L’irrompere dell’inutile
Mai come in questo periodo di “cattività” mi vengono spesso alla mente le parole di Pier Paolo Pasolini (PPP), il quale in “Lettere luterane” (1975) distingueva due termini erroneamente utilizzati come sinonimi: “sviluppo” e “progresso”. Si tratta, secondo uno dei nostri più autorevoli intellettuali del Novecento, di espressioni che, dopo il boom economico degli anni Cinquanta-Sessanta, sono entrate in collisione, tanto da risultare, secondo Pasolini, inconciliabili.
Lo sviluppo è voluto da un potere economico (PPP parlava di “nuovi padroni”) ossessionato dalla produzione di beni superflui. Alla massa piaceva questo modello perché in apparenza sembrava appagare i bisogni più insoddisfatti di una società povera e arcaica. Così il “dio consumo” ha finito per livellare comportamenti individuali e collettivi, tanto da essere definito da Pasolini come una forma di neo-fascismo, più pericolosa della dittatura del Ventennio.
L’irrompere dell’inutile è coinciso, secondo Pasolini, con la scomparsa delle lucciole, che annunciavano uno dei periodi costitutivi della società contadina, la maturazione del grano.
L’uomo consumatore dava (dà) sfogo ad una compulsione irrazionale, che già negli anni Settanta stava omologando stili di vita, comportamenti sociali e orientamenti culturali.
Prendersi cura della natura e della cultura
Il progresso, invece, è voluto da coloro che non sono pressati da interessi immediati da soddisfare, ma dall’esigenza di creare beni necessari. Pensiamo anche solo per un istante che cosa significa produrre strutture e investire risorse per proteggere e custodire le risorse naturali, che si stanno esaurendo: l’aria, l’acqua, le foreste, la terra…
Ma progresso significa anche conservare le bellezze costruite nel corso dei secoli; l’arte, la danza, la musica, la poesia … hanno accompagnato l’uomo, il quale, in determinati periodi storici, ha saputo coniugare la bellezza della natura con quella della cultura.
Il “Covidico” (questo è il termine coniato per descrivere l’epoca del COvid-19) in un istante ha spazzato via l’dea di uno sviluppo illimitato. Questa regressione non è stata causata da una flotta di bombardieri carichi di armi atomiche, ma da un organismo addirittura invisibile! In un attimo sono andati in fumo milioni di posti di lavoro, percentuali stratosferiche di PIL e purtroppo centinaia di migliaia di persone.
Tra il passato e il futuro
Per coltivare la speranza di un futuro diverso, è forse giunto il momento di volgere lo sguardo al passato (come fa l’Angelus novus di Paul Klee).
La scuola del creato e del costruito
Che cosa c’entra Pasolini con la scuola del dopo (durante) coronavirus? Per me, moltissimo.
Dal secondo dopoguerra ad oggi (in parte anche prima), sull’altare pagano del “dio prodotto”, l’uomo ha commesso ogni tipo di violenza verso la nostra “piccola Terra”. La natura saccheggiata e violentata oggi si sta rivoltando contro un’avida minoranza di umanità matrigna.
Così durante e dopo il Covidico, abbiamo davanti a noi due strade:
– insistere nel modello economico che ci ha portato a vivere questo dramma planetario: distruggeremo così il pianeta e noi con lui;
– ricostruire nuovi equilibri, sapendo fare tesoro anche del senso della misura che gli antenati ci hanno trasmesso.
Sia ben chiaro, non sono un nostalgico del “tempo che fu”. La nostra generazione, quella dell’immediato dopoguerra, è figlia di una società povera, ingiusta, iniqua, sfruttata. Nessun rimpianto, quindi!
Il 2020 anno spartiacque: fine delle illusioni
Ma i nostri padri, i nostri nonni avevano a cuore le sorti del creato! I campi seminati in autunno venivano disegnati da un reticolo di solchi grandi e piccoli che regolavano il flusso delle acque fino a farne un prezioso ricamo. I boschi attentamente ripuliti. I castagneti a primavera si trasformavano in giardini… I bordi delle strade erano periodicamente ripuliti per evitare il dilavamento delle acque piovane. Si potrebbe continuare all’infinito.
Poi, come sosteneva Pasolini, alla cura del creato è subentrata l’ossessione del costruito. Le città sono state sventrate, i monti abbandonati, le acque captate, le foreste bruciate, i deserti perforati, … Insomma, si è cominciato a pensare al futuro come ad un cantiere senza fine nel quale l’uomo pensava di essere padrone di tutto. Questa illusione oggi si è infranta per sempre.
Comunque si veda il tempo che stiamo vivendo, il 2020 determinerà uno spartiacque tra un prima e un dopo. La finalità precipua della scuola dovrà diventare il “prendersi cura” di noi, degli altri e del nostro habitat. Investire nel futuro significa trasformare le città, i paesi, i quartieri in luoghi dove i giovani devono essere educati a forme concrete di responsabilità sociale, anche attraverso la presenza di figure educative “distribuite” sul territorio, che dovranno diventare una massiccia forma di lavoro.
Distanziamento nel reale (non dal reale!)
Noi e i nostri ragazzi, per costruire un futuro migliore, dobbiamo saper volgere lo sguardo verso quel passato premuroso e rispettoso degli altri e dell’ambiente.
“Vorrei che le persone che hanno ricevuto un’istruzione potessero capire il mondo in un modo diverso”. Così si è espresso recentemente Howard Gardner in un’intervista prima della pandemia. Parole che in questo momento ci sollecitano a ripensare l’educazione, la formazione e l’apprendimento.
Diciamo spesso che “niente sarà più come prima”. Questo auspicio, ripulito da una certa enfasi retorica, significa una cosa molto chiara: chi sarà chiamato a reggere le sorti delle Nazioni non dovrà più permettere che il nostro pianeta sia distrutto dagli interessi di una vorace minoranza che, mentre accumula ricchezze per sé, affama il resto del genere umano. Chi brucia l’Amazzonia per introdurre nuove coltivazioni agricole deve essere fermato, costi quel che costi. E così per tutte le “Amazzonie” del mondo.
Poi ci sono le tante “piccole amazzonie” a noi vicine. Magari prodotte anche da noi stessi!
Cambiare stili di vita (e di apprendimento)
Che cosa significa allora educare i giovani ad una nuova consapevolezza, ad un’autentica “mutazione stilistica” della propria esistenza, a cominciare dal bambino dell’asilo nido fino allo studente universitario?
Innanzi tutto, meno contenuti decontestualizzati e più apprendimenti nei territori in cui viviamo. L’educazione si fa nell’incontro con la realtà. Non entro nel merito della realtà virtuale, di cui rischiamo di subire un fascino eccessivo. Eviterei in ogni caso di utilizzare il coronavirus per immergerci in una sorta di “sbornia digitale” che sta trasformando l’insegnante in un teledocente. L’educazione è prossimità, sostegno fisico, odore di comunità. Il digitale crea vicinanza, non prossimità!
Impariamo allora dalla lezione del COVID a far sì che i giovani amino il Bello (della natura e della cultura) e il Buono (noi insieme agli altri e al mondo).
Se il distanziamento fisico sarà la parola d’ordine dei prossimi mesi, rispettiamolo andando a scoprire i saperi negli ambienti e nei contesti dove ogni giorno si costruiscono. Nel bosco, lungo i torrenti, sui versanti dei calanchi, nei campi coltivati, nelle aziende …
Meno indoor e più outdoor
Meno indoor e più outdoor, più mostre, musei, chiese, siti archeologici, … Soprattutto, meno preistoria (storia antica) e più storia del Novecento! Quanti studenti sanno che la spagnola nel 1918-1920 ha fatto nel mondo oltre 50 milioni di morti? Che cosa conoscono i giovani delle leggi razziali del 1938? Perché festeggiamo il 25 aprile? Che cosa ha significato la caduta del muro di Berlino? …
Dobbiamo educarci tutti a costruire una civiltà del vero e dell’autentico. Non in astratto, ma nei comportamenti quotidiani, a cominciare da una reale cittadinanza dei più piccoli, ai quali si chiede di essere direttamente responsabili dei loro comportamenti, senza aiuti sostitutivi di adulti spesso impauriti dalle insistenti richieste dei figli.
È dentro agli ecosistemi che i bambini, gli alunni e gli studenti impareranno a farsi buone domande e a pensare buone risposte. Non solo risposte teoriche, ma soprattutto atteggiamenti coerenti nei gesti quotidiani in famiglia, a scuola, nei luoghi di incontro …
L’ecologia integrale: uomo e natura camminano insieme
Nella Laudato si’ Papa Francesco indica una primaria finalità dell’educazione nel difficile momento che stiamo vivendo: l’importanza della cura.
Mentre coltivare, sottolinea il Pontefice, significa arare o lavorare un terreno,
custodire vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò
implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura.
Chi inquina un fiume non uccide soltanto una risorsa naturale limitata, ma anche se stesso e gli altri. La simbiosi tra la salute del pianeta e quella dell’uomo deve diventare la finalità precipua della scuola e della società. Non possiamo più continuare (sono ancora le parole del Papa) a pensare di “rimanere sempre sani in un mondo malato!” (Omelia pronunciata venerdì 27 marzo 2020 sul sagrato di Piazza san Pietro deserta).
Tutti gli insegnamenti scolastici dovrebbero partire da questa istanza. Mentre un alunno impara la matematica, l’italiano, l’arte, la danza … si approprierà anche di quei principi che lo aiuteranno a diventare cittadino responsabile e attivo costruttore di universo rispettoso degli altri e del mondo.
Penso, in particolare, a progetti di Service Learning, mediante il quale l’alunno, mentre studia il sottobosco, si impegna anche a ripulirlo dalle immondizie lasciate dai numerosi passanti incivili (e in Italia sono tanti, anche fra i giovani!).
Proteggere, curare, preservare
In sintesi, il “Covidico” dovrà costringere ognuno di noi a prenderci cura concretamente dei piccoli e grandi ecosistemi che la terra riesce ancora a custodire, modificando radicalmente le vecchie “forme mentali”. In questo senso, la scuola può fare molto.
Una cosa è certa: il nostro pianeta non potrà più essere dilaniato a piacimento come abbiamo fatto negli ultimi trecento anni. A meno che non siamo disposti a mettere in conto il pericolo catastrofico di epidemie in sequenza. Rischieremmo, in questo caso, di dare ragione ad Albert Einstein, il quale con un linguaggio paradossale ma molto vero e profetico ammoniva: “Io non so come si combatterà la terza guerra mondiale, ma so che la quarta si combatterà con pietre e bastoni”.