizzonte politiche scolastiche che centrino decisamente il compito della scuola su un’idea di riqualificazione culturale dell’insegnamento. Aggiungere educazioni alla cittadinanza, alla sicurezza stradale, all’affettività, alla finanza, alla legalità, alla sessualità, all’ambiente o immaginare tautologici “curricoli orientativi” sembra più produttivo che avviare un ripensamento complessivo del progetto culturale della scuola, necessariamente di più lungo respiro, che invece sarebbe davvero quel che serve a rimettere la scuola e i suoi insegnanti al centro dello sviluppo del Paese.
[1] D. Chiesa, Dimensione culturale e formativa del sapere disciplinare, in: “La funzione orientativa delle discipline”, IRRE Piemonte 2001, 8ss.