“Cosa farai da grande” è la domanda che più spesso viene indirizzata agli adolescenti quando desideriamo dimostrare loro che siamo interessati al loro futuro. Ma è una richiesta inopportuna e obsoleta, anche fuorviante, per quanto concerne, almeno, l’intenzione di tentare un dialogo a proposito del futuro con la persona che ci sta davanti.
Non è una richiesta innocua per una serie di ragioni. Cerchiamo di motivare questa affermazione e, contestualmente, di ricercare altri interrogativi da porre quando la nostra curiosità e le nostre preoccupazioni ci porteranno a rivolgerci a chi vorremmo probabilmente aiutare a riflettere su ciò che ci piacerebbe avvenisse o su ciò che temiamo possa accadergli nel tempo che verrà.
Cosa farai da grande?
Chiedendo “cosa farai da grande” dichiariamo implicitamente che il ragazzo è ancora piccolo, che non potrà continuare a fare ciò che sfa facendo, che si trova in una fase ‘provvisoria’ che dovrà smetterla di essere bambino, adolescente perché prima o poi diventerà grande, adulto e dovrà fare necessariamente dell’altro perché ciò che sta facendo non sarebbe ‘cose da grandi’. Chiedendogli ‘cosa farai da grande’, inoltre, inevitabilmente attiriamo la sua attenzione su un verbo (fare) che di per sé è ricco di azioni, ma non sufficienti. Si può fare un gesto, si può fare baccano, fare un passo avanti, fare una buona o cattiva impressione, ma anche ‘fare caso’, ‘fare finta’, ‘fare fronte’, ‘fare centro’, ‘fare l’impossibile’, ‘fare mente locale’; o anche ‘lasciar fare’, ‘fare fortuna’, ‘non far nulla’, ‘darsi da fare’, ‘fare amicizia’, ‘fare volontariato’, ecc.
Con la domanda questo fare non basta. Lo si invita di fatto, a fare altro: un lavoro, una professione (l’avvocato, l’informatico, l’infermiere, il calciatore, l’attrice, ecc.) così come attestano le risposte che il più delle volte ottengono coloro che formulano domande di questo tipo. A differenza di come accade frequentemente dal punto di vista dell’orientamento (Soresi, 2022, 2023[1]), sarebbe importante invece considerare maggiormente risposte del tipo ‘E chissà’, ‘Potrei dirti cosa mi piacerebbe fare e dove vorrei vivere’, ‘come e dove trascorrere il tempo libero’. Oppure ‘Ci sto ancora pensando’, o anche ‘Ciò che desidero non è detto che sia proprio ciò che farò, e poi tanto fare, fare, fare… a che pro?’. Sono risposte più interessanti e più vere che aiutano a proiettarsi in maniera più pertinente verso futuri possibili.
Il lavoro futuro non sarà quello di una volta
La domanda “Cosa farai da grande” invita a rispondere al singolare o, nel migliore dei casi, in modo dubitativo (l’avvocato o l’ingegnere) mentre, da tempo ormai, si ritiene che l’idea di poter svolgere un’unica professione per tutta la vita è ingenua, antiquata e inadeguata per il futuro, che attiene al passato ormai lontano. Sono molte le indagini che ci forniscono dati molto diversi rispetto al mondo del passato, ci riferiamo soprattutto a quelle condotte negli USA, ma la situazione europea non dovrebbe essere molto dissimile. Secondo quanto recentemente ha diffuso l’agenzia Zippa, che si occupa di tematiche associate alla ricerca di lavoro, si può ritenere che in questi ultimi anni (dal 2019 per la precisione):
- una persona adulta, mediamente, ha già cambiato lavoro 12 volte;
- un lavoratore è rimasto alle dipendenze dello stesso datore di lavoro per 4,3 anni;
- il 91% dei Millennials prevede di cambiare lavoro ogni 3 anni.
Nel gennaio 2020, il 75% dei giovani tra i 16 e i 19 anni è stato con i propri datori di lavoro per 12 mesi o meno. Sempre negli USA, i lavoratori ‘bianchi’, in genere, rimangono nello stesso posto di lavoro più a lungo degli ispanici, dei neri e degli asiatici. Inoltre, e anche questo è importante considerare in sede di orientamento, più elevato è il livello di l’istruzione posseduto, più corti sono i loro periodi di disoccupazione. Le persone che hanno studiato tendono a rimanere con un medesimo datore di lavoro più a lungo; poco più del 50% di queste persone, inoltre, utilizza nella propria attività lavorativa ciò che ha appreso nel corso della frequenza universitaria.
L’importanza dell’‘imprevisto’
“Cosa farai da grande” è una domanda da evitare soprattutto durante le cosiddette fasi di transizione (da una scuola ad un’altra, ad un corso di laurea o da una scuola ad un lavoro) in quanto difficilmente i percorsi formativi effettuati possono essere paragonati ad una superstrada che porta direttamente ad un’occupazione preselezionata e già inseribile nel proprio navigatore. È preferibile far immaginare una ‘rete stradale’ con tanti incroci, traiettorie tortuose e preziose e promettenti deviazioni, rotatorie che possono indicare anche possibilità ed attrazioni che precedentemente non potevano nemmeno essere immaginate perché individuabili, solo, ‘strada facendo’ e dopo essersi messi in moto.
Nell’orientamento queste deviazioni, queste rotatorie sono rappresentate da incontri imprevisti e non programmati, da esperienze coinvolgenti inattese, da problemi e difficoltà non immaginate, da occasioni che anche casualmente potrebbero improvvisamente presentarsi. Quanti di noi si sono trovati di fatto a svolgere un’attività lavorativa diversa che non era stata nemmeno ipotizzata alla fine o all’inizio dei propri percorsi formativi, alla conclusione della frequenza della scuola secondaria o all’iscrizione ad un corso universitario?
Domandare per far riflettere
Il quel “quando sarai grande” si associa facilmente al “quando sarai più maturo” stimolando l’idea che l’identità personale, il valore di una persona, i ‘loro sé futuri’, come direbbero i futurologi, siano strettamente collegati al lavoro, al successo professionale, alla posizione lavorativa più o meno prestigiosa.
Quindi alla domanda di rito “Cosa farai da grande” ne vanno aggiunte altre che, oltre a produrre risposte diverse, potrebbero trasmettere visioni alternative della vita e della stessa progettazione professionale. Basti pensare a cosa si potrebbe rispondere se venisse, per esempio, chiesto:
- “Se dovessi cambiare lavoro, quale ti piacerebbe svolgere?”;
- “Di quale lavoro ci sarà più bisogno nella tua comunità?”;
- “Quale lavoro potrebbe essere per te maggiormente prestigioso?”
- “Quale ti darebbe la possibilità di dedicarti maggiormente ai tuoi interessi?”
- “Quale ti consentirebbe di contribuire maggiormente allo sviluppo sostenibile, alla riduzione delle disuguaglianze, alla realizzazione degli obiettivi 2030 dell’ONU?”. E cosi via.
Forse potremmo concludere dicendo semplicemente: “Dimmi che domande fai a proposito del futuro, e ti dirò a cosa aspiri, di cosa ti occupi e cosa consideri di fatto importante oggi, nel tuo presente”.
Lavoro e identità
Forse, per quanto importante debba essere considerato il lavoro e, in particolare quello dignitoso e di qualità, gli orientatori e gli educatori dovrebbero assicurarci maggiormente che gli interlocutori (clienti, figli, studenti, lavoratori…) non facciano coincidere lo svolgere una professione “di successo” con l’obiettivo finale dell’esistenza umana, con il suo senso di responsabilità nei confronti di altri beni personali e comuni. Il lavoro rappresenta solamente un aspetto della propria identità, il sé professionale che non può però occupare tutti gli spazi che attengono alle persone nella loro completezza: essere membri di una famiglia, di una comunità, essere attive in ambiti diversi ed eterogenei. Quindi, nella classica domanda “Cosa farai da grande” è quel fare e quel da grande che concorrono decisamente a rendere inadeguata la richiesta.
Quelli che seguono sono solo alcuni esempi di come, all’interno di quelli che chiamiamo laboratori di orientamento 5.0 (Soresi, 2022, 2023), potremmo dimostrare il nostro originale interesse nei confronti del futuro di coloro che hanno deciso di parteciparvi.
Cosa farai in futuro?
Per ridurre la distanza tra il richiedente e il rispondente, tra chi è già grande e chi è più piccolo, è bene riferirsi esplicitamente, e da subito, al futuro. Chiedere “cosa farai in futuro”, oltre ad attestare che anche l’interlocutore ne avrà, stimola a ragionare su possibilità, probabilità, tempi e contesti diversi ed alternativi, su azioni che potrebbero essere a tal fine progettate e intraprese. Si potrebbe anche chiedere cosa vorresti che per te (ma anche per altri) accadesse in futuro? Quando incomincerà per te il tuo futuro? Quando sarai completamente immerso nel tuo futuro? Fra quanti anni? Sarà quello che desideri maggiormente o quello che altri avranno ipotizzano per te? Il tuo futuro, come sarà considerato dai tuoi familiari, dai tuoi amici, dai tuoi insegnanti? Cosa puoi dire del futuro che desideri maggiormente, di quello che consideri per te impossibile, di quello che ritieni più probabile, più stimolante, più temibile, più eccitante e così via? ‘Dove si collocheranno i tuoi futuri’, da chi, oltre a te, saranno frequentati? Quanto dureranno?
Futuri possibili
Parlando di futuro è doveroso premettere qualche informazione sul suo significato e sulle tipologie di “futuri” ai quali si potrebbe fare riferimento per l’orientamento. Utile al riguardo è la proposta da Joseph Voros (2003, 2017[2]), studioso australiano. Egli evidenzia che tale costrutto potrebbe suscitare anche sensazioni negative per l’uso, spesso superficiale, che molti ne fanno. Per esempio coloro che sono interessati alla previsione delle evoluzioni e dei cambiamenti, sia negli ambiti della vita quotidiana e privata sia in quelli pubblici: sono matematici e statistici, economisti, ingegneri ed informatici, ricercati soprattutto dal mercato azionario, dal mondo della speculazione finanziaria e dello sviluppo economico e sociale. Voros preferisce usarne il plurale, parlare di futuri potenziali alternativi e, questo, è anche ciò che noi suggeriamo di fare facendo orientamento, con la premessa, anche qui, che non si tratta di fare e ricercare previsioni ‘da azzeccare’.
Tre ‘leggi’ da rispettare
Coloro che sono autenticamente interessati ai futuri accettano prima di tutti i tre presupposti di fondo, come quelli che Amatara[3] (1981) aveva considerato alla stregua di altrettanti principi e premesse a qualsiasi riflessione. Voros parla esplicitamente della necessità di rispettare, argomentandole, tre ‘leggi’.
Il futuro non è predeterminato
La prima si riferisce al fatto che ciò che accadrà non è predeterminato. Come sostiene il principio di indeterminazione di Heisenberg, gli eventi futuri possono assumere specificità diverse e, questo, per diverse e non anticipabili ragioni… perciò oltre a non esserci un singolo e predeterminato futuro, ma potenzialmente infiniti ed alternativi futuri, ha poco senso chiedere di anticiparne uno e circoscriverlo, come spesso si fa nell’orientamento, alle scelte scolastiche e lavorative.
I futuri non sono prevedibili
La seconda sostiene che i futuri non sono prevedibili con certezza in quanto è impossibileraccogliere tutte le informazioni e i dati che potrebbero influenzarli e farli evolvere verso alcune direzioni piuttosto che altre. Pensiamo, per esempio:
- all’influenza delle amicizie future sull’apprendimento e il benessere psicologico;
- alla diversa attrattività di questo o quell’insegnante sull’interesse nei confronti di questa o quella disciplina;
- alla propensione ad investire molto o poco nella formazione;
- allo status socioeconomico e alle sue fluttuazioni possibili;
- allo stato di salute proprio e altrui;
- alla presenza di eventi inattesi, e così via.
Se desideriamo occuparci di futuro dobbiamo allenarci a tollerarne diversi, rassegnarci a scegliere tra i molti e potenziali futuri alternativi.
I futuri sono influenzati dal presente
I risultati futuri, ciò che accadrà, potrà essere influenzato dalle nostre scelte nel presente. Si tratta di possibilità, non di certezze stando anche a quanto affermato dalle due regole precedenti. Ciò significa, però, che il nostro modo di agire e comportarci nel presente potrebbe dar forma a futuri diversi e, anche se non siamo in grado di determinare quale futuro si concretizzerà, questo pensare di poter esercitare una qualche influenza, può farci guardare lontano con un certo ottimismo e considerare importanti le scelte, le decisioni i comportamenti che attiviamo nel presente o che abbiamo già da tempo assunto. Il futuro, i futuri, da sostantivi diventano verbi, indicano azioni, impegni e compiti da assumere, intenzioni, propositi da perseguire e rendono necessariamente attivo e votato al cambiamento anche qualsiasi sessione di lavoro di orientamento in quanto ogni scelta, ogni azione dovrebbe essere realizzata con saggezza in quando non sarebbero prive di conseguenze.
Orientamento come responsabilità di “futuro”
Queste tre ‘leggi’ ci portano innanzitutto a concludere, ed anche questo è importante per l’orientamento, che se da un lato non possiamo prevedere ed anticipare in modo preciso, non possiamo esimerci dalla responsabilità di ciò che accadrà a noi e a coloro con i quali ci troveremo ad agire, al nostro e all’altrui contesto anche futuro e naturale di vita. Dobbiamo, in altre parole, assumerci la responsabilità del futuro che, tra quelli possibili, ci troveremo di fatto a vivere, a trasformare in presenti dovuti anche alle azioni compiute e governate dai ‘riferimenti’, anche valoriali, che riusciremo a mettere in atto. Come Voros anche noi riteniamo che i comportamenti che attiviamo e le scelte che operiamo nei nostri presenti, possano ridurre lo spettro delle possibilità ed influenzare, pertanto, ciò che deve ancora avvenire mentre, di contro, ci troveremo a dover ammettere che nulla ci è possibile a proposito di ciò che è già stato.
Riferimenti bibliografici
Amatara R. (1981). The futures field: Searching for definitions and boundaries, The Futurist, vol. 15,1, pp. 25-29.
Hancock T., Bezold C. (1994). Possible futures, preferable futures, Healt Care Forum Journal, 37, 2, pp. 23-29.
Soresi S. (2021). (a cura di). L’orientamento non è più quello di una volta. Riflessioni per prendersi cura del futuro. Roma: Edizioni Studium.
Soresi S. (2022) L’orientamento inclusivo per un futuro equo e sostenibile. In Pavone, M., Arenghi, Borgonovi A., Ferrucci E., Genovese F., Pepino A., Un ponte tra università e mondo del lavoro per l’inclusione e la vita indipendente, Milano, Franco Angeli, pp. 35-50.
Soresi S. (2023) L’orientamento 5.0: … quello che non si accontenta di valutare e profilare, La Nuova Scuola, in press.
Voros J. (2003). A generic foresight process framework. Foresight, 5, 3, pp. 10-21.
Voros J. (2017). The Futures Cone, use and history. The Voroscope, February 24.
[1] Soresi, S. (2022). L’orientamento inclusivo per un futuro equo e sostenibile. In Pavone, M. Arenghi, A. Borgonovi, E. Ferrucci F. Genovese, E. Pepino, A., Un ponte tra università e mondo del lavoro per l’inclusione e la vita indipendente, Milano, Franco Angeli, pp. 35-50. Soresi S. (2023) L’orientamento 5.0: … quello che non si accontenta di valutare e profilare, Nuova Secondaria, in press.
[2] Voros J. (2003). A generic foresight process framework. Foresight, 5, 3, pp. 10-21. Voros J. (2003a) Reframing environmental scanning: A reader on the art of scanning the environment, Australian Foresight Institute Monograph Series, No.4, Swinburne University Press, Melbourne. Voros J. (2017). The Futures Cone, use and history. The Voroscope, February 24.
[3] Amatara R. (1981). The futures field: Searching for definitions and boundaries, The Futurist, vol. 15,1, pp. 25-29.