La scuola come antidoto al malessere

Quando la fragilità può diventare forza distruttiva

Dal web alla strada: lo sfogo di un trauma”, così Il Resto del Carlino titolava un articolo apparso il 28 ottobre scorso che trattava di un brutale pestaggio avvenuto, alla luce del sole di Modena, ai danni di un adolescente tunisino: la vittima, dopo essere stata accerchiata da un gruppo di coetanei di origine pakistana, è stata colpita a sprangate, mentre veniva ripresa in video dai cellulari dei tanti ragazzi che stavano assistendo all’accaduto. A dare man forte all’aggredito sono poi intervenuti alcuni suoi connazionali, per cui lo scontro, originariamente insorto al solo scopo persecutorio, si è ben presto trasformato in una maxirissa tra due distinti gruppi etnici.

Spleen: la tristezza del vivere

L’episodio, di cui sono ancora in corso le indagini della polizia supportate dalle riprese degli involontari spettatori, si configura come un oramai consueto caso di violenza, espressione dell’incontenibile risentimento dei giovani nei confronti di un mondo caotico e disgregato dal quale si sentono crudelmente traditi e abbandonati.

L’evento in questione, “per gli esperti, una manifestazione di meccanismi depressivi”, riflette infatti tutti i connotati dello spleen di sapore baudelairiano. Parliamo della “tristezza di vivere”.  genericamente lamentata dagli adolescenti, anche di quelli coinvolti nella zuffa di Modena. Questi stessi, interrogati, hanno dichiarato di “non riuscire a immaginare un futuro in questo momento”. Consumati da un male invisibile, in bilico tra il disagio esistenziale e il desiderio di un futuro progettuale, sono pervasi dall’angoscia del quotidiano, sospesi in un eterno presente che li rende incapaci di immaginare un futuro come orizzonte di vita.

L’epoca delle passioni tristi

Questo stato di malessere, che ha gettato i nostri giovani in una costante condizione di solitudine, precarietà e paura, discende da una sorta di prostrazione e di impotenza, da una scarsa capacità di immaginare gli anni a venire, dalla percezione di un domani inafferrabile che si delinea in un’epoca, come quella attuale, dominata dall’incertezza, dall’instabilità e provvisorietà. È l’epoca cioè, “delle passioni tristi”, di spinoziana memoria (B. Spinoza, Etica, 1677 – 1a ed.it. 1880). Un concetto riattualizzato circa un decennio fa da M. Benasayag e G. Schmit[1],  due psichiatri del campo dell’infanzia e dell’adolescenza, che hanno voluto interrogarsi sulla reale entità e sulle cause del massiccio diffondersi delle patologie psichiatriche tra i giovani.

In balia delle spinte irrazionali della storia

Viviamo in un’epoca di incertezza e di impotenza. Lasensazione è quella di una vita svuotata di significato e caratterizzata da una diffusa sfiducia nella capacità della ragione di orientare la storia verso il progresso, quasi che la speranza storicista di un destino migliore sia assolutamente inconcepibile. La fiducia nello sviluppo ha ceduto il passo all’idea di un avvenire senza prospettive. Molti giovani si percepiscono come se fossero in balia delle spinte irrazionali della storia: catastrofi ecologiche, discriminazioni sociali, disastri economici, esplosioni di violenza, forme di intolleranza, pervasività di egoismi, pratica abituale della guerra, comparsa di nuove malattie e di letali pandemie.

Malessere e disincanto

Sono queste le “passioni tristi” che affliggono i giovani di oggi facendo sprofondare le naturali aspettative di crescita nella negatività più esasperata. Queste forme di negatività sono riuscite ad insinuarsi nelle loro menti e nei loro animi con un impeto tale da disarmarli disseccandone ideali, spegnendone iniziative, svuotandone speranze per lasciare spazio a sentimenti di inadeguatezza e demotivazione. È questa la visione del “disincanto” con la quale Weber[2] tratteggiava la condizione di malessere esistenziale che associava la condizione di oppressione e di impotenza, che contraddistingue il tempo presente, al sentire profondo delle nuove generazioni.

Quando la sensazione di confusione identitaria e valoriale si complica drammaticamente, i giovani hanno bisogno di dimostrare al mondo di esistere. I comportamenti, intrisi di sensazioni forti e immediate, si ammantano allora di spettacolarità e travalicano le norme sociali e il rispetto di sé. Allora, per farsi notare e per recuperare visibilità, fanno di tutto affinché le loro azioni possano assumere la forza distruttiva di un uragano. Quando tali condotte sono interiorizzate assumono la fisionomia della devianza.

La perdita degli archetipi

Tutto è cominciato con la “morte di Dio”: Heidegger e Nietzsche l’avevano annunciato negli anni Settanta[3] per significare la condizione di scetticismo, agnosticismo, estremo individualismo sia teologico sia teleologico, che ha reso i nostri giovani orfani di Dio. È una metafora che allude non tanto ad una specie di “ateizzazione” della società contemporanea, quanto piuttosto ad un profondo e allarmante dissolvimento dei fondamenti, degli archetipi, dei principi-guida che orientavano il loro essere e agire nel mondo.

Si assiste oggi ad una polverizzazione dei valori, ad una sorta di analfabetismo spirituale delineato da vuoto di eticità e disattenzione alle responsabilità civiche, da immaturità civile e insensibilità verso i problemi sociali in genere. La privazione della dimensione assiologica consegna la vita personale e collettiva al nichilismo, al dissolversi insensato del tempo. Da qui deriva anche la progressiva tendenza dei giovani sia verso l’uso “afinalistico” di Internet e dei videogames, che li vedono protagonisti di battaglie virtuali contro il nulla, sia verso comportamenti che sfociano in forme di devianza più o meno devastanti.

Dal disorientamento personale alla disgregazione sociale

Il sentirsi incapaci di rappresentare correttamente il proprio mondo interiore è una condizione, che fa da sottofondo ad una carenza di “essere”. Tale carenza si esplicita in un profilo di personalità i cui tratti salienti rispecchiano stati di frustrazione, disequilibrio e ansia, inadeguata autostima e scarsa disponibilità a stabilire positivi rapporti interpersonali: un’alterazione dell’identità così profondamente radicata all’idea di una desertificazione dell’avvenire, da determinare, nell’intimo esistenziale del giovane, una profonda e lacerante disgregazione sociale. È qui che entra in gioco la scuola come filtro educativo per eccellenza. La scuola ha il compito di continuare a rappresentare una certezza, un fondamento, un punto di riferimento costante nel percorso di crescita dei ragazzi.

La scuola come luogo di emancipazione

Alla luce delle sfide poste in essere dalla globalizzazione, la scuola non può che fornire un’unica congrua risposta: qualificarsi come luogo privilegiato capace di far prendere coscienza dei problemi, di costruire nuovi abiti mentali e nuove routine esistenziali, di promuovere la capacità di scegliere e prendere decisioni. La scuola è quel luogo dove la mente umana può imparare a rapportarsi con l’imprevedibile e il possibile, dove ciascuno può mettersi alla prova, può apprendere come si fa a decidere e a scegliere, come si fa ad interpretare l’incertezza e la transitorietà. Se lo studente è consapevole delle proprie potenzialità, qualunque esse siano, potrà più facilmente recuperare la fiducia in sé stesso, sarà anche in grado di trasformare le esperienze maturate in strategie efficaci per continuare ad apprendere, per migliorarsi e, soprattutto, esserne consapevole.

Il “disincanto”, cioè il superamento di una visione deformata della realtà, può rappresentare allora il primo passo di un percorso assai lungo, un passo in cui l’instabilità deve essere vissuta come paradigma da cui ripartire per imparare a confrontarsi con un mondo in continuo cambiamento. Anche con la paura del futuro e con la consapevolezza della vulnerabilità di fronte alle incognite della vita, i nostri giovani potranno cominciare ad aprire varchi nel groviglio di una realtà sempre più caotica, cercando di governare le situazioni di incertezza iniziando a tracciare sentieriche solo il tempo trasformerà in strade più facilmente percorribili.

La scuola come spazio di orientamento

Mutuando da Eco la pregnante metafora del bosco[4], è oggi opportuno che la scuola, anziché indicare agli studenti una strada prestabilita da percorrere, insegni loro ad orientarsi nell’intricato ammasso delle conoscenze. È la condizione necessaria per acquisire le competenze necessarie utili ad esplorare ulteriori contesti di vita, alla stessa stregua del viandante nomade che peregrina smarrito senza una bussola che gli indichi una qualche direzione. Nomadismo, quindi, non solo come emblema di una condizione storico-esistenziale lacerata rappresentata, sia dal pellegrino che erra nel labirinto della vita, sia dal pensiero che vaga in un mondo che ha perduto certezze e fondamenti assoluti, ma anche come metafora di uno spirito libero che, rifiutandosi di sottostare alla frammentazione e al controllo del tempo imposti dalla società, sente forte l’urgenza di placare l’inquietudine che lo agita attraverso l’uscita dalla propria limitata soggettività.

La scuola come governo della complessità

È inutile, quindi, tentare di esorcizzare la complessità, così com’è illusorio cercare di individuarne strategie di semplificazione: la complessità non va scongiurata, ma piuttosto gestita governandola con paradigmi adeguati. La sfida della complessità, come appartenenza a quel comune fluire dell’esistenza in un intreccio globale di cause e interdipendenze, rivela il senso profondo del nostro tempo, ed è proprio con l’adozione del metodo della complessità che i nostri ragazzi potranno essere educati a gestire la magmatica società della conoscenza e ad individuare in modo consapevole, autonomo e personale la strada da seguire in quella che oggi appare solo negativamente come la deriva dell’essere.

La scuola come etica della solidarietà

Dopo aver sostituito la categoria dell’assertività con quella della problematicità, la scuola avrà poi cura di appellarsi alle ragioni dell’etica in modo da garantire la crescita di ciascuno come persona che si muove nel valore della responsabilità e della condivisione. Nell’attuale dimensione sociale in cui oggi ci troviamo a vivere, la complessità – sostenuta dalla logica del possibile –può essere affrontata solo con lo spirito di solidarietà. Nell’attuale condizione umana globale siamo tutti accomunati dalle medesime asimmetrie dell’esistente, dalla stessa diffidenza nei confronti del futuro, dagli identici problemi di vita e di morte. Ne discende la necessità di costruire, di volta in volta, in un costante e irriducibile incontrarsi e separarsi, il senso dell’esistenza e dello stare insieme.

È questa la grande sfida educativa: conciliare la persona con il proprio destino e con la dimensione di fragilità della condizione umana. Assumere, come proprio, il destino che ci è dato significapromuovere nuovi spazi di socializzazione. È il rapporto solidale con gli altri che aiuta i giovani a trovare quello che desiderano, a costruire legami fondati su affinità elettive, a promuovere pratiche che non abbiano la pretesa di cambiare il mondo, ma sicuramenti di contribuire a migliorarlo.


[1] M. Benasayag e G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2013.

[2] M. Weber, La scienza come professione, Armando editore, Roma, 1919.

[3] W. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; F. Nietzsche, L’anticristo, Adelphy, Milano, 1977.

[4] U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994.