È stato ricordato in questi giorni il centenario della nascita di don Lorenzo Milani. Le ricorrenze rinnovano memorie che, in qualche caso, scatenano anche polemiche e contrapposizioni. Comunque sia, l’insegnamento del Priore è ancora oggi molto apprezzato, soprattutto perché estremamente attuale. Si pensi alla sua battaglia in favore di una scuola che fosse vicina ai bisogni degli esclusi e degli emarginati, alla didattica laboratoriale, all’importanza del tempo pieno, all’educazione delle bambine nelle realtà sperdute dei nostri monti, all’invenzione, insieme a Mario Lodi, della scrittura collettiva, all’anticipazione della peer education (mutuo insegnamento), all’obiezione di coscienza, ad una visione educativa basata sulla centralità della parola come strumento di emancipazione.
Barbiana è la scuola del reale (oggi, diremmo dei compiti autentici), della profondità del sapere, della liberazione delle migliori energie che ogni ragazzo custodisce.
Solo la lingua…
Don Milani non è un linguista, anche se nella sua famiglia la conoscenza delle lingue antiche e moderne (e della cultura in generale) era molto presente. Il bisnonno paterno, Domenico Comparetti, conosceva oltre dieci lingue. La nonna materna, Laura Comparetti, fu poetessa, mentre il nonno, Emilio Weiss, di origine boema, a Trieste fu uno degli amici più intimi di Italo Svevo. Il padre, Albano, laureato in chimica, era appassionato anche di saggistica e filosofia. La madre, Alice Weiss, fu allieva di James Joyce alla Berlitz School di Trieste.
La radicalità della sua conversione avvenuta nel 1943 nel momento in cui decide di farsi prete va di pari passo con uno stile comunicativo asciutto, essenziale, che mira alla sostanza e rifugge formalismi e inutili orpelli. La missione che egli si è imposto è quella di riconsegnare ai poveri la coscienza della loro dignità e questa rivoluzione può avvenire solo “dando loro la parola”.
Dare la parola
La sua parola non accarezza ma scuote; richiama da vicino lo stile e l’intensità dei gesti e dei discorsi di Cristo… L’istruzione dei poveri è il vero volto dell’amore verso gli esclusi. Ma l’amore distingue, sceglie, divide, denuda: ti accusa, ti inchioda alla tua croce, perché ti vuole salvo a tutti i costi (Rondanini, 2017).
Don Milani unisce una visione educativa basata sull’amore incondizionato per i ragazzi alla conquista da parte loro della parola. Invitato il 31 gennaio 1962 dall’assessore all’Istruzione del comune di Firenze Fioretta Mazzei ad un incontro con i direttori didattici, egli denuncia l’ingiusta sudditanza dei suoi parrocchiani che posseggono solo la lingua “che serve per vendere i polli al mercato di Vicchio il giovedì. Una lingua così povera non è assolutamente sufficiente per ricevere la predicazione evangelica” (Gesualdi, 2005). Bisogna, dunque, essere “specialisti solo nell’arte del parlare … perché è solo la lingua che fa eguali”. Per queste ragioni, il suo apostolato è cominciato sempre dalla scuola e dall’educazione dei giovani.
Le regole dello scrivere
A Barbiana, raccontano i ragazzi in Lettera a una professoressa, le regole che sollecitano a scrivere erano le seguenti:
- aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti;
- sapere a chi si scrive;
- raccogliere tutto quello che serve;
- trovare una logica su cui ordinarlo;
- eliminare ogni parola che non serve;
- eliminare ogni parola che non usiamo parlando;
- non porsi limiti di tempo.
Siamo, dunque, nel polo opposto delle richieste avulse dalla realtà che caratterizzavano la prova d’esame di italiano in cui ai ragazzi era richiesto di svolgere un tema dal titolo “Parlano le carrozze ferroviarie”.
La pedagogia dell’aderenza
Rispettosi della “pedagogia dell’aderenza”, era la realtà dei fatti e dei problemi che doveva guidare la motivazione ad imparare degli allievi del Priore.
Innanzi tutto “perché” si scrive. L’oggetto non doveva essere futile e destinato a “frigger aria e rifrigger luoghi comuni”. E poi avere un destinatario. Lettera a una professoressa affronta un tema di importanza capitale per la scuola, quello della bocciatura, e si rivolge a professoresse e professori disattente/i all’esistenza dei ragazzi e a tutto ciò che sapevano, in quanto frutto della loro esperienza di vita.
La citazione, ripresa dalla Lettera, anticipa la regola delle cinque W (Why, What, Who, Where, When) poste alla base dell’elaborazione di un buon testo scritto. Nel giornalismo si fa riferimento alla piramide rovesciata (vedi schema).
Si tratta, come si evince dalla figura, di uno schema finalizzato ad orientare il piano di scrittura di un articolo, di un editoriale, di una rubrica… in modo da assicurare essenzialità, accuratezza, brevità e chiarezza.
L’arte del parlare e dello scrivere
Scrivono i ragazzi in Lettera a una professoressa che il fine ultimo della scuola è: “dedicarsi al prossimo” (fai strada ai poveri senza farti strada); quello immediato: “da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere”.
Per queste ragioni, don Milani mette al centro della sua missione educativa e del suo insegnamento l’arte del parlare e dello scrivere. In una pagina della Lettera, i ragazzi illustrano una “tecnica umile”, ma estremamente efficace.
Noi dunque si fa così…
Noi dunque si fa così. Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo. Come viene viene.
La progettualità del testo, come si evince dalla citazione, è incentrata sui saperi dei ragazzi e sulle informazioni che ognuno raccoglie nei differenti contesti di vita. Non si scrive però per sé stessi o per i professori, ma per affrontare e approfondire un “tema della realtà”. A Barbiana, dunque, l’elaborato è di tutti e di ciascuno. Una volta lanciato il tema da sviluppare, si raccolgono le idee espresse da ogni ragazzo e, dopo aver “buttato giù” un copione grezzo, si comincia il lavoro di affinamento e di “profondità”. Come? Eliminando le “parole da levare”, le frasi troppo lunghe, le ripetizioni, le parole difficili…; i ragazzi aggiungono anche le “bugie”! Il testo, infatti, deve essere sincero, non comunicare falsità.
La scrittura collettiva
Nella Lettera a una professoressa leggiamo: “Basta uno scritto solo in tutto l’anno, ma fatto tutti insieme”. Il testo collettivo non deve essere confuso con i meccanici esercizi ortografici della scuola tradizionale finalizzati ad uno sterile formalismo. La scrittura è una forma di dialogo, serve per comunicare. E si comunica solo quando ci si rivolge ad un interlocutore preciso. Francuccio Gesualdi e Corzo Toral Josè Luis (2002) affermano nel libro “Don Milani nella scrittura collettiva”: “non dialoga lo scrittore di professione che monologa dal suo pulpito, né lo scolaro che non riesce a dialogare neppure con sé stesso, preso com’è dalla preoccupazione per la forma più che dall’interesse per il contenuto”.
L’incontro di don Milani con Mario Lodi ha rafforzato (sicuramente influenzato) la forma del testo collettivo che il Priore aveva in mente. Lo stesso maestro di Piadena confessa di essere arrivato a Barbiana quando don Lorenzo stava maturando questa scelta. “In questo posso aver agevolato le sue decisioni”.
La prima lettera scritta dai ragazzi di Barbiana ai compagni di Piadena è del novembre 1963, accompagnata da uno scritto di don Milani in cui egli afferma che l’arte dello scrivere consiste nell’esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo. Riprende poi quella che egli definisce “tecnica piccina” (quella sopra illustrata).
Dopo aver scritto il testo con le strategie di questa tecnica, l’elaborato viene fatto visionare da un estraneo, dal quale si accettano consigli soprattutto in merito alla chiarezza espositiva. Poi, polemicamente concludono i ragazzi, dopo che s’è fatta tutta questa fatica, seguendo le regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: “Questa lettera ha uno stile personalissimo”.
Essere padroni della parola
Essere padroni della parola significa educare i giovani all’impegno sociale e civile, finalizzato esclusivamente alla ricerca della verità. Perché, scrive don Lorenzo nel 1954 ai genitori di San Donato Calenzano: “Quando avete buttato nel mondo d’oggi un ragazzo senza istruzione avete buttato in cielo un passerotto senza ali” (Gesualdi, 2005). E insiste dicendo ai genitori che se trovano naturale mandare a lavorare i ragazzi con il “fagottino del mangiare”, deve essere ancora più giusto mandarli nella vita con “il fagottino del sapere”.
Alcuni riferimenti
Gesualdi F., Corzo Toral J. L., Don Milani nella scrittura collettiva, EGA- Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2002.
Gesualdi M., Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, San Paolo, Milano, 2017.
Gesualdi M. (a cura di), Don Lorenzo Milani. La parola fa eguali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2005.
Rondanini L., Don Lorenzo Milani. La lezione continua, Tecnodid, Napoli, 2017.