I concorsi alla prova dei DPCM
Il Dpcm del 3 novembre 2020, prevede la sospensione «delle prove preselettive e scritte delle procedure concorsuali pubbliche e private e di quelle di abilitazione all’esercizio delle professioni». Cosa significa questo per la scuola? Le procedure concorsuali in essere sono tre: il concorso straordinario per chi ha almeno tre anni di servizio, il concorso ordinario per infanzia e primaria e quello ordinario per la secondaria.
Che conseguenza avrà questa sospensione? Ovviamente dipende da quanto durerà la sospensione, ma arrivati a questo punto è ragionevole ipotizzare che l’unica procedura che potrà concludersi entro l’avvio del prossimo anno scolastico è quella straordinaria, che riguarda circa 65.000 candidati per 32.000 posti. Di questi, oltre il 60% ha già svolto le prove e la partecipazione dei candidati è stata in media dell’88%, nonostante le preoccupazioni della vigilia che la paura del contagio potesse limitare la partecipazione. Le procedure ordinarie, invece, quasi certamente produrranno effetti solo a partire dall’anno scolastico 2022/2023 e i posti messi a concorso per quelle procedure sono quasi 13.000 per la primaria e 34.000 per la secondaria.
Un precariato senza fine
La prima conseguenza per la scuola dunque è che il prossimo anno potremo coprire con personale di ruolo al massimo un terzo dei circa 95.000 posti in organico di diritto che si prevede che saranno vacanti e disponibili. Se non interverranno correttivi nei prossimi mesi, a questi si aggiungeranno come minimo 15.000 posti in organico di fatto e 55.000 supplenti in deroga sul sostegno sui quali non si può assumere a tempo indeterminato e che saranno assegnati a supplenti. Il totale sono più di 130.000 docenti precari, in una situazione molto diversificata nel paese. Le graduatorie dalle quali assumere i supplenti infatti sono esaurite per moltissime classi di concorso, le più importanti, in più di metà del paese.
Come si è arrivati a questa situazione?
La questione “sostegno”
Per quel che riguarda i docenti di sostegno i fattori sono essenzialmente tre e tutti strutturali: 1) un numero spropositato di supplenti cosiddetti in deroga (una deroga che riguarda un terzo del totale dei docenti non è una deroga, ma un fallimento del sistema); 2) il fatto che una parte dei docenti specializzati non sono stati ancora assunti per il ritardo dei concorsi; 3) il fatto che un docente specializzato sul sostegno molto spesso fa domanda di trasferimento su materia appena gli è possibile.
Come possono essere aggrediti questi problemi? Il primo trasformando una quota importante dei posti in deroga in posti in organico di diritto, il secondo dando valore di concorso alla selezione che viene fatta per essere ammessi ai corsi di specializzazione, introducendo così un automatismo tra il conseguimento della specializzazione e l’accesso all’anno di prova. Il terzo problema avrebbe bisogno di interventi più articolati e figli di uno specifico e approfondito confronto con i sindacati e i rappresentanti delle associazioni che rappresentano le persone con disabilità e le loro famiglie. Queste ultime ad esempio propongono una sorta di carriera separata per i docenti di sostegno, ipotesi che però presenta molti limiti e che forse si potrebbe limitare ad una parte residuale dell’organico, specializzato su alcune specifiche disabilità (penso ai disturbi dello spettro autistico, per esempio), da destinare non alle scuole ma alle reti di scuole.
Utilizzo più flessibile del personale, con incentivi
Le soluzioni che personalmente prediligo passano da interventi sia sul fronte più generale della mobilità, sia su quello della possibilità di utilizzare sul sostegno le decine di migliaia di docenti specializzati che attualmente sono in ruolo sulla loro disciplina. È la cosiddetta «cattedra mista», da realizzarsi solo su base volontaria, se necessario con forme di incentivazione non solo economica.
Un’ultima osservazione sul sostegno: in attesa che le riforme auspicate vadano a regime, non si può fare proprio nulla per garantire la continuità didattica per gli studenti con disabilità? Si può. Dando attuazione alla norma prevista dal decreto 66/2017 che a determinate condizioni consente di confermare il supplente sul sostegno a prescindere dalle graduatorie. Servirebbe però ripristinare la formulazione originaria della norma, quella della ministra Fedeli, perché il governo Conte I anche su questo ha introdotto ulteriori limiti che ne vanificano la portata e quindi l’efficacia.
I ritardi nella indizione dei concorsi
Per quel che riguarda le altre cattedre, la situazione attuale è figlia di opere e omissioni dei ministri Bussetti e Fioramonti (se per colpa o per dolo non sta a me dirlo). Stiamo come stiamo, quindi, non per ragioni strutturali, ma per decisioni scellerate prese tra il 2018 e il 2019. Il governo Conte I, infatti, eredita dai governi Renzi e Gentiloni la rimozione della più rilevante causa strutturale alla base del caos attuale: la mancanza di programmazione nell’accesso alla professione docente. Erano programmati per il 2018 il concorso riservato ai docenti con almeno tre anni di servizio e al massimo nel 2019 il concorso ordinario. Tutto bloccato, in attesa dell’ennesima riforma del reclutamento. Bussetti arriva a ipotizzare che per insegnare non serve alcuna formazione specifica, basta la laurea. Di fatto anche il concorso indetto da Azzolina segue questa logica, visto che è aperto a tutti. Prima conseguenza delle scelte di Bussetti è, quindi, far saltare la programmazione, la seconda è un concorso con più di 500.000 iscritti (76.000 per la primaria, 430.000 per la secondaria). Un numero di partecipanti tale da costringere a una prova preselettiva per scremare un gran numero di aspiranti docenti; tipologia di prova caratterizzata da elevata aleatorietà, che quindi dà poche garanzie di selezione dei più meritevoli.
I limiti delle procedure concorsuali
Che dire dell’età media dei partecipanti? È vero, come disse Bussetti per giustificare il superamento del FIT, che evitarlo consente di avere insegnanti più giovani? Per la secondaria, il 30,4% ha meno di 30 anni, altrettanti più di 40; la maggior parte ha tra i 31 e 40 anni: non propriamente neo laureati, come millantava il ministro del Conte I. Per infanzia e primaria (ma qui l’abolizione del FIT non c’entra, visto che riguardava solo la secondaria), solo il 13,9% ha meno di 30 anni, mentre più della metà dei candidati ha più di .40 anni (il 12% più di 50).
A me sembra evidente che per i posti comuni il meccanismo dei concorsi, come quello per la individuazione dei supplenti, non siano più meccanismi adeguati a gestire la formazione iniziale e la selezione del corpo docente. Un indizio? I numeri del concorso: era pensato sulla base di un fabbisogno teoricamente triennale, ma assumerà meno docenti di quanti ne serviranno nel solo primo anno. Un secondo indizio? L’età media dei partecipanti. Il terzo indizio? La disomogeneità territoriale delle cattedre vuote. E tre indizi, si sa, fanno una prova.
Gli effetti “perversi” della mobilità docente
Infine un breve cenno all’altro grande tema, del quale non parla nessuno e che non c’è qui lo spazio di approfondire. Qualsiasi soluzione si individui dovrà ovviamente essere coordinata con la grande problematica, questa sì strutturale, della mobilità: ogni anno chiedono il trasferimento o l’assegnazione provvisoria decine di migliaia di docenti di ruolo. I movimenti sono per lo più dalle regioni del nord a quelle del sud, scaricando sul nord la carenza di cattedre e sul sud la precarizzazione del personale. Anche su questo punto così non si può andare avanti.
In conclusione, la prima proposta che faccio è quella di aumentare il numero di posti, sia per lo straordinario, che per quelli ordinari. Nei prossimi due anni, stimando un rallentamento dei pensionamenti per la fine dell’effetto «quota 100» (sempre che qualche irresponsabile non la riproponga), il fabbisogno ammonterà a circa 120-130.000 docenti. Per i soli posti comuni (del sostegno ho scritto sopra) dovrebbero essere almeno 100.000: è quindi necessario aumentare di circa 25-30.000 i posti del concorso.
Le possibile strade alternative
Fatto questo per mettere in sicurezza l’avvio dei prossimi due anni scolastici, si può iniziare a programmare il futuro, che in estrema sintesi vuol dire scegliere tra tre strade alternative.
(1) Si introduce un percorso simile a quello della primaria anche alla secondaria. È una strada non priva di controindicazioni; elenco le principali: la scelta precoce da parte degli aspiranti, la difficoltà di progettazione per le università, la necessità di introdurre corsi di laurea a numero chiuso in tutte le facoltà o quasi…
(2) Si torna a quanto previsto dal decreto 59/2017 per la secondaria, potenziando anche i posti di scienze della formazione primaria (che potrebbe anche diventare una laurea che dà direttamente accesso all’anno di prova, in analogia con quanto ho proposto per il sostegno).
(3) Si affida alle scuole autonome o alle reti di scuole la realizzazione dei concorsi, in modo da decentrare la necessità di programmazione là dove i fabbisogni futuri sono più facilmente prevedibili e avendo maggiori garanzie che i vincitori saranno esattamente là dove servono.
Il momento di questa scelta però è adesso. E deve essere una scelta condivisa da tutte le forze politiche e dalle forze sindacali, per evitare che ad ogni cambio di maggioranza si ricominci da capo. Non ce lo possiamo permettere.