Lunedì 4 ottobre la galassia di Mark Zuckerberg è andata in tilt in varie parti del mondo, compresa l’Italia. “Lungo blackout per Instagram, Whatsapp e Facebook: social fermi per sei ore” titolava L’eco di Bergamo. Ci sono volute quasi sette ore per tornare, parzialmente e lentamente, alla normalità dopo che gli user avevano segnalato problemi di accesso alle app, di connessione al server e di caricamento dei contenuti. “Ci scusiamo per l’interruzione: so quanto fate affidamento sui nostri servizi per restare connessi con le persone a cui tenete” ha detto Zuckerberg in un messaggio diramato il giorno stesso da Il sole 24 ore.
Schiavi della Rete
Questo impedimento del traffico di Rete ha sortito un effetto a cascata, non solo per il crash registrato in Borsa (una perdita di 160 milioni di dollari per ogni ora di interruzione della connessione digitale), ma anche per le significative ripercussioni sulle abitudini comunicative e relazionali dei fruitori, in particolare gli adolescenti che rappresentano la fascia d’età che maggiormente utilizza queste piattaforme.
Abituati al dinamismo, alla velocità, alla perenne reperibilità, alla possibilità di essere sempre costantemente presenti e collegati alla Rete con altri utenti in qualsiasi momento e in qualunque luogo, l’interruzione – seppur temporanea – dell’utilizzo dei social ha comportato, tra i giovani, un’incontrollata reazione di irritabilità, agitazione, smarrimento, ansia, tristezza.
“Non chiamo quasi più nessuno dei miei amici – ha dichiarato la quindicenne Marta in un’intervista – controllo il loro profilo su Facebook, scrivo loro un messaggio, invio una mail. Guardare il mio profilo è la prima cosa che faccio quando rientro a casa, e lo stesso faccio quando vado a dormire. Lunedì sera, invece, il blackout ha mandato in tilt anche me, ero arrabbiata perché mi sentivo sola e dimenticata”.
Questa l’accorata comunicazione di un’adolescente che, schiavizzata come molti altri giovani dai feticci creati dal consumismo, lunedì 4 ottobre è diventata vittima dei propri stessi irrefrenabili bisogni, a causa del malfunzionamento del sistema di messaggistica WhatsApp e dei reticoli di aggregazione virtuale da lei frequentati, Facebook e Instagram.
Agenzie di socializzazione
I social, infatti, sono delle vere e proprie agenzie di socializzazione in quanto il loro utilizzo consente ai giovani di cominciare a delineare la propria identità creando e aggiornando un profilo per esprimere sé stessi, mettersi in gioco, allacciare contatti con persone che la pensano come loro. Aldilà di ogni pregiudiziale diffidenza su razza, genere o classe, volontariamente si aggregano in base agli stessi gusti e a interessi comuni, condividono ciò che suscita in loro curiosità dando vita ad una cultura partecipativa convergente, senza confini e senza vertici,intessuta di confronti, discussioni, prese di posizione su vicende o argomenti di comune interesse, al punto tale da sviluppare in loro una sensazione di identificazione con un determinato gruppo di persone che presentano connotazioni simili alle proprie. E il tempo che trascorrono sulle piattaforme la dice lunga sull’appagamento che ne riscuotono: tale gratificazione è strettamente connessa all’immediatezza di intrecciare liberamente rapporti interpersonali e mantenere contatti costantemente attivi grazie alla velocità dei tempi di comunicazione e all’opportunità di rendere disponibili all’attenzione del singolo, di un ristretto gruppo di soggetti o del mondo intero, esperienze, pensieri, idee, stati d’animo e opinioni intorno a qualsiasi questione, nel momento stesso in cui avviene la connessione e senza alcuna limitazione di accesso.
Una “confort zone” come antidoto all’insicurezza
Ciò consente ai giovani di sviluppare la consapevolezza di una realtà sociale, o dilatando e incrementando la sfera sociale già esistente o iniziando a costruirsi un ventaglio di conoscenze.
Questo perché oltre a rafforzare la loro fiducia e l’appartenenza ad una nuova forma di cittadinanza, l’uso dei social contribuisce anche ad eludere gli oneri e i rischi tipici dei rapporti comunitari reali offrendo un rifugio sicuro ed ospitale per tutti coloro che incontrano difficoltà a stabilire relazioni face to face per timidezza o per incapacità di gestire la complessità dei legami interpersonali reali: i social rappresentano una nicchia dove potersi rintanare per allontanare il timore di sentirsi messi in discussione o respinti, una sorta di comfort zone come antidoto a insicurezza e isolamento.
La solitudine incute paura
La solitudine, scatenata dalla mancanza di significativi rapporti interpersonali o dalla discrepanza tra le relazioni umane che desidererebbero e quelle che effettivamente riescono ad intrattenere, incute paura per il senso di vuoto e di fragilità che trasmette: più ci si sente soli, più s’innesca quel meccanismo che muove l’essere umano, animale sociale per eccellenza, alla spasmodica ricerca – ai fini della propria sopravvivenza – di altri soggetti con cui poter attivare rapporti amicali immediatamente fruibili. E allora basta un click per colmare il vuoto interiore e sconfiggere l’invadente presenza della solitudine sociale, così come è sufficiente un altro semplice click per estromettere un soggetto disturbante.
Una forma di amicizia “liquida”
In altri termini, digitare il tasto “mi piace” aiuta a sentirsi più forti poiché contribuisce ad abbattere barriere di timidezza e di paura consentendo di stringere una fitta rete di rapporti amicali immediatamente fruibili con persone che hanno qualcosa in comune con noi e respingere gli “amici” scomodi, diversi, lontani dalle proprie aree di preferenze. E questo perché le “amicizie” che si intrecciano sui social sono relazioni mobili, liquide, in continuo divenire, di carattere puramente funzionale e consumistico. I social, piattaforme virtuali frutto della libera scelta degli utenti e a cui si può accedere e uscirne disinvoltamente, propongono un modello di interazione fondato in maniera preponderante sulla funzionalità e godibilità della relazione. È vero che, a proposito dei rapporti virtuali, si parla di “amicizia”, ma gli user sanno bene come il termine “amicizia” abbia subìto sul web una forte dilatazione, diventando assai generico e abusato per la propensione ad indicare relazioni virtuali di vario genere e grado, fondate sul principio dell’uso e consumo.
Il bisogno di essere sempre connessi
Il mondo dei social si svela, al nostro sguardo, come un universo sterminato che si dilata in maniera incontrollata, una realtà socio-temporale dispiegata in ogni suo punto sotto il medesimo orizzonte, una dimensione espressa nella sincronizzazione delle azioni collettive. Un universo attraente, stimolante e ricco di opportunità d’incontro, capace di catturare per un tempo progressivamente sempre più ampio l’attenzione soprattutto dei più giovani.
Il loro intento? Il più delle volte non esiste un bisogno effettivo o un’urgenza reale, sembra piuttosto che lottino contro una forza misteriosa che li costringe ad un loro uso quasi maniacale: mente e mani sui dispositivi, aprono e chiudono le app, controllano ripetutamente i post e i follower, e ripongono lo smartphone nello zaino o in tasca; di lì a poco una pulsione intensa e incontenibile li costringe a riprenderlo, e a dargli un’occhiata per sincerarsi che dal display non sia uscito nel frattempo qualcosa di cui prima non si erano accorti, in preda al timore costante di non essere raggiungibili e di restare, conseguentemente, tagliati fuori.
La scomparsa dell’attesa
Questa delirante immersione nella realtà virtuale può contribuire, in molti casi, a generare corto circuiti emozionali e disagi interiori tali da sviluppare l’esplosione di un nuovo malessere, quello della dipendenza patologica dai social. Le motivazioni possono essere molte: la febbrile ricerca di una conferma della propria esistenza nell’essere percepiti in Rete dagli altri; la convinzione dell’onnipotenza stessa della Rete che, sopraffacendo tempo e distanze, è in grado di creare virtualmente relazioni interpersonali senza ruoli, vincoli e convenzioni; la necessità di ottenere riscontro ad un legittimo e fisiologico desiderio di ascolto e di considerazione. Tutto questo sempre a disposizione, nell’attimo stesso in cui lo si desidera.
Una nuova forma di dipendenza
Questa parossistica ricerca di appagamento che molti affidano alla dilatazione socio-temporale offerta dalle piattaforme virtuali determina una dipendenza dai social che, pur in assenza di sostanza, produce gli stessi effetti di una droga, di una progressiva disgregazione delle esperienze e delle dinamiche della vita reale, e una sempre maggiore alienazione sociale ed affettiva.
Oggi si parla, infatti, di nuove dipendenze o “New Addictions”: una vasta gamma di attività lecite e socialmente riconosciute, gestite però con comportamenti anomali, smodati o poco consapevoli, tali da sconvolgere e invalidare l’esistenza stessa del soggetto e del suo sistema di relazioni.
Il disturbo da uso incontrollato e convulso dei social e, più in generale, della Rete, ha riscosso una certa attenzione da parte della comunità scientifica, ma allo stato attuale non è stato ancora classificato come un disturbo psichico vero e proprio. Si tratta semplicemente di una droga per lo spirito, della quale sono stati identificati i tratti comportamentali tipici, nonché i sintomi da astinenza, come quelli manifestati da quanti, come Marta, hanno vissuto la temporanea interruzione dei processi comunicativi virtuali.
Verso un’educazione responsabile
Per uscire da questo circolo vizioso sarebbe necessaria l’educazione ad un utilizzo critico, libero e consapevole dei social e degli strumenti digitali in genere, l’acquisizione di una pratica di vita etica e responsabile attenta alla condizione umana nella sua interezza e complessità, e un certogrado di autodisciplina. A significare che, per garantire all’essere umano il raggiungimento di un giusto equilibrio socio-affettivo, è necessario anche che egli riscopra la gioia del fare disinteressato, del piacere di coltivare i propri talenti senza fini immediati e lontano da inopportuni specialismi, di recuperare il valore del tempo da trascorrere in compagnia nella dimensione di una relazione vera e genuina, intrisa di tenerezza e di ritrovata fisicità.