Abbreviare di un anno il percorso di studi si può. Da molto tempo se ne parla e molte sono state le diverse proposte, che hanno coinvolto un po’ tutti i gradi scolastici, basate però su motivazioni e presupposti diversi. La cosa migliore sarebbe quella di rimettere mano all’intero ciclo formativo. Ma questo finora non ha trovato nessuna sponda politica e nessuna prerogativa legislativa. L’obiettivo comune, di tutti i tentativi messi in campo, è quello dell’uscita a 18 anni di età dalla scuola secondaria di secondo grado. I giovani sono maggiorenni, possono votare, conseguire certificazioni che li pongono ormai in grado di partecipare alla vita sociale e lavorativa. Dunque devono acquistare maggiore autonomia e non dipendere da un curricolo che spesso non li coinvolge e che non vedono l’ora di abbandonare.
Abbreviare il percorso
Le Indicazioni nazionali hanno attribuito al quinto anno della secondaria di secondo grado il compito di fare un po’ la sintesi dell’intero processo, utilizzando maggiore flessibilità nelle materie, intessendo rapporti con il territorio e con le professioni, sviluppando un’azione orientativa. Il “diritto-dovere” all’istruzione e formazione (D.lgs. 76/2005) si compie entro il diciottesimo anno, dal quale partono le opportunità previste per la formazione superiore, in particolare quelle legate al mondo del lavoro. Sembra giunto il momento di abbreviare il percorso; anche la stessa Università è orientata a saggiare il passaggio degli studenti fin dalla quarta classe.
Superare il disallineamento
Bisogna comunque fare i conti con il disallineamento tra gli istituti statali ed i corsi regionali, che andrebbe superato proprio in vista di un più efficace rapporto tra domanda e offerta di formazione che le aziende reclamano ed in relazione a quanto è contenuto nelle direttive europee sui processi di integrazione tra Paesi, con gli scambi di competenze e di qualifiche soprattutto legate alla realtà produttiva. A 18 anni infatti si potrebbe conseguire il diploma, sia negli istituti statali che nei centri regionali, ed uscire da ambiti formativi considerati di pari dignità che vanno a definire quel “doppio canale” che noi tanto invidiamo al sistema tedesco.
Tentativi falliti
Togliere un anno al secondo ciclo potrebbe però essere considerato da alcuni una “diminutio” in termini di risultati da conseguire. Partendo da questa ipotesi, negli ultimi decenni, sono emerse proposte che pur accogliendo la soluzione finale (uscita a 18 anni) hanno cercato di modificare i gradi precedenti. Molti hanno sostenuto (e sostengono) che si può partire dalla scuola dell’infanzia che, seppure non obbligatoria, è frequentata da una percentuale altissima di bambini e ormai ampiamente diffusa sul territorio nazionale. Si può anticipare l’obbligo a 5 anni, essendo questa un’età già significativa per un apprendimento precoce. Oppure, come aveva ipotizzato la legge 30/2000, si può immaginare una scuola di base di 7 anni (uno in meno rispetto alla situazione attuale da decurtare alla secondaria di primo grado).
Quest’ultima soluzione proposta dall’allora ministro Berlinguer, non è andata mai a buon fine, anzi è stata considerata controproducente anche in considerazione dei risultati insoddisfacenti ottenuti nella “scuola media”. Di contro, c’è chi propone un anno in più, come nel Collège francese, da porre in stretto collegamento con il primo anno delle scuole secondarie di secondo grado.
Una rimodulazione solo parziale
Sulla rimodulazione dell’intero percorso scolastico si dovrà tornare, sollecitati anche dai dati INVALSI, ma la sperimentazione di abbreviazione tocca solo la scuola secondaria di secondo grado: nel 2017 coinvolgeva solo gli istituti liceali, ora anche i tecnici e i professionali. Un liceo di quattro anni ha l’unico scopo di anticipare l’ingresso all’università; mantenendo la stessa impostazione didattica che collega i due segmenti è forse il settore meno interessante se consideriamo le ricadute sul territorio e sull’attività lavorativa per la quale si richiedono sempre più soluzioni diversificate.
Per accedere alla prima sperimentazione riservata ai soli licei, le scuole, all’inizio prevalentemente paritarie, hanno presentato progetti utilizzando regole e indicatori volti ad internazionalizzare gli indirizzi: una scelta particolarmente gradita ad un tipo di utenza proiettata verso rapporti con altri paesi e con altre culture. ma la logica burocratica, assecondata da quella delle parti sociali, ha praticamente imposto che tutto il monte ore dei cinque anni venisse distribuito su quattro, costringendo a ritorni pomeridiani senza ricorrere in maniera intelligente alla flessibilità. Negli istituti statali dove convivono i due percorsi non pare che il quadriennale alla fine abbia avuto risultati eccellenti.
Un modo più celere per modificare un sistema?
Ampliare questa sperimentazione? Sono state espresse molte perplessità e soprattutto non sembra esserci molto appeal da parte delle scuole. il CSPI (Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione) conferma le perplessità mettendo in evidenza la mancanza di impostazione scientifica della sperimentazione e sottolineando che, in mancanza degli esiti e di una visione ordinamentale complessiva, il percorso tracciato dal DM potrebbe condurre alla semplicistica riduzione di un anno della scuola superiore.
Noi sappiamo che una sperimentazione, per riuscire ad ottenere buoni risultati, ha bisogno di altrettanti buoni requisiti di partenza. Il ministro Bianchi ha fatto intendere che potrebbe essere questo l’avvio per una riforma generalizzata. In tal caso bisogna ipotizzare di rivedere tutti i curricoli senza scorciatoie orarie. Se invece deve riguardare solo alcuni indirizzi sarebbe meglio limitarla all’istruzione tecnica e professionale, collegandola alle novità annunciate nel PNRR. Il DM del 3 dicembre 2021, n. 344 con il quale viene approvato l’ampliamento per percorsi quadriennali, in realtà, sembra voler introdurre, attraverso la sperimentazione, nuovi modelli di scuola, sollecitati dall’Europa e più volte annunciati, ma difficili da far approvare in tempi brevi utilizzando le regolari vie parlamentari.
Requisiti della sperimentazione
Attraverso un buon uso dell’autonomia le scuole, al fine di “compensare almeno in parte la riduzione di una annualità del percorso scolastico”, dovranno rimodulare il gruppo classe e l’orario scolastico. Dovranno realizzare soprattutto una scuola innovativa con l’introduzione del multilinguismo usando la metodologia CLIL, con la predisposizione di attività laboratoriali e l’utilizzo di tecnologie per la didattica. A ciò si aggiungono anche altri requisiti: la possibilità di effettuare, seppure limitatamente al 10%, l’insegnamento a distanza, il potenziamento delle discipline STEM, l’introduzione di moduli curricolari orientati alla transizione ecologica ed allo sviluppo sostenibile. Per favorire l’orientamento si possono introdurre anche insegnamenti opzionali.
Autorizzazioni “ben custodite”
Le nuove richieste verranno autorizzate se saranno in linea con le predette indicazioni a cui dovranno adeguarsi anche le sperimentazioni autorizzate negli anni precedenti.
Si tratta di un concentrato di interventi sostenuti da progetti che potrebbero diventare la risposta ai bandi del PNRR da destinare alle scuole. Tali bandi seguiranno quelli già emanati sull’edilizia scolastica a beneficio degli Enti Locali. Una tattica già vista in passato, in una stagione in cui l’uso politico della sperimentazione stimolava l’interesse delle scuole ma teneva le autorizzazioni saldamente nelle mani dell’Amministrazione per custodire, si diceva, l’ordinamento e il valore legale del titolo di studio.