Le affermazioni che si usano quando si parla di scuola sono sempre espresse con termini chiari? sono suffragate da risultati empiricamente constatati? o sono solo frutto di idee generiche, povere o prive di fondamento?
Sono tanti gli interrogativi che un docente affronta chiedendosi quali siano le strategie e gli atteggiamenti migliori da adottare per rendere efficace la sua pratica didattica. Purtroppo, anche nelle pubblicazioni dedicate, nei libri di testo, negli stessi corsi di aggiornamento circolano spesso parecchie idee confuse e non suffragate da serie ricerche pedagogiche, a volte neanche da evidenze empiriche. Siamo spesso di fronte ad una didattica prigioniera di slogan, a credenze ingenue, a terminologie generiche. È una tendenza molto dannosa che non va nell’ottica del miglioramento reale degli apprendimenti e non aiuta i docenti a riflettere sui processi di insegnamento-apprendimento.
La Evidence Based Education (EBE)
La pratica basata sulle evidenze (Evidence Based Education) è un approccio, sviluppatosi da oltre venti anni (assai diffusa nella cultura anglosassone) che cerca di stabilire, sulla base di comparazioni sistematiche tra diverse indagini, le strategie e gli atteggiamenti didattici che trovano le migliori conferme di efficacia. Uno degli effetti collaterali è anche quello di sollecitare, ai diversi livelli delle decisioni scolastiche, una maggiore consapevolezza critica sulla chiarezza e affidabilità dei modelli culturali e didattici seguiti.
Presentiamo qui cinque miti diffusi, a cui atteggiamenti e pratiche didattiche frequentemente si richiamano ma che entrano in conflitto con le evidenze disponibili[1].
La lezione frontale va abolita?
È un ritornello che ricorre ormai da parecchi decenni e che si presenta da sempre come bandiera dei movimenti “innovativi”. La didattica che funziona è quella che sostituisce la lezione frontale con il lavoro di gruppo perché l’apprendimento vero è quello che avviene in maniera autonoma e per scoperta.
Nonostante l’enfasi teorica delle scuole di pensiero che sostengono questo principio (attivismo, costruttivismo), non sono state mai trovate reali applicazioni capaci di dimostrare il miglioramento della qualità dell’apprendimento senza la lezione frontale.
Oggi si è concordi nel sottolineare che la lezione frontale non può né deve essere abolita. Certamente va modificata, non va identificata con la piatta esposizione retorica dominante nei modelli tradizionali, deve assumere il carattere di una interazione meglio strutturata e finalizzata verso obiettivi chiari e bene esplicitati agli studenti.
Nella ricerca scientifica “Evidence-based practice” sembra anche accertato che le strategie prive di guida istruttiva, quelle che lasciano totale autonomia agli studenti possono risultare nel tempo meno efficaci e, qualche volta, possono anche produrre veri e propri danni educativi. I risultati migliori sono quelli in cui i docenti hanno la piena regia della scena educativa. Intervallare la spiegazione con dimostrazioni ad alta voce, fornire frequenti feedback agli alunni, mettere in atto pratiche metacognitive, sono queste le modalità didattiche che i maggiori filoni di ricerca sulle scienze dell’apprendimento ritengono unanimemente più efficaci. Ciò non vuol dire che momenti di “problem solving” o di “apprendimento per scoperta” e “lavori di gruppo” debbano essere aboliti nella didattica ordinaria, ma solo che devono coesistere in contesti in cui la guida istruttiva dell’insegnante venga complessivamente lasciata in primo piano.
Le tecnologie migliorano l’apprendimento?
Per anni è sembrato che l’innovazione della didattica passa necessariamente attraverso l’introduzione di nuove tecnologie e che il passaggio dall’innovazione al miglioramento sia automatico. Su questo tema disponiamo ormai di una base di ricerche sufficientemente vaste da permetterci di uscire fuori dalla logica degli slogan e delle infatuazioni del momento.
Le tecnologie non rappresentano di per sé un fattore di miglioramento degli apprendimenti degli studenti. La ricerca di oltre trent’anni su grandi numeri lo ha dimostrato ampiamente. L’impatto delle tecnologie sul miglioramento degli apprendimenti scolastici non risulta evidente. Le tecnologie tendono generalmente ad introdurre fattori di distrattività e sovraccarico, con rischi maggiori nella scuola di base. Ne deriva che investire in politiche generali diffuse di finanziamento delle tecnologie aspettandosi che il livello degli apprendimenti migliori è, quanto meno, una aspettativa poco realistica. Alla luce di quanto conosciamo sembra più affidabile avvalersi dell’aiuto tecnologico all’interno di metodologie e di didattiche particolari (sulla disabilità, sull’insegnamento delle lingue straniere, su ambienti di simulazione nelle scuole superiori) oltre che in scuole ad indirizzo tecnico per finalità professionali. Tale riflessione va, tuttavia, tenuta distinta dall’educazione alla competenza digitale, che è un ambito formativo che rimane di primaria importanza.
Un numero minore di alunni per classe innalza la qualità dell’istruzione?
Qui si tocca un tema scottante, quello delle cosiddette “classi pollaio” e bisogna fare attenzione a non essere fraintesi. Non si può che condividere la necessità di investire nell’edilizia scolastica e ampliare gli spazi della scuola, presupposto di base anche per poter realizzare una didattica differenziata e realmente inclusiva.
Di fatto, però, tra i due fattori del rapporto, a lungo studiato, numero di alunni per classe e livello degli apprendimenti, non è stata mai trovata una correlazione diretta. Un esempio facilmente verificabile è dato dalle scuole orientali che ottengono risultati alle prove internazionali solitamente più alti dei paesi occidentali pur avendo numeri elevatissimi di alunni per classe. La spiegazione che fornisce John Hattie, pedagogista australiano e uno dei maggiori esperti di evidence-based education, è da ricercare nel fatto che nelle classi meno numerose i docenti non sempre sfruttano questo vantaggio esercitando, per esempio, una maggiore cura per il singolo alunno, con più interazioni e feedback, con più personalizzazione; spesso continuano ad adottare il medesimo metodo fondato su spiegazione, interrogazione e valutazione convenzionale. Dunque, la semplice riduzione del numero degli alunni per classe non comporterà alcun miglioramento se non accompagnata da una modificazione adeguata dell’approccio didattico
Lo stile di apprendimento degli studenti è il punto partenza per una buona didattica?
È un suggerimento quasi “di rito”, che si trova ancora molto diffuso nella divulgazione scolastica istituzionale. Sugli stili di apprendimento sono fiorite in passato tante teorie senza che si sia mai trovata qualche significativa efficacia empirica. La ricerca (EBE) non è mai riuscita a presentare percorsi didattici, ispirati ad uno dei modelli teorici esistenti sugli stili di apprendimento, che abbiano dimostrato di ben funzionare (facendo ovviamente esclusione per i soggetti con limitazioni sensoriali: non udenti, non vedenti). Ovviamente questo non vuol certo dire che non esistano differenze tra i soggetti ma che quelle che interessano a fine didattico, ed in particolare per una didattica individualizzata, sono quelli da sempre indicati nella letteratura: il livello intellettivo e linguistico, il retroterra di conoscenze posseduto sul dominio specifico, la capacità di attenzione e la disponibilità al rapporto educativo.
L’attività progettuale è una chiave per innovare e migliorare la qualità dell’istruzione?
È un aspetto non molto analizzato nella letteratura internazionale dal momento che riguarda un tratto tipico della scuola italiana. L’attività progettuale è diventata una ritualità per ogni singola azione educativa. Ci riferiamo alle pratiche diffuse dei progetti che hanno caratterizzato la vita scolastica degli ultimi anni, anticipate dal mito delle sperimentazioni dagli anni Settanta. La capillarità di tali pratiche ha reso difficile trovare adeguati rendiconti dei risultati, tali da rendere trasferibile il modello.
Quella dell’insegnante che diventa “progettista” si presenta come una mitologia seducente, che potrebbe, tuttavia, essere anche ingannevole. Richiedere alle scuole di progettare, senza una preparazione adeguata o supporti specializzati, significa produrre elenchi di “auspici generici”, solitamente mai corrispondenti a ciò che realmente verrà poi realizzato, destinati a non essere sottoposti a controlli affidabili sulla loro efficacia.
La messa a terra di un particolare progetto è possibile se ci sono tutte le condizioni e se le persone coinvolte posseggono le competenze necessarie. Un buon progetto, anche a livello di prima formulazione, dovrebbe rendere subito evidente la sua adeguatezza al contesto; presentare obiettivi chiari e operazionalizzati; mostrare coerenza tra intervento e obiettivo; elencare i passaggi che permettono la selezione degli elementi ripetibili e disseminabili; essere accompagnato da un sistema di rendicontazione trasparente.
[1] Le riflessioni qui presentate sono riprese in gran parte dal documento “cosa fare per la scuola: Indicazioni per cambiamenti in un’ottica evidence-based. Norme, orientamenti e atteggiamenti didattici”, disponibile sul sito SApIE: www.sapie.it e dal volume Calvani, A., Trinchero, R. (2019). Dieci falsi miti e dieci regole per insegnare bene. Roma: Carocci, a cui rimandiamo anche per ulteriori approfondimenti.