Paolo Ferrario, sulle colonne del quotidiano Avvenire del 5 agosto 2023, ha fatto una disamina molto puntuale e articolata sul problema della diminuzione degli alunni nella scuola italiana negli ultimi cinque anni, 2018-2023. Ha scritto che “è scomparsa una città grande come Messina”, aggiungendo che a Treviso, nell’anno scolastico 2023/2024, undici scuole primarie non avranno la classe prima per mancanza di alunni. Anche in quella che fu la dinamica natalità del Veneto non si riesce a raggiungere la soglia minima di 15 alunni per formare una classe. È inutile ribadire che l’allarme rosso è scattato in tutto il Centro-Nord ed anche nell’ex-prolifico mezzogiorno.
Qualche dato
Con riferimento alla sola prima classe della scuola primaria, siamo passati dai 428.055 iscritti nell’a.s. 2022/2023 ai 422.475 del 2023/2024 con una perdita in un solo anno di ben 5.580 alunni. Sempre in relazione ai numeri della scuola elementare, la situazione negli ultimi 5 anni, dal 2018 al 2023, registra un calo a dir poco preoccupante: nel 2018/2019 risultavano iscritti 2.498.521 alunni distribuiti in 129.354 classi; nel 2022/2023 si è registrato il seguente dato: 2.260.929 alunni e 123.755 classi, con una perdita secca di 237.592 alunni e circa 5.600 classi.
Con questo trend demografico, nel 2033 l’Italia avrà un milione di studenti in meno. Una situazione drammatica!
Le ragioni di questa decrescita sono molteplici. Una per tutte: l’emigrazione ogni anno di oltre 100.000 giovani italiani che decidono di lavorare in altri paesi europei. Si tratta delle fasce giovanili tradizionalmente più votate alla procreazione, che spesso non fanno più ritorno in Italia.
Situazione decisamente paradossale: il nostro paese si accolla i costi della formazione dei giovani, compresi gli anni dell’Università ma, una volta completati gli studi, il frutto di questo patrimonio professionale va a supporto dello sviluppo di altri paesi europei ed extraeuropei.
Invertire questa tendenza, in atto da almeno un decennio, non sarà impresa facile. In questo momento pare proprio impossibile, considerato il divario delle condizioni economiche (ma non solo) che i partner europei garantiscono rispetto alle lungaggini e allo scarso interesse dell’Italia nei confronti di questo Know-how che fugge.
Povertà economica e povertà educativa
Da un lato, la “miglior gioventù” se ne va, dall’altro il nostro sistema di istruzione registra in molte regioni e nelle periferie urbane delle grandi città una condizione di povertà educativa a dir poco preoccupante. E le disuguaglianze crescono con l’aumentare dell’età dei ragazzi. Iniziano già alla nascita, quando la possibilità di accedere ai servizi per l’infanzia, considerati decisivi per l’uguaglianza delle opportunità di partenza, si scontra con un’offerta ancora profondamente disomogenea sul territorio.
Crescendo, però, i divari, anziché diminuire, continuano ad allargarsi, sia in termini di opportunità ricevute sia di apprendimenti; accompagnano molti minori nel loro percorso formativo, incidendo sul rischio di dispersione scolastica e di abbandono precoce.
La pandemia, la guerra russo-ucraina, le crisi economiche ricorrenti, l’aumento del costo della vita hanno fatto crescere in modo considerevole anche la povertà sia assoluta che relativa in cui molte famiglie versano. Tutto questo sta causando uno squilibrio generazionale senza precedenti, che incide negativamente sulle opportunità di accesso e di successo e di accesso al sistema formativo.
I ragazzi che abbandonano la scuola con al massimo la licenza media sono il 12,7% (2022). In Sicilia la quota nello stesso anno sale al 21,2%. Nell’anno scolastico 2020/2021, in base alle rilevazioni Invalsi, circa il 40% dei ragazzi di terza media non ha raggiunto un livello di apprendimento adeguato in italiano, attestandosi sui 2 livelli più bassi. Le tre maggiori regioni meridionali, Sicilia, Puglia e Campania, sono ai primi posti per uscite precoci dal sistema di istruzione.
Né incoraggiano i risultati più recenti. Secondo il rapporto nazionale Invalsi 2023, il gap negli apprendimenti resta ancora elevato. Anche quest’anno uno studente su due esce dalle superiori senza aver raggiunto un livello adeguato di competenze in italiano e matematica. L’indebolimento dei risultati è su tutte le discipline osservate anche nella seconda primaria: i risultati di Italiano e di Matematica sono più bassi di quelli registrati nel 2019 e nel 2021.
Per non ignorare l’allarme
In un contesto come il nostro in cui la povertà educativa si sovrappone alla “fuga dei cervelli”, occorre fare di tutto per “non perdere nessuno”. Il monito di don Lorenzo Milani “la scuola ha un problema: i ragazzi che perde” resta purtroppo un allarme che si ripropone oggi come sessant’anni fa. Pare, dunque, che le risorse impiegate e gli strumenti utilizzati non abbiano prodotto l’effetto desiderato. Va sottolineato che il problema non è solo scolastico ma investe tutti molteplici livelli della società: famiglia ed enti locali in primis. La dispersione scolastica, infatti, si contrasta con la presenza di comunità coese e solidali, non con l’impegno di singole istituzioni.
Considerata la scarsa efficacia delle azioni finora messe in campo, diventa necessario intraprendere strade diverse.
La dispersione scolastica, esplicita e implicita, si può prevenire con alcune soluzioni strutturali.
Ad esempio, viene frequentemente invocata l’estensione del tempo-scuola nella primaria ma anche negli altri ordini di scuola. Il tempo pieno può essere una soluzione, soprattutto in quelle realtà nelle quali enti locali e associazionismo non offrono opportunità educative pomeridiane.
Non disponiamo però di dati che suffraghino una minor dispersione degli alunni che frequentano il tempo pieno rispetto a quelli del tempo normale. Quindi, occorre essere cauti anche nell’investire il tempo pieno di aspettative di cui non conosciamo gli esiti.
Sicuramente la preparazione dei docenti costituisce un’arma che può prevenire il fenomeno della disaffezione scolastica e, più in generale, del drop out. La presenza stessa di figure tutoriali costituisce un supporto che va nella giusta direzione.
Ma riteniamo che ci possano essere anche altre soluzioni decisamente più incisive.
Lavorare nei bienni iniziali
Considerato il costante calo degli alunni, una scelta finalizzata a ridurre sensibilmente i rischi della dispersione è sicuramente rappresentata dalla riduzione del numero degli studenti nelle classi dei bienni iniziali di ogni grado scolastico.
Prendere come bersaglio le prime due classi della scuola primaria, della secondaria di primo e di secondo grado, potrebbe costituire per i docenti un’indubbia opportunità di personalizzare realmente le strategie didattiche, aggredendo gli svantaggi nei tempi in cui possono essere effettivamente ridotti o anche annullati, quando la disparità tra gli alunni non è eccessiva.
La scelta del MIM con il decreto del 5 aprile 2023, n. 63, che stanzia 150 milioni nelle classi terze, quarte e quinte della scuola secondaria di II grado per retribuire la figura del tutor e dell’orientatore può costituire un rafforzamento di quanto si potrebbe fare nell’istruzione superiore. Tale scelta però ha senso se si parte da una sistematica riduzione della numerosità nelle prime classi. Altrimenti si rischia di intervenire quando “i buoi sono già scappati”. Si pensi alle difficoltà di gestire classi di 30 studenti (e a volte, anche più numerose) negli istituti professionali.
La dispersione scolastica incide pesantemente, come sappiamo, sui primi anni della scuola secondaria di II grado. È dunque è in quella fascia di età che occorre intervenire.
La situazione attuale
In base al DPR n. 81/2009 che si occupa della riorganizzazione della rete scolastica e del razionale ed efficace utilizzo degli insegnanti, nella scuola dell’infanzia le sezioni possono raggiungere il numero massimo di 29 bambini, mentre nella scuola primaria il tetto non superabile è di 27 iscritti. Nella scuola secondaria di primo grado, in caso di un’unica prima, il numero degli iscritti può essere elevato fino a 30 alunni. Lo stesso criterio vale anche per la scuola secondaria di secondo grado.
Il DPR 81/2009 è l’espressione della situazione di un quindicennio fa, quando la popolazione scolastica stava conoscendo un discreto aumento in tutti i gradi dell’istruzione, ma anche della grave crisi economica che, a seguito del fallimento della Lehman Brothers, una delle banche d’affari più grandi al mondo, ha coinvolto anche il nostro paese.
Oggi la situazione è cambiata: mantenere i criteri fissati in quegli anni è decisamente incoerente considerando il trend demografico attuale. Inoltre dal 2010, con la legge 170 che ha riconosciuto i diritti degli studenti con DSA, le classi hanno sperimentato una nuova complessità che rende sicuramente più difficile gestire situazioni con un numero di alunni così elevato.
Ripensare i criteri
Alla luce del significativo decremento demografico che sta coinvolgendo attualmente il nostro sistema d’istruzione, che coinvolgerà presto anche la scuola secondaria di secondo grado, occorre ripensare i criteri fissati nel 2009.
Il surplus di insegnanti che tale diminuzione comporta potrà rappresentare un “bacino di professionalità” per introdurre una riforma radicale dell’utilizzo dei docenti stessi.
Diminuire il tetto massimo attualmente in vigore potrebbe costituire un significativo supporto a politiche educative finalizzate a contrastare il fenomeno della dispersione scolastica e a promuovere strategie didattiche realmente personalizzanti.
Ad esempio, i criteri per la formazione delle classi prime e seconde dei tre gradi scolastici potrebbero essere così modificati:
- tetto massimo di 15 alunni in presenza di studenti con disabilità o con DSA;
- tetto massimo di 20 allievi negli altri casi.
Questa scelta, unitamente all’introduzione di figure tutoriali, potrebbe diventare la condizione di base per un reale cambiamento delle politiche educative inclusive, di fatto e non solo dichiarate. Ogni ragazzo “perso”, oltre ad essere una sconfitta per la scuola, è anche una “risorsa negata”. Un Paese in declino demografico, come il nostro, non può permettersi questo spreco!