Con l’avvento delle tecnologie digitali tutte le discipline, da quelle tecnico-scientifiche fino a quelle umanistico-economico-sociali, hanno subito, seppure in maniera diversa, importanti cambiamenti che hanno scosso alla base le stesse strutture epistemologiche. In alcuni casi come la Geografia le modificazioni si sono spinte ben oltre facendo nascere delle diramazioni disciplinari del tutto nuove e particolari, come ad esempio il GIS (Geographical Information System), il WebGIS e la Cybergeografia, semplicemente impossibili da concepire nella trascorsa era analogica.
Il cambiamento apportato dal digitale, se da una parte ha rivoluzionato la ricerca e la produzione di conoscenza, dall’altra ha anche richiesto nuovi modi per interpretare le informazioni, ridefinendo i tradizionali parametri e paradigmi di analisi e di studio. Inoltre, attraverso la dematerializzazione di un numero pressoché infinito di dati, è stato permesso l’accesso pressoché istantaneo, e potenzialmente alla portata di tutti, a innumerevoli risorse virtuali sempre in fieri.
Oltre la cittadinanza attiva
L’evoluzione continua delle risorse digitali, per certi versi incontrollata, ha sollevato nuove sfide cognitive, etiche e sociali, facendo emergere nuovi imperativi. Tra questi, ad esempio, si evidenziano:
- l’importanza di una cittadinanza sempre più attenta, informata e consapevole dei cambiamenti generati dalla transizione digitale;
- lo sviluppo di una maggiore criticità di pensiero a riguardo delle percezioni globali che la mole incontrollata di informazioni digitali genera;
- la necessità di una cittadinanza intesa non come consumatrice o spettatrice passiva, ma come agente del cambiamento attiva e produttiva in questa era digitale sempre più interconnessa;
- la capacità per le vecchie e giovani generazioni di navigare con prontezza, saggezza e criticità nuovi territori digitali in continua evoluzione e mutazione, pronti a cogliere nuovi orizzonti di possibilità, ma allo stesso tempo pronti ad evidenziare le gravi questioni problematiche, rimaste sopite e dormienti, ma pronte ad infiammarsi in qualsiasi momento, generando caos e distruzione in un pianeta che sempre di più mostra tutta la sua fragilità.
Una geografia della crisi in un futuro incerto
La geografia, nell’era digitale, rispetto alle altre discipline ha subito influenze e modificazioni profonde. Il suo antico e tradizionale metodo di studio basato sulla osservazione diretta, sul recupero dei dati e sull’interpretazione relazionale tra uomo-ambiente, mostra ai nostri giorni alcuni suoi limiti. Infatti non sempre riesce a fare comprendere la fitta complessità e caoticità delle interconnessioni reticolari presenti nelle sfide globali attuali che sono sempre più ardue e pericolose da affrontare.
Il passaggio dallo spiegare la vastità e l’indeterminatezza del pianeta così come si considerava nel passato, alla contemporaneità attuale in cui la terra è ritratta come un’entità sempre più piccola e limitata, evidenzia ora al contrario una maggiore complessità e instabilità. Se da una parte l’apporto tecnologico sembra insegnare che tutto può essere messo in chiaro e svelato, anche ciò che è presente nelle aree più remote e inaccessibili del pianeta, dall’altra trova enormi difficoltà nel confinare con esattezza i macro problemi globali nebulosi e criptici che si presentano improvvisamente.
Datacrazia, ovvero la supremazia dei dati
Con le tecnologie informatiche fare ricerca geografica a livello di pura azione metodologica sembra ai nostri giorni semplice e veloce. Ma tale facilità nasconde una grande mistificazione. Certamente con gli infiniti dati in Rete o scaricabili dai satelliti, con il software appropriato e un computer, tutto può essere immediatamente decodificato e mostrato in tempo reale. Questo regno incontrastato dei dati ha determinato, soprattutto tra i decisori, una falsa convinzione di sicurezza e di controllo che però non regge alla prova dei fatti. Non si è, infatti, in grado di prevedere i pericoli e impedire le ricadute negative di quanto poi si potrà verificare nella realtà.
Quale sarà il prossimo “cigno nero”?
Ci ritroviamo, molto spesso, ad assistere a ciò che sta accadendo a livello mondiale come inermi testimoni. Gli eventi più recenti ci hanno messo di fronte:
- dal punto di vista politico a colpi di stato nel continente Africano e alla questione di Taiwan;
- dal punto di vista economico alla crisi energetica;
- dal punto di vista sociale al fenomeno dell’emigrazione;
- dal punto di vista ambientale alla crisi climatica;
- dal punto di vista epidemico al Covid;
- dal punto di vista conflittuale alle due guerre in atto che stanno minacciano l’Europa e il mondo.
Malgrado i dati di cui possiamo disporre, ci troviamo impreparati di fronte ad eventi che arrivano inaspettati e che continuano amaramente a sorprenderci. È la teoria del “cigno nero” che si ripresenta nella sua efficacia e riappare sempre con fattezze diverse.
Il “cigno nero” è una teoria scientifica che descrive un evento non previsto, che ha effetti rilevanti e che, a posteriori, viene razionalizzato e giudicato prevedibile, ma con il senno di poi. La teoria è stata sviluppata da Nassim Nicholas Taleb per spiegare proprio:
- l’importanza di determinati eventi rari, ma di grande impatto, difficili da prevedere, che esulano da ciò che normalmente ci si attende in campo storico, scientifico, finanziario e tecnologico;
- l’impossibilità di calcolare con metodi scientifici la probabilità di eventi rari e carichi di conseguenze;
- le distorsioni psicologiche che impediscono alle persone (sia come individui sia come collettività) di cogliere l’incertezza e il ruolo enorme degli eventi rari nell’andamento della storia.
Resta una egoistica miopia che crea muri sensoriali e impedisce di tenere conto e di comprendere gli evidenti problemi degli altri. Ma tali problemi alla fine si ripercuoteranno su tutti destabilizzando il presunto ordine mondiale e il nostro apparente sicuro e consueto stile di vita.
La mappa non è il territorio
Per meglio comprendere il grado di indeterminatezza attuale e perché ci si lascia sempre sorprendere dai fatti è opportuno ricordare una affermazione dei geografi: “La mappa non è il territorio”. Il concetto dietro a tale locuzione è stato introdotto dal filosofo e scienziato Alfred Korzybski[1]. Egli voleva evidenziare che la rappresentazione o la descrizione di qualcosa non è mai la stessa cosa in sé. Le descrizioni della realtà, anche se realizzate sulla base di una enorme mole di dati, non riusciranno mai a definirla in maniera adeguata: si tratta solo di percezioni e di semplificazioni limitate e soggettive. La realtà è sempre un’entità complessa, multiforme e dinamica, mentre le rappresentazioni che si utilizzano per descriverla, ad esempio la mappa (che equivale alla nostra comprensione o interpretazione) non può catturare completamente la ricchezza e la complessità del territorio (la realtà o l’esperienza).
Una weltanschauung in cerca di autori
Se il profondo cambiamento tecnologico di tipo post-umanista che stiamo vivendo ha sicuramente modificato nelle persone la stessa percezione del pianeta, delle sue distanze, del suo spazio fisico, delle sue risorse, allora è essenziale riflettere anche sul modo in cui queste trasformazioni influenzano il nostro rapporto con il pianeta e la responsabilità che abbiamo nei confronti degli altri. Ciò richiederà, nel bene e nel male, la creazione di una nuova weltanschauung globale, che ancora tarda a venire o per lo meno risulta ancora incompiuta e in “cerca di autori”.
Le tecnologie digitali che creano la realtà virtuale e/o la realtà aumentata hanno introdotto nuove dimensioni geografiche che vanno oltre la tradizionale comprensione dello spazio e della realtà. Tali ambienti virtuali consentono agli utenti:
- di immergersi in mondi digitali paralleli che sono del tutto inventati nelle tante e nuove dimensioni del metaverso il cui l’unico limite è la fantasia;
- di avere oggetti ed elementi grafici e testuali che si sovrappongono alla realtà, creando esperienze sensoriali ampliate che possono alterare la dimensionalità e la percezione fisica dello spazio reale visitato.
Il mondo in una stanza
I cambiamenti “territoriali” apportati dalle nuove frontiere digitali hanno toccato anche la sfera personale e lo spazio dedicato allo studio e soprattutto al lavoro, basti pensare all’ampia diffusione dello smartworking. Si è ridefinito in tal modo anche lo spazio professionale in cui svolgere la propria attività lavorativa. Il lavoro in remoto ha ridotto l’importanza della stessa presenza fisica del professionista nel luogo di lavoro e ampliato il concetto degli spazi lavorativi, degli spazi comunicativi e delle relazioni professionali.
Le piattaforme come i social media, infine, creano spazi digitali sovranazionali in cui le persone interagiscono, condividendo esperienze e costruendo relazioni.
Si sfumano anche in questo caso del tutto i confini tra spazio fisico e virtuale. Non esiste quindi solo il senso di appartenenza a livello di Stato e di Nazione, ma anche e soprattutto nelle nuove generazioni quello legato alla “tribù digitale” di appartenenza.
[1] Alfred Korzybski ha introdotto il concetto “la mappa non è il territorio” nel suo lavoro principale intitolato “Science and Sanity: An Introduction to Non-Aristotelian Systems and General Semantics” (Scienza e sanità: un’introduzione ai sistemi non-aristotelici e alla semantica generale). Il libro, pubblicato nel 1933, esplora le sue idee sulla natura della percezione, del linguaggio e della realtà.