Giuseppe Valditara è il 45° ministro di quel dicastero preposto all’amministrazione dell’istruzione dei giovani italiani, la cui esistenza risale al 1861 con il Governo Cavour. Fu soppresso nel 1929 dal governo Mussolini che lo sostituì con il Ministero dell’Educazione Nazionale, denominazione che fu mantenuta fino a quando, nel maggio del 1944, il Governo Badoglio, ricondusse l’apparato alla sua denominazione originaria, quella di Ministero della Pubblica Istruzione.
Ministero dell’istruzione… i nomi cambiano
A partire dal 1988, anno in cui nacque anche il Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, il dipartimento ha assunto altre titolazioni:
- MIUR è l’acronimo con cui dal 2001 al 2006, e nuovamente dal 2008 al 2020, si indicava l’esito della fusione tra il Ministero della Pubblica Istruzione (MPI) e il Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR);
- MI, Ministero dell’Istruzione, istituito nel 2020 disgiuntamente dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR).
La distinzione tra i due Ministeri è tuttora vigente, anche se con l’insediamento della 19a legislatura lo storico palazzo di Viale Trastevere ha assunto la nuova denominazione di Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM). L’inserimento del termine merito nella nuova intestazione non ha mancato di scatenare polemiche, come pure la riesumazione, da parte del nuovo Presidente del Consiglio, del vocabolo Nazione, diffuso in Europa dalle armate napoleoniche, anziché Paese, con cui solitamente viene indicata la nostra Italia. D’altronde, in linea con Canetti [1], le parole hanno una coscienza: non solo disvelano il pensiero di chi le pronuncia, ma recano con sé evidenti tracce del passato.
Le critiche mosse all’idea di affiancare il termine merito a quello di istruzione riguardano non solo le implicazioni della scelta, ma anche il significato stesso della parola, così semanticamente ambigua da scatenare incomprensioni.
Il merito nella Costituzione
Secondo alcuni, posto che il merito risulta già garantito dalla nostra Carta costituzionale all’art. 34 [2], non c’era alcun motivo per invocarlo anche nella nuova intitolazione del Ministero. Altri attribuiscono al termine merito una connotazione negativa: definire meritevole una persona implica il confronto con altre persone che evidentemente non risultano altrettanto meritevoli. Comparazione, questa, che sembrerebbe confliggere, non solo con il dettato e lo spirito dell’art. 3 della Costituzione [3], ma anche con quello che è considerato il traguardo primario di una scuola democratica deputata ad offrire a tutti le medesime opportunità:
- individuare, fare emergere e valorizzare i talenti e le capacità di ogni studente, nessuno escluso;
- rendere ciascuno potenzialmente meritevole, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza e, quindi, senza distinzione di razza o classe sociale.
Ebbene, il rischio che i demonizzatori del merito vedono profilarsi in un ipotetico scenario futuro è la riproduzione delle caste: il timore è che a quelle già esistenti e determinate da etnia, censo e potere, possa aggiungersi, quale variante del darwinismo sociale, una nuova casta, quella dei meritevoli.
L’accezione negativa di meritocrazia
La meritocrazia è una parola che scaturisce dall’unione di due termini:
- merito (dal latino mereo = meritare, acquisire, guadagnare)
- crazia (dal greco κράτος = potere), etimologicamente significa ‘potere del merito’, da cui il potere dei meritevoli.
Ce lo ricordava già nel1958 il sociologo inglese Michael Young nel romanzo di science-fiction intitolato L’avvento della meritocrazia [4]. Nella sua narrazione, enfatizzando una struttura societaria ipotetica e paradossale imperniata sull’ideale meritocratico, Young intendeva mettere in evidenza come il concetto di merito,sia frutto del prodotto di quote di intelligenza (o talento o doti naturali), degli esiti della “lotteria naturale” e dell’impegno profuso dal soggetto nello svolgimento delle attività. Tale concetto conduceva alla creazione di nuove gerarchie e di nuovi sistemi di diseguaglianza, non dissimili da quelli fondati sul vantaggio ereditario.
Trascurando tutta una serie di principi morali del soggetto considerato meritevole, Young sottolineava come l’intelligenza e l’esercizio regolassero il successo di qualsiasi attività produttiva, per cui promuovere il capitale umano, considerato in termini d’intelligenza e creatività, diventava un importante investimento per le organizzazioni sociali, economiche e politiche.
Dall’accezione negativa di Young alla rivalutazione di Abravanel
La paternità intellettuale dell’accezione negativa e distopica del termine meritocrazia viene attribuita a Young. Tale nozione fu ripresa, mezzo secolo più tardi, e tradotta dall’ingegnere libico Roger Abravanel in una versione salvifica. L’autore accende un cono di luce sulla radicata mancanza di merito insita nei meccanismi che, in Italia, conducono le persone ai vertici del potere, finendo per rendere la nostra società “la più disuguale e ingiusta del mondo occidentale” [5]. Con il ribaltamento semantico si mettono in evidenza le ragioni del fraintendimento creatosi nel tempo attorno al termine meritocrazia: da parola concepita per indicare un sistema di abusi e diseguaglianze, si è trasformata in un principio-guida comunemente utilizzato per contrastare gli ordini imposti dal nepotismo e dal privilegio. Ciò spiega come il merito sia da molti ritenuto l’unico vero antidoto in grado di arginare fenomeni di corruzione e immoralità. Contro l’uso clanistico e privatistico di certe istituzioni che praticano il clientelismo o che, appellandosi al potente di turno, vanno alla ricerca della cosiddetta ‘raccomandazione’ o ‘spintarella’, il merito sta ad indicare ciò che di buono viene compiuto, cui fa seguito – a dimostrazione del suo valore – il riscontro da parte degli altri.
Il merito nella scuola
Con riferimento all’istituzione scuola, i sostenitori del merito ritengono che la sua introduzione nella denominazione del nuovo Ministero sia assolutamente appropriata: deve essere giudicato degno di merito chi manifesta eccellenza o particolare attitudine, rispetto ad altri, nello svolgimento di un determinato compito. Va da sé il rinvio alla stima e al giusto e dovutoriconoscimento sociale di prestazioni di qualità, realizzate in virtù di impegno profuso e competenze acquisite, perché la vera pratica deve avere dei valori interni e delle rilevanze sociali.
Con queste considerazioni, di fatto, il termine merito va a confluire verso il significato di competenza intesa come effettiva e concreta manifestazione di un’abilità nell’esecuzione di una determinata pratica umana.
Trasferita nella pratica scolastica, la competenza, però, non rappresenta solo l’acquisizione di un’abilità puramente strumentale, e come tale osservabile e misurabile nel suo immediato farsi. La competenza si manifesta attraverso una pluralità di comportamenti sia tecnicamente validi e produttivi, sia socialmente congrui e significativi, soprattutto eticamente coerenti e responsabili. Non è possibile pensare ad una concezione di merito che si svincoli totalmente dall’etica: il concetto di merito è strettamente connesso alla responsabilità individuale delle azioni intraprese. Per favorire il merito, la scuola deve, allora, intervenire sulle competenze insegnando ad apprendere per concetti, quali strategie di lettura della realtà, per rendere possibile l’impiego corretto e appropriato delle conoscenze acquisite, in modo da conferire senso e significatività ad ogni pratica umana, e per formare coscienze in grado di saper riconoscere la pericolosità delle trappole ideologiche della meritocrazia [6] che, contaminando il concetto stesso di merito, possono smantellare i cardini dell’uguaglianza sociale.
Merito come competenza
Certo è che l’idea sottesa alla nozione di merito è quella di competizione, per cui è solo nell’ambito di un clima competitivo che è possibile stabilire chi sia maggiormente meritevole. Ma come ben sappiamo la competizione, richiamata dalla nozione di competenza, riveste il significato di disputa personale. Si ha una sana competizione quando ci si misura e si gareggia con sé stessi per superarsi ogni volta. La competizione sana non ha una valenza negativa, ma produce crescita, accoglienza, reciprocità; conduce ad acquisire consapevolezza di sé e a superare eventuali insicurezze e limiti personali indirizzando ciascuno ad avviare un percorso proprio, indipendentemente dalle attese dell’altro e al di là dell’attitudine a considerare sé stessi come parte di un destino comune.
Formare generazioni orientate alla costruzione di quel bene comune che soppianti la dicotomica società dei vincitori e dei perdenti è il compito di una scuola fondata sul merito, che non deve alimentare divisioni sociali, non deve rappresentare la strada per premiare i più bravi a discapito degli altri, ma per costruire una società fondata sui principi della cittadinanza attiva, della convivenza democratica e della condivisione. Perché una competizione sana, che conduce a condividere la gioia di un successo o la frustrazione di una sconfitta senza abbattersi dinanzi a un fallimento, è una competizione che rispetta le regole, che genera meritocrazia ed eccellenza permettendo di valorizzare il capitale umano, unico motore della crescita sociale.
[1] Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, Milano, 1977.
[2] Pur esprimendo un concetto più complesso fondato sul principio di equità, l’Art.34 della Costituzione recita: “La scuola è aperta a tutti… I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
[3] Costituzione, art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
[4] M. Young, L’avvento della meritocrazia, 1958. Young immaginò un’ipotetica società del 2033 stravolta da riforme ispirate all’uguaglianza delle opportunità e alla misurazione dell’intelligenza mediante il test del quoziente intellettivo: fin dalla tenera età, iniziavano le misurazioni del talento e gli individui venivano assegnati, da subito, ai percorsi formativi che li avrebbero meglio preparati ad affrontare ciò a cui erano “naturalmente destinati”.
[5] R. Abravanel, Meritocrazia, Garzanti, Milano, 2008.
[6] M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, Bari, 2019.