Nel presentare il pacchetto di risorse europee che il governo ha deciso di destinare alla scuola e alla ricerca con il Recovery, non poteva mancare una particolare attenzione al problema dei docenti, al rafforzamento delle loro competenze ed al reclutamento. Il Ministro Bianchi pone costantemente all’attenzione che gli alunni nati nel 2000 sono più capaci di usare le tecnologie dei loro docenti che sono nati nel 1900: sono questi ultimi ad aver bisogno di formazione.
Una formazione motivante
La preoccupazione rivolta alle competenze digitali potrebbe essere estesa alla preparazione in generale e rappresenta un po’ il cuore del problema, sia per quanto riguarda la formazione di base, sia per quella in servizio. In relazione a quest’ultima si tratta di motivare i docenti stessi, perché non basta decretarne l’obbligo, peraltro già in vigore, per migliorare la qualità delle prestazioni. Infatti da tempo si cerca di capire come rendere più efficace il collegamento tra formazione in servizio e risultati dell’insegnamento, ed anche come far valere i crediti professionali, che il PNRR vorrebbe attribuire alla ricaduta didattica dell’impegno formativo, sulla carriera o sugli incentivi economici. Specialmente questo secondo problema ha precedenti piuttosto deludenti.
Quando la formazione veniva dal basso
Un ricordo positivo di sviluppo professionale vero è quello risalente al termine degli anni Settanta del secolo scorso. Eravamo nella stagione delle sperimentazioni in cui i processi di cambiamento venivano avviati dalle scuole. I docenti erano impegnati a provare le grandi intuizioni pedagogiche e contemporaneamente ad affinare le proprie competenze. Oggi sembra che le motivazioni verso sviluppi di carriera derivino da esigenze organizzative delle scuole autonome e dalla necessità di intervenire in maniera adeguata in un contesto sempre più articolato e complesso. Non sembra prevalere la scelta di riconoscere la qualità professionale dei docenti che fanno crescere gli studenti in motivazione, passione e apprendimenti.
Il problema della mobilità e del reclutamento
La preparazione di base coinvolge diverse categorie di professionisti. È anche un problema generazionale, di coloro che sono nati nel 1900 e si sono formati all’università su contenuti che oggi vanno riapprofonditi alla luce delle grandi trasformazioni degli ultimi decenni. Interessa soprattutto una enorme massa di precari che attendono di essere inseriti stabilmente nel mondo della scuola. Si tratta di prevedere percorsi formativi che facciano dialogare i saperi teorici con i saperi pratici attraverso laboratori e tirocini nella scuola, di incentivare l’apprendistato cognitivo fino ad arrivare alla cattedra con una abilitazione e un contratto. Dare spazio e responsabilità a giovani docenti è il punto da cui partire. Restano tuttavia molti problemi collegati alle modalità di reclutamento: i concorsi nazionali spostano una quantità ingente di aspiranti docenti da un capo all’altro del Paese. È una situazione che crea precarietà sociale perché, fin dall’inizio, l’interesse prevalente della maggior parte degli aspiranti docenti sarà quello della mobilità piuttosto che quello di garantire la continuità didattica nelle classi di prima assegnazione. Questo governo, come altri in precedenza, torna a riproporre l’obbligo della permanenza triennale nel posto assegnato. Sappiamo tuttavia che per altre ragioni, tale obbligo non è stato quasi mai realizzato.
Diversificare e personalizzare le procedure di reclutamento
La carenza di docenti, soprattutto per certe discipline e in certe regioni, richiama la necessità della gestione di un reclutamento con procedure diversificate, maggiormente legate ai territori, come avviene tra l’altro nelle province autonome. Bisognerebbe arrivare ad un contratto nazionale uguale a tutti gli altri partendo però dalla valutazione delle aspettative e attraverso una maggiore personalizzazione degli impegni.
Verso un curricolo integrato
Bisognerebbe riformare le classi delle lauree, come indicato dal PNRR, per favorire percorsi pluridisciplinari, ma anche per collegarle alle relative classi di concorso, nell’ottica di un curricolo sempre più integrato. I saperi devono superano i confini delle discipline e richiamare l’unitarietà dell’azione educativa. Andrebbero inoltre studiati percorsi di orientamento alla professione docente con stage presso ambienti formativi o università per gli allievi ancora inseriti nella scuola superiore.
Più autonomia ai territori
Se la pianificazione del fabbisogno di insegnanti si dovrà effettuare in base alle esigenze degli istituti e del piano dell’offerta formativa, dovrà essere ripensata all’inizio di ogni triennio. I docenti possono essere trattenuti in servizio in quella determinata scuola sulla base del numero degli studenti e non del numero delle classi. Questo potrebbe garantire la copertura del curricolo nazionale, ma anche soddisfare le eventuali esigenze a livello locale, magari con il concorso delle Regioni e prevedendo forme diverse di assunzione.
Bisognerebbe inoltre unificare gli attuali organici (di base, del potenziamento e del COVID), senza ricorrere ogni anno all’applicazione di nomine a carattere nazionale che non sempre risolvono il problema locale. L’obiettivo è quello di dare maggiore autonomia ai territori nella gestione e dislocazione del personale.
Più flessibilità nell’organizzazione
È necessaria un’organizzazione flessibile dei gruppi di alunni e dei tempi scolastici. La pandemia ci ha messo nelle condizioni di modificare il lavoro tradizionale. Ci ha insegnato a personalizzare gli spazi, per gli allievi e per i docenti; ad usare le tecnologie digitali; a stipulare intese con il territorio; a realizzare attività che oggi definiremmo ancora extrascolastiche, ma che rientrano in una visione più ampia della formazione non formale ed informale. Sappiamo bene che è compito della scuola andare oltre i saperi formali, occuparsi delle generazioni lungo tutto l’arco della vita.
Crediti professionali e Scuola di Alta Formazione
Forse ci si aspettava con i finanziamenti del Recovery di poter innalzare gli stipendi ed allinearli a quelli europei, è da tempo infatti che se ne parla. Si può invece pensare a crediti professionali derivanti dalla partecipazione ad attività formative che dovrebbero avere ricadute sull’avanzamento di carriera. È prioritario tuttavia il recupero personalizzato delle competenze dei docenti nel momento in cui si registrano criticità del loro rendimento. Non si tratta, quindi, di una misura minimalista e populista intesa ad accontentare tutti, ma di un severo monito che ripropone la valutazione dei docenti (Vedi Atto di in dirizzo politico istituzionale del Ministro del 16 settembre 2021), seppure di difficile applicazione, ed un ritorno in formazione, erogata da una scuola di alto profilo scientifico quale agenzia del Ministero (Scuola di Alta formazione, è così che viene indicata nel PNRR).
La difficile valutazione del merito
Una visione meritocratica è già stata in passato timidamente avanzata dalla legge 107/2015 (la cosiddetta “Buona scuola”), in modo particolare dai commi 126-130 che prevedevano, come è noto, “la valorizzazione del merito del personale docente”. Queste scelte legislative hanno scatenato la contrarietà dei sindacati che sono riusciti a far rientrare tutta la materia in contrattazione, eliminando quindi sia la valutazione del “merito” sia il suo riconoscimento effettivo: le risorse destinate sono andate a incentivare carichi di lavoro oltre l’insegnamento.
È rimasta, seppure mal digerita, la rilevazione degli apprendimenti degli alunni ad opera dell’INVALSI. È stata sospesa anche la valutazione dei dirigenti e delle scuole su cui si erano spesi diversi progetti di ricerca patrocinati dallo stesso Ministero. Resta il RAV con la redazione di piani di miglioramento che non hanno però la possibilità di incidere sulla richiesta di personale.
Siamo lontani dalla vera autonomia
Per completare il quadro andrebbe ripresa la richiesta venuta da più parti in questi anni di uno stato giuridico autonomo per il personale della scuola, o addirittura c’era anche chi voleva un ordine professionale della docenza, come di altre professioni intellettuali, con un codice deontologico ed un organismo di rappresentanza istituzionale. Ma di questo non c’è traccia nelle proposte politiche di questo governo, così come rimane a mezz’aria lo status dei dirigenti scolastici. Si ha l’impressione che ancora una volta si voglia mantenere questo personale ben ancorato all’ordinamento dei pubblici dipendenti, con un solido controllo da parte dello Stato, non riconoscendo in sostanza nessuna vera autonomia, che a sua volta andrebbe trasferita alla scuola nel suo insieme, e che pur si dice di voler valorizzare.