Il momento della valutazione finale a scuola è sempre occasione di dibattiti, contenziosi e polemiche. Recentemente ha suscitato una certa eco la sentenza del Tar del Lazio (Sez. III bis, 3/08/2023, n. 13042)[1] che ha annullato la decisione di un Consiglio di classe – assunta peraltro all’unanimità – di non ammissione alla classe seconda di un’alunna di 11 anni di una scuola secondaria di primo grado di Tivoli.
La vicenda è nota: in sede di scrutinio finale l’alunna registrava una insufficienza grave e altre cinque insufficienze lievi in altrettante discipline, tanto da indurre appunto il Consiglio di classe a deliberare la non promozione alla classe successiva. La decisione veniva impugnata dalla famiglia della ragazzina davanti al Giudice amministrativo che accoglieva il ricorso annullando il provvedimento di non ammissione e imponendo l’obbligo all’organo collegiale di una nuova valutazione in merito.
I criteri di non ammissione
Com’è noto la materia è regolata dall’art. 6 del D.lgs. 13 aprile 2017, n. 62, che prevede la possibilità per il Consiglio di classe di non ammettere, con adeguata motivazione, un alunno alla classe successiva o all’esame finale del primo ciclo “nel caso di parziale o di mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline”. Lo stesso articolo stabilisce però che “nel caso in cui le valutazioni periodiche o finali delle alunne e degli alunni indichino carenze nell’acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline, l’istituzione scolastica, nell’ambito dell’autonomia didattica e organizzativa, attiva specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento”.
Nel caso della scuola in questione, i vari organi collegiali, nella determinazione dei criteri per l’ammissione alla classe successiva, prevedevano come margine di tolleranza la presenza di non più di un’insufficienza grave e di due insufficienze lievi (l’alunna in questione presentava una insufficienza grave e cinque lievi).
I motivi di accoglimento del ricorso
Queste annotazioni preliminari rivestono un’importanza fondamentale per comprendere i motivi che hanno portato il Tar ad accogliere il ricorso dei genitori dell’alunna. Ad esempio, proprio in riferimento all’ultimo punto riportato (numero di insufficienze registrate), i giudici amministrativi rilevano che non può esserci un’automatica corrispondenza tra numero di insufficienze e non ammissione, poiché “la non ammissione alla classe successiva nella scuola media inferiore deve essere considerata un’eccezione, dato che anche quando si registri un’insufficiente acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline la non ammissione non è automatica ma ‘può’ essere deliberata con adeguata motivazione”.
Il ragionamento dei giudici
E questo per una serie di motivi che schematicamente riassumiamo dal ragionamento dei giudici:
a. il giudizio di non ammissione alla classe successiva non deve essere considerato quale “provvedimento afflittivo o sanzionatorio, rappresentando piuttosto un atto con finalità educative e formative, che si sostanzia nell’accertamento della necessità di rafforzare le proprie competenze ed abilità per affrontare senza sofferenza e maggiori possibilità di piena maturazione culturale l’ulteriore corso degli studi”;
b. per questo motivo, l’eventuale presenza di lacune o insufficienze in una o più materie, deve sollecitare il Consiglio di classe ad assumere decisioni che non vadano necessariamente nella direzione della non ammissione alla classe successiva (se non come estrema ratio), ma ad attivare “specifiche strategie per il miglioramento dei livelli di apprendimento”, dando la possibilità al minore “di recuperare il deficit di apprendimento riscontrato, colmandolo eventualmente nel corso del successivo anno scolastico”;
c. proprio per il carattere educativo e formativo che assume la valutazione, l’eventuale (ed eccezionale) non ammissione si può giustificare “solo all’esito negativo dell’esame predittivo e ragionato delle possibilità di recupero in più ampio periodo scolastico”. Tale esame complessivo non può che essere svolto tenendo conto del livello di apprendimento raggiunto “anche nei periodi immediatamente precedenti a quello nel quale si sono registrate le carenze eventualmente da recuperare”.
Secondo il TAR, c’è un difetto di motivazione
Per tutte queste ragioni, i giudici amministrativi sottolineano che la non ammissione alla classe successiva, anche se ci si trova di fronte a un quadro dell’andamento scolastico critico, come quello del caso in esame, “deve essere assistito da una più pregnante motivazione, che non si limiti semplicemente a trarre le conclusioni e a dare contezza della parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento in una o più discipline, dato che – come si ritrae dalla lettura della norma su indicata [D.lgs. 62/2017] – quest’ultima ne costituisce un presupposto, ma non può essere la ragione determinante a fondamento della delibera di non ammissione alla classe successiva”.
Secondo i giudici, pertanto, vi è un difetto di motivazione nella decisione del Consiglio di classe in quanto “manca quella valutazione complessiva dell’andamento scolastico dell’allieva che, anche tenuto conto della condotta mostrata, dei progressi registrati e delle azioni di recupero poste in essere, sulla base di una corretta interpretazione delle norme, deve caratterizzare la scuola dell’obbligo e concretizzarsi in un esame predittivo e ragionato delle possibilità di recupero dell’alunna in un più ampio periodo”.
I dubbi di Valditara e le certezze di Galli della Loggia
Fin qui l’aspetto tecnico-giuridico della questione. Il caso ha sollecitato, com’era prevedibile, una serie di prese di posizione, primo fra tutti quello del Ministro Valditara che, riservandosi di appurare se vi siano stati difetti procedurali nell’operato della scuola di Tivoli, ha annunciato di aver costituito un gruppo di lavoro composto da esperti nel diritto scolastico e amministrativo “per definire norme più stringenti affinché, nel rispetto dei diritti di ogni cittadino e fatte salve le verifiche sulla regolarità delle procedure, non vengano messe in discussione valutazioni puramente tecniche che presuppongono specifiche competenze interne all’ordinamento scolastico”[2].
Una richiesta più pressante in tal senso è stata avanzata dall’opinionista Ernesto Galli della Loggia che, commentando la sentenza del Tar sulle pagine del Corriere della Sera[3], ha sollecitato il Ministero a costituirsi sempre in giudizio a difesa dei Consigli di classe, tramite l’Avvocatura dello Stato, in tutti i gradi fino al Consiglio di Stato, “almeno i genitori denuncianti saranno avvertiti che il passo che vogliono intraprendere non sarà di sicuro una passeggiata e magari costerà anche qualcosina”. Ma Galli della Loggia, in senso più generale, punta il dito contro una normativa che ha “consentito una presenza sempre più intrusiva delle famiglie (del loro punto di vista, ma soprattutto del loro interesse a veder promossi i figli) in tutte le decisioni della scuola”. A questo proposito non viene risparmiata neppure la “ridicola” autonomia di cui godono le scuole, nell’ambito della quale “le famiglie sono divenute una specie di permanente ‘comitato dei consumatori’, i dirigenti scolastici – gli austeri, nobili presidi di un tempo – altrettanti patetici addetti al ‘customer care’ e gli insegnanti i succubi quotidiani delle chat delle mamme e dei babbi”.
C’è una funzione formativa nella valutazione?
Quali riflessioni si possono fare in merito a questa vicenda e alle altre simili che ogni anno si ripresentano?
La funzione formativa della valutazione, così fortemente presente nei documenti ufficiali della scuola italiana, è uno dei principi più difficili da mettere in pratica in quanto si scontra con una impostazione didattica complessiva che vede nel voto il suo punto di massima espressione. È diffusa l’idea nell’immaginario collettivo (ma non solo) che, nel nostro sistema d’istruzione, lo scopo della scuola non sia apprendere o appassionarsi allo studio, ma prendere un bel voto. Conseguentemente, molto spesso, quello che si studia in vista della votazione viene sistematicamente messo nel dimenticatoio dopo la verifica. Superare questa impostazione “produttivistica” della scuola e dare dignità formativa alla valutazione non è semplice. Significa adottare un paradigma diverso nel processo di insegnamento-apprendimento e puntare l’attenzione sullo sviluppo di conoscenze e competenze attive degli studenti. Questo approccio implica infatti un ruolo diverso degli stessi studenti, un loro coinvolgimento più diretto, superando l’impostazione attuale che li vede trattati quasi sempre come destinatari di valutazione e quasi mai come protagonisti della loro valutazione. Per esempio: in quante scuole si promuove “ordinariamente” l’autovalutazione degli studenti?
Certe attenzioni “morbose” verso la valutazione forse nascono anche da queste distorsioni.
Recupero, trasparenza e correttezza
La normativa indica la possibilità di adottare forme “alternative” alla bocciatura, soprattutto nel primo ciclo di istruzione, come la messa in atto di strategie specifiche per il miglioramento degli apprendimenti (sistemi di ausilio e di supporto per il recupero). Questo vuol dire che, prima di pervenire ad eventuali decisioni di bocciatura, devono essere esperiti e realizzati interventi finalizzati a superare, per quanto possibile, le lacune. E in ogni caso, laddove si ritiene di procedere a una decisione di non ammissione alla classe successiva, una rigorosa motivazione appare dirimente per evitare possibili contenziosi, come nel caso trattato sopra.
Proprio perché la valutazione è un terreno “scivoloso” e fonte di contenziosi e scontri, appare quanto mai opportuno agire in una dimensione di trasparenza e correttezza delle procedure. Ad esempio, i criteri sulla base dei quali il Consiglio di classe provvede ad effettuare la valutazione degli apprendimenti dovrebbero essere almeno conosciuti dagli studenti (oltre che dalle rispettive famiglie) in modo che si crei una forma di coinvolgimento degli studenti rispetto al processo valutativo che li interessa in modo diretto, meglio ancora se ciò è accompagnato da quelle “ordinarie” forme di autovalutazione prima richiamate.
Manca ancora la cultura della valutazione
Conclusivamente e in senso più generale, possiamo sottolineare che il processo valutativo degli apprendimenti è troppo importante per essere confinato in una dimensione meramente prestazionale (assegnare voti sulla base di “prodotti”), come di fatto avviene oggi in molte scuole e nell’immaginario di gran parte dell’opinione pubblica. E forse il Ministro dovrebbe non solo preoccuparsi di “definire norme più stringenti” in tema di procedure valutative, ma di promuovere una cultura della valutazione come promozione e controllo (feedback) dei processi di apprendimento. L’attenzione dovrebbe essere puntata non tanto sul “pesare” la prestazione, ma nel mobilitare interesse, impegno e passione verso la conoscenza. Depotenziare la funzione classificatoria e selettiva della valutazione a favore di quella formativa vuol dire abbandonare il paradigma prestazionale “dove ciò che conta è la contabilizzazione di ciò che si è appreso e la sua formalizzazione attraverso il voto (…) È un problema di formazione dei docenti e dei dirigenti, ma è anche un problema culturale e pedagogico, che ha a che fare con il significato che si attribuisce all’apprendimento e forse alla stessa esperienza scolastica e all’andare a scuola”[4].
[1] Vedi “Il caso dell’alunna promossa dal TAR”.
[2] Valditara: “Al Tar le verifiche sulle procedure, ma nel merito decidono i docenti”.
[3] Galli della Loggia, Scuola: i Tar, le promozioni (e le famiglie).
[4] M. Maviglia (2017), La valutazione, ovvero l’ansia da prestazione, in “Scuola dell’infanzia – Web Magazine”, Edizioni Giunti, Firenze, 18 aprile 2017.