Il prolungato infuriare della pandemia ha portato con sé, insieme con i lutti e l’incertezza verso il futuro, la precarietà del lavoro e la crisi economica, anche la diffusione di “sindromi”, che, pur già note in psicologia, non avevano prima mai interessato fasce così larghe di popolazione. Ormai è chiaro che la quarantena da Covid-19 lascerà in ciascuno di noi strascichi di paure, angosce, fobie; in molti, purtroppo, resteranno ferite difficili da rimarginare.
Dalla sindrome della capanna alla sindrome da sequestro
In primis, è in aumento la cosiddetta “sindrome della capanna”: la resistenza a lasciare i confini della propria casa, la difficoltà ad abbandonare, anche se per poco, gli spazi ristretti che a lungo ci hanno fatto sentire al sicuro. Sul lato opposto, dicono gli psichiatri, si colloca la “sindrome da sequestro”, cioè la sensazione di essere imprigionati e privati ingiustamente della propria libertà, che spinge a rompere le catene per riversarsi in strada, in una sorta di rito apotropaico contro l’aggressione del virus.
A prima vista, i due disturbi sembrano segnare uno spartiacque tra generazioni. Dalla sindrome della capanna paiono afflitti soprattutto gli adulti: sono tanti quelli che, archiviata la transitoria sensazione di leggerezza provocata dallo smart working, messa da parte anche l’abitudine a vestirsi di tutto punto per le video-riunioni, ora passano le giornate in tuta, se non in pigiama, trovando conforto tra le quattro mura della loro casa, e tendono a procrastinare o, peggio, a delegare gli impegni che richiedono obbligatoriamente di affrontare il mondo esterno. La popolazione dei “sequestrati” annovera in apparenza tra i suoi componenti specialmente i giovani, che scalpitano di fronte ai divieti e affollano i bar e le piazze come per celebrare una sfida e per affermare una loro versione del carpe diem. Le cose però non sono così semplici: tutti, a prescindere dall’età, abbiamo paura di tornare ad affacciarci alla normalità, perché sappiamo che la normalità non è più quella di prima e dobbiamo ridisegnarne i confini.
Dalla video-fobia al device compulsivo
E non è finita qui, perché ci sono le sindromi “da collegamento”. Da un lato, abbiamo la “video-fobia”, cioè il rifiuto della digitalizzazione e della subordinazione al lavoro telematico, aggravata dall’impotenza che ci coglie quando la connessione oscilla, la linea va e viene, le conversazioni, o le lezioni in modalità telematica, si bloccano sul più bello. Dall’altro lato, si trova l’attaccamento compulsivo ai devices, che sostituiscono le relazioni sociali, anzi ne stanno cambiando i connotati. Una spia è la costante crescita di popolarità, dal lockdown in poi, della piattaforma Omegle, che è profondamente diversa dai social finora più diffusi. Si tratta di una chat “roulette”, come è stata definita, alla quale si accede in forma anonima e senza registrazione, per comunicare con uno sconosciuto di ogni parte del mondo. Basata sullo slogan “Talk to strangers!”, in teoria è vietata agli utenti di età inferiore ai 13 anni e, sempre in teoria, è dotata di un filtro per i contenuti inappropriati; tuttavia, vi proliferano video erotici e, proprio lo scorso febbraio, in Inghilterra si è iniziato a parlare di casi di molestie sessuali perpetrate da adulti che, approfittando dell’anonimato e dell’impossibilità di registrare le conversazioni, provano a interagire con minori.
Le ferite nella scuola
E nella scuola che succede? La DAD ha risolto, durante la prima ondata, un’emergenza ed ha anche aperto nuovi scenari, ma non si può negare che il suo utilizzo prolungato abbia creato una serie di problemi. E non ci riferiamo solo al fatto che l’apprendimento è sostanziato, in modo imprescindibile, da componenti affettive e sociali: bisogna anche pensare alla riduzione del tempo-scuola, che è pensata per non costringere i ragazzi a troppe ore davanti al pc ma impoverisce contenuti e competenze, allo stop-and-go quando emergono casi di positività e si va in quarantena, alla difficoltà crescente per gli insegnanti di coinvolgere e motivare gli alunni, per i genitori di organizzare il lavoro se devono aiutare i figli ancora piccoli nell’accedere alle piattaforme o nel caricare e scaricare compiti e materiali. Non mancano contraddizioni: specialmente laddove più a lungo si è continuato a ricorrere ad attività a distanza, gruppi di alunni e di insegnanti, che all’inizio dell’anno reclamavano il diritto di tornare a scuola, hanno fatto dietro-front e si lamentano delle riaperture. Fioriscono le iniziative di sportelli psicologici di supporto, per aiutare ad affrontare le ansie e lo stress da contagio, ma anche le ripercussioni della clausura forzata: peccato che, spesso, si debbano organizzare sedute on-line.
All’inizio abbiamo parlato di ferite. Che siano profonde lo dimostra quello che è successo in un liceo scientifico di Treviso: gli alunni di una classe si sono presentati in classe con un cerotto, per esprimere simbolicamente la sofferenza, “invisibile agli occhi”, come hanno detto, di un anno di restrizioni.
La cura educativa
Per provare ad arginare le nuove sindromi e a ricucire le lacerazioni interiori, non c’è altra strada che restituire pienamente significato alla cura educativa, che non è cura psicologica, non è una proposta consolatoria o assistenziale, ma è una sfida e una danza sull’abisso del rischio che guarda al futuro possibile. Lo hanno sottolineato di recente le “Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei”, un documento fondamentale, che costituisce la summa del magistero di Giancarlo Cerini e che ogni insegnante dovrebbe leggere, perché le sue indicazioni valgono per tutti, e non solo per quelli che si occupano dei più piccoli. Cura educativa vuol dire rispetto per ciascuno, nella sua unicità e diversità, capacità di coniugare compiutezza e distensione dei tempi, empatia ed autorevolezza, di aprire spazi di ricerca, di interrogazione e di piacere della verità, anche di far scoprire il valore della regola, non come vincolo e condizionamento, ma come indice di senso che dà corpo all’essere con gli altri e per gli altri.
Il problema più grave delle nuove sindromi sta nel fatto che nascono dalla paura e la alimentano; alla cura educativa spetta il compito di mettere la paura alle strette.