Valutazione formativa: oltre la solitudine del voto
Sappiamo che la valutazione ha funzione formativa quando l’insegnante e l’allievo, insieme, osservano il processo di apprendimento in atto e ne individuano aspetti da confermare, rinforzare, modificare, correggere, migliorare. Sappiamo che la valutazione formativa é quotidiana, viene dopo la consegna di un lavoro, durante un dibattito, nel corso di una ricerca. E’ parte integrante della didattica, niente numeri, solo parole. E’ constatazione condivisa dell’errore, gioia condivisa del suo superamento. E’ imparare a guardare ciascun prodotto (ciascun “esito parziale”) come frammento provvisorio di un processo da costruire insieme, verso obiettivi condivisi. Non c’è la frustrazione né l’autocompiacimento, non c’è la solitudine del voto.
Un atteggiamento non giudicante dell’insegnante giova non solo all’allievo osservato, ma alla serenità del clima d’aula, alla motivazione e alla costruzione del gruppo, alla promozione di una cultura dell’errore come variabile regolare e funzionale all’apprendimento, alla costruzione di atteggiamenti autovalutativi e correttivi.
Valutazione sommativa: non è solo questione di “media aritmetica”
Sappiamo che la valutazione ha funzione sommativa quando dà conto dell’esito ottenuto a seguito di un percorso di apprendimento.
Nella scuola delle conoscenze, alla valutazione sommativa (voto quadrimestrale o finale) si arrivava attraverso la media numerica di “voti sommativi parziali”: su Napoleone sai 8, su Garibaldi sai 6, quindi “sommativamente” sai da 7. Nella scuola delle abilità e delle competenze la media numerica dovrebbe essere stata scavalcata dal fatto che gli apprendimenti sono progressivi nel tempo: se a febbraio la tua comprensione del testo vale 6 e ad aprile è migliorata e vale 8, io non posso metterti 7, devo metterti quello che “sommativamente” sai fare ad aprile, cioè 8. Ma questa logica non sembra esser padroneggiata da tutti gli insegnanti, e la media numerica non è mai scomparsa, forse perché la scuola delle conoscenze (intendo dire la scuola che fornisce solo conoscenze!) anch’essa non è mai scomparsa.
Nella scuola della insindacabilità del docente, cioè quando appariva normale che la maestra Tale “mettesse voti alti” e la maestra Talaltra “mettesse voti bassi”, era cosa facile “mettere il voto”, fra criteri espliciti ed impliciti, valutazioni ed emozioni. Ed anche nella scuola dei giudizi non era poi così difficile giocare con le parole del risultato ottenuto o del processo attivato, né compilare un format con i puntini in bianco, da riempire con gli aggettivi adatti a Pierino o a Pasqualino (da scegliere tra quelli preventivamente definiti sulla base di adeguate scale semantiche), e il gioco era fatto. Ora non è più così facile, perché le norme vogliono che la valutazione sia responsabilità collegiale e non solo individuale, e che rispetti i principi della omogeneità, della equità, della trasparenza, della documentabilità dei giudizi.
La complessità della valutazione, tra voti e giudizi
Oggi la valutazione sommativa espressa con voti decimali pone domande alle quali non è facile dare risposte condivise: cosa mettiamo dentro al voto? I risultati verificati? I processi seguiti? Che peso dare al processo rispetto al risultato? Come si modifica la scala dei livelli se nel voto ci metto anche il processo? Non diventa ambigua e di difficile lettura? Come documentare il processo? Ma il voto attribuito deve tener conto dell’impatto sociale (trasparenza comunicativa sul livello di preparazione raggiunto, giustificazione delle decisioni su ammissione/non ammissione, recupero, differenziazione dell’offerta) o dell’impatto sull’allievo (ricaduta psicologica e motivazionale nell’immediato e nel futuro prossimo)? L’attribuzione del voto che rapporto ha con gli standard d’Istituto e che rapporto ha con il contesto classe? L’Istituto predispone prove parallele per omogeneizzare prove di verifica e attribuzione dei voti? …
Anche se le difficoltà in tal senso sono avvertite nella scuola secondaria più che nella primaria, la valutazione sommativa è comunque una pratica complessa e densa di responsabilità. Se deve essere espressa in voti decimali e se vuole risultare attendibile, trasparente, omogenea, equa all’interno di un Istituto, richiede la condivisione di molti concetti, la risposta a molti problemi, l’adozione di molte scelte, la istituzione di molte regole.
La valutazione retro-agisce sulla didattica
L’auspicio di molti, una volta superata l’emergenza e concluso quest’anno scolastico con le modalità previste dall’emendamento recepito nella legge 6 giugno 2020, n. 41 (di conversione del Decreto Legge 22/2020), è quello di costruire nella scuola di base una cultura prioritariamente formativa della valutazione, e di portare a regime la sostituzione dei voti con giudizi. E’ un cambiamento importante, ma credo che vadano condivise alcune consapevolezze.
La prima sta nel fatto che la valutazione formativa, per esser tale nei confronti dei processi di apprendimento individuali, richiede non solo specifiche competenze dell’insegnante, ma anche la possibilità di costruire le condizioni del miglioramento, mirate e individualizzate. Esistono scuole, in Europa, in cui la valutazione è marcatamente formativa e solo al termine dei percorsi si valuta sommativamente. Ma sono sistemi flessibili nei tempi, negli spazi, nei gruppi, nei piani di studio, e in cui l’allievo può fruire realmente ed efficacemente di tutoraggi e sostegni per le carenze e le problematicità via via rilevate.
Nella scuola italiana il recupero delle carenze e la differenziazione dell’offerta esistono in linea di principio e nelle emanazioni normative, nella personale disponibilità e competenza di singoli insegnanti, nella organizzazione autonoma di Istituti eccellenti.
Ma alla necessità crescente di intervenire per correggere processi problematici non corrisponde una strutturale capacità del sistema di offrire tempi, spazi, risorse, competenze dedicate.
Non basta una “sbrigativa” promozione alla classe successiva
La rigidità dei tempi (progressione di tutti per anno scolastico), degli spazi (gruppi classe), delle risorse (organico quantitativamente e qualitativamente inadeguato), dei piani di studio (curricoli uguali per tutti), fa sì che la valutazione formativa sia tale per il valore psicopedagogico di cui è portatrice (che comunque non è poco!), ma non per una reale e verificabile efficacia migliorativa. Alle carenze rilevate il sistema risponde spesso non con sostanziali “promozioni” delle persone e degli apprendimenti, ma con sbrigative “promozioni” degli allievi alla classe successiva. Non c’è qui lo spazio per considerazioni sull’efficacia di PIA e PAI, già accolti dai social con video e barzellette.
Rompere la rigidità del sistema e combattere, nei diversi ordini, la conservazione delle attuali ambiguità valutative non è facile, ma la ricerca educativa può porsi obiettivi di lungo termine: se i tempi non sono maturi per una eliminazione delle ripetenze e delle rigidità del sistema, si può però provare a pensare segmenti in cui la ripetenza non esista, in cui l’apprendimento sia motivato dal piacere di apprendere, dalla responsabilità individuale, dall’efficacia del contesto e non dalla paura o dall’attesa della voto; si può forse provare ad essenzializzare i curricoli, ad inventare modalità di diversificazione dell’offerta, ad esigere organici davvero funzionali e risorse finanziarie adeguate, per supportare chi, nella valutazione formativa, risulti bisognoso di tempi/spazi/oggetti diversi. Quindi si può forse provare a ridurre la quantità delle “valutazioni sommative”, conservandone la pratica solo al termine dei segmenti costitutivi del curricolo. Si può forse provare, infine, ad esigere nellaformazione di base dell’insegnante competenze tecniche forti, ma anche forti competenze psicologiche, relazionali, comunicative, valutative e metodologico-progettuali.
In sostanza, si può lavorare da subito per una cultura e una prassi diffusa della valutazione formativa, ma intanto disegnare riforme di respiro ampio, che non parlino di inclusione, ma che costruiscano le condizioni dell’inclusione.
Si fa (troppo) presto” a dire “ritorno al giudizio”
Anche sul ritorno ai giudizi il discorso non è semplice. Conosciamo bene le peripezie attraversate dalla valutazione negli ultimi decenni, le ragioni pedagogiche che spinsero la scuola dell’obbligo alla eliminazione dei voti e ad una “promozione” di tutti e di ciascuno, le ragioni meno pedagogiche che spinsero, in epoche più recenti, alla condanna dei giudizi ed al ripristino dei voti in decimi.
Oggi sappiamo cosa possono essere i giudizi: sappiamo che possono assumere forme sintetiche o analitiche, standardizzate o personalizzate, che possono essere espressi con lettere o aggettivi o narrazioni e descrizioni estese, che possono raccontare verità o esser pieni di parole che dicono e non dicono, risposte mancate sia ai bisogni pedagogici dell’allievo che alle esigenze sociali di documentazione e trasparenza.
Oggi, se ripristiniamo i giudizi, i modelli di descrizione non mancano: il portfolio europeo delle lingue e i modelli nazionali per la certificazione delle competenze hanno già tracciato la strada da seguire e indicato i criteri per la costruzione delle scale di livello: quantità/complessità di contenuti e compiti, qualità/autonomia delle prestazioni, familiarità/novità dei contesti. Ma se è vero che i modelli di descrizione son tracciati, è vero anche che per poterli rendere strumenti attendibili e trasparenti occorre un grosso e competente lavoro collegiale preventivo: occorrono analisi delle discipline e delle competenze, rubriche descrittive che guidino la didattica e rubriche valutative che guidino la verifica, individuazioni condivise di cosa, nei contenuti, nei compiti, nei problemi, nelle abilità stimolate, nelle prestazioni richieste, sia semplice o complesso, noto o non noto. Occorre che si sia realizzata una didattica intenzionale e consapevole, coerente con quanto si è perseguito prima e poi valutato e descritto.
La “nuova” valutazione non si improvvisa
In assenza di una seria ricerca educativa e didattica i giudizi rischieranno, come sovente è accaduto, d’essere inattendibili e menzogneri.
La valutazione, per esser buona, ha bisogno di una buona didattica. E una didattica, per esser buona, ha bisogno di insegnanti empatici e competenti.
In sostanza ho paura che avesse ragione Benedetto Vertecchi quando affermava: (…) di fronte alla crescente difficoltà della scuola nello svolgere il suo compito educativo l’unica soluzione è sembrata quella di intensificare le pratiche di valutazione. Ma la valutazione non si improvvisa. Dal punto di vista tecnico suppone un’accumulazione paziente di informazioni in archivi diacronici per l’individuazione di tendenze nei fenomeni rilevati, la definizione di strumentari le cui caratteristiche siano state verificate sul campo, la messa a punto di metodologie e soluzioni organizzative in linea con lo sviluppo della ricerca educativa. Dal punto di vista teorico occorre elaborare ipotesi alla luce delle quali i dati rilevati acquistino significato (B. Vertecchi, Manuale della valutazione. Analisi degli apprendimenti e dei contesti, Franco Angeli, Milano 2008).
Ho paura che errori fatti in passato possano esser commessi ancora oggi, e che ci si accontenti di qualche cambiamento, pur utile, nelle prassi valutative, per non affrontare la complessità dei cambiamenti più urgenti, che stanno, a mio avviso, nella pratica didattica e nella formazione degli insegnanti.